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Autore: Angel_lilac    01/06/2023    0 recensioni
Avevamo messo piede in casa da pochi minuti e tu non avevi potuto gioire dei suoi profumi, gli stessi che io avevo sognato per tutto l’inverno. Non gioisci mai di niente. Piangi ricordando di quando eri leggera, così leggera che l’Ander avrebbe potuto portarti via, ma cosa è cambiato davvero?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ricordi quando nascondevi il tuo volto nella seta e non lasciavi che ammirassi le tue ciglia nere? Si direbbero identiche alle mie se i raggi del sole non avessero la tendenza ad accarezzarne le punte, creando un dolce riflesso biondo. Quando hai smesso di singhiozzare, temevo avessi perduto i sensi: ogni parte del tuo corpo aveva cessato di muoversi e i tuoi capelli avvolgevano il cuscino come se ci si volessero ancorare.
Nonostante non potessi vederlo, immaginavo il tuo volto contratto, con quelle rughe che ti si formano sul naso anche quando ridi. Qualche secondo di più e ci saresti annegata in quel cuscino, con le lacrime che avevano preso a scorrere tra le sue pieghe fino a depositarsi stremate sulle iniziali ricamate. Mamma ancora non te lo perdona: quella federa di seta era un regalo di nozze e tu lo sapevi, meglio di chiunque altro. Tu che ricordi ogni dettaglio di questa casa, dal modo in cui si increspano le onde nel quadro dello studio di papà alla data sul calendario del ripostiglio, le cui pagine non vengono sfogliate ormai da anni. Potresti camminare ad occhi chiusi tra questi corridoi e scommetto che non sfioreresti nemmeno una parete.
Improvvisamente avevi allontanato le guance fradice da quella federa perlata, ma ancora non volevi che incontrassi i tuoi occhi. Quando eravamo piccoli ed i nostri letti stavano paralleli nella stessa stanza, eri solita chiedermi il permesso per voltarmi di spalle, in modo che non mi offendessi se i nostri corpi non si specchiavano durante il sonno.
Io me ne stavo immobile, senza sapere come consolarti e con la preoccupazione per come avrebbe reagito mamma di fronte a quella federa martoriata. Seppure il suo affetto per quell’oggetto potesse sembrare incoerente, proveniva da suo cugino da parte della nonna, per qualche ragione la persona che le era più cara.
Avevamo messo piede in casa da pochi minuti e tu non avevi potuto gioire dei suoi profumi, gli stessi che io avevo sognato per tutto l’inverno. Non gioisci mai di niente. Piangi ricordando di quando eri leggera, così leggera che l’Ander avrebbe potuto portarti via, ma cosa è cambiato davvero? Vivi nella malinconia e respiri l’aria che hai accumulato nel passato. Respiri appena e il tuo cuore batte lento. Di questo passo finirai per soffocarti. 

Sei rimasta rannicchiata in quell’angolo per quasi tutto il pomeriggio e io ho cucinato una crostata con le ciliegie del giardino. Ti ho vista spiarmi dalla nostra stanza mentre sfornavo la torta e la tagliavo a fette, mentre sedevo sulla tua sedia in cucina. Ho sempre pensato che quella posizione offrisse la vista migliore: attraverso l’ampia vetrata si scorgeva la terrazza sulla quale mamma aveva lasciato arrampicare l’edera e, allontanando lo sguardo, quell’immenso frutteto le cui piante erano solite ondeggiare, spettinate dal gelido vento invernale o dai temporali d’Agosto. Avevo sempre provato gelosia per tuo posto a tavola, ma non avevo mai chiesto di scambiarlo perché tu amavi guardare le piante danzare.
Speravo ti saresti unita a me per degustare la crostata con una tisana di quelle che ti pizzicano la lingua ma ti accarezzano l’anima, come le definivi tu. Ma tu avevi gli occhi arrossati che cercavi di nascondere dietro ai capelli bruni, così sei tornata a tormentare il cuscino di seta ed io ti ho raggiunta quando il sole era già calato. Te ne stavi seduta al centro della stanza e facevi scivolare le dita sul pavimento, come se volessi raccogliere la polvere depositata da quando mamma era partita. Con i polpastrelli toccavi delicatamente ogni singolo tassello che componeva il mosaico al centro della stanza, assumendo espressioni così enigmatiche che sembravano dettate da sentimenti inconciliabili.  

« La mamma vuole cambiare il pavimento » avevi sussurrato senza staccare gli occhi da terra. Il vestito bianco che quella mattina aveva attirato gli sguardi di ogni passante, ora ti avvolgeva con dolcezza e ti faceva apparire ancora più misera. Hai parlato ancora sottovoce: « Dice che il parquet è più comodo da pulire e si intonerebbe con i mobili della cucina, quelli in legno di pino… ». Tenevi le ciglia basse, non riuscivi a staccare gli occhi dal mosaico che papà aveva voluto a tutti i costi dopo il suo viaggio a Ravenna. Io avevo cercato di tranquillizzarti, per quanto la tua preoccupazione non riuscisse a toccarmi. Di fatto non trovavo più parole da dirti, se non quelle che ti ripeto da anni e che probabilmente non fanno altro che intristirti ulteriormente. Così ho lasciato spazio al silenzio, finché non ho fatto per prenderti il braccio e tu hai cominciato a protestare: « Io non voglio andare da nessuna parte. Sto bene qua, dove sono ora. Non uscirò mai più da questa stanza! » Ti eri abbandonata sul pavimento e avevi puntato gli occhi sul soffitto pallido, ma il tuo sguardo era perso e so che pensavi a quando avevi cinque anni e quello stesso soffitto era dipinto di blu.
Ignorando ogni tuo lamento, avevo insistito per trascinarti fuori dalla stanza. La vista delle tue lacrime stava cominciando ad irritarmi e soprattutto volevo che assaggiassi la mia crostata di ciliegie. Tu avevi cominciato a urlare ed io, gridando ancora più forte, ti avevo detto che ti stavi comportando come una stupida. Allora tu mi avevi dato dell’insensibile e ti eri messa a lanciarmi addosso i tuoi libri con una forza che dovevi aver accumulato per tutto il pomeriggio. Ma dopo poco ti eri calmata ed avevi mangiato mezza fetta di crostata. Ti eri scusata con me ed insieme avevamo riattaccato le pagine dei libri con lo scotch ancora nello studio di papà. Per scusarti mi avevi regalato il libricino con la copertina porpora, quello con le poesie stampate in italico al centro delle pagine. L’ho riletto almeno una decina di volte. La mia preferita è quella a pagina 34.

Mamma era sparita per qualche settimana ed aveva voluto che ci prendessimo cura della casa, come ogni estate. Non aveva nemmeno aspettato il nostro arrivo, né ci aveva spiegato il motivo della sua assenza. Tu dicevi che non ti importava, che tanto non la vedevi da mesi e che da quando stavi da sola la tua vita era diventata decisamente più pacifica. Io sapevo che non era vero, perché alla lontananza non sai abituarti.
Al nostro passaggio in paese gruppi di anziane dalla tinta sbiadita avevano cominciato a sussurrare parole confuse ai margini della strada, delle quali avevo intuito che mamma fosse in qualche sorta di “viaggio artistico”. Non te lo dissi perché ogni sera ti sentivo mormorare una preghiera per papà davanti alla finestra, prima di infilarti nel letto. Io avevo smesso ormai da diversi anni: mamma mi aveva fatto odiare qualsiasi pratica religiosa con le sue costrizioni e quelle sue frasi insensate sull’amore incondizionato di cui solo Dio è capace. Anche tu mi avevi confessato di aver perso la fede da quando ti eri trasferita, ma al rientro a casa avevi ripreso ad incrociare le mani sul davanzale, convinta che le tue parole non si dissolvessero nell’aria. Dunque non ti dissi dove fosse mamma, o meglio con chi fosse perché temevo ti avrebbe sconvolta, ma lei non ebbe la stessa accortezza e, al suo ritorno, aveva portato in casa quell’uomo supponente dal volto schiacciato e dalle spalle larghe. 

Durante il viaggio in treno ti avevo osservata per ore, mentre riempivi di parole i tuoi taccuini disordinati e, di tanto in tanto, gettavi lo sguardo fuori dal finestrino per scoprire che i palazzi che quasi si incrociavano con le rotaie avevano lasciato spazio a greggi di pecore dal pelo chiaro e dagli sguardi dolci. Io restavo nella trepidante attesa di leggere almeno una di quelle poesie e avrei voluto sfilarti il taccuino dalle mani mentre dormivi, ma tu lo custodivi così gelosamente anche nel sonno.
Quando le colline tra cui correva il treno avevano cominciato ad apparirmi familiari, tu ti eri appena svegliata e avevi gli occhi stanchi e quell’espressione disperata di chi soffre ogni attesa. Eppure mi avevi sorriso, come fai sempre quando, per imitazione o per pura generosità, copi il mio entusiasmo. In quel momento avevo pensato che ti avrebbe fatto bene tornare a casa per un po’, ma dopo che ti eri rinchiusa nello studio di papà a piangere per l’intero pomeriggio avevo cominciato a dubitarne.

Il secondo giorno ti eri svegliata che erano quasi le undici. Non so se dormissi davvero o se ti fossi nascosta tra le coperte per non dovermi aiutare a pulire la terrazza, un’abitudine che ti eri trascinata fin da quelle mattine della domenica in cui tentavi in ogni modo di saltare la messa. Avevi adottato quella strategia da quando avevi dieci anni e mamma non sapeva più dire quando stessi dormendo davvero. Io me ne accorgevo perché le tue ciglia tremavano appena quando ti fingevi addormentata e la tua bocca, socchiusa nel sonno, era forzatamente serrata durante le tue recite. E poi certe volte ti vedevo ridere, soprattutto quando mamma ci cascava e mi mandava in chiesa da solo, conciato come un piccolo uomo d’affari. Io odiavo scambiare un segno di pace con le mani di sconosciuti e fingevo di intonare i canti quando non c’era la tua voce angelica a coprire il mio lamento. Ma anche questo non te l’ho mai detto.  
Quella mattina non avevo nemmeno verificato che le tue ciglia fossero immobili o le tue labbra socchiuse. Volevo che restassi nel letto perché speravo ti avrebbe resa più allegra ed infatti al tuo risveglio sembravi sinceramente entusiasta di doverti occupare delle faccende domestiche. Avevamo percorso le scale di pietra ed eravamo scesi in giardino, dove gli alberi da frutto sorridevano, grazie alle piogge della scorsa settimana. Poi ti avevo lasciata da sola, con una ciotola di ceramica in mano e l’incarico di raccogliere i pomodori maturi dall’orto. Al mio ritorno, però, ti trovai abbandonata contro il tronco del ciliegio, con la ciotola vuota e le lacrime che riposavano sulle ciglia immobili. 

 

« Credo ci siano tante cose che mamma non ci ha detto » Te ne eri uscita con questa riflessione mentre fissavi la brocca del caffè, nell’attesa del suo borbottio. Mi aveva stupito. Forse perché ricordavo ancora quella bambina ingenua per cui il sorriso di mamma irraggiava il mondo. 

« Perché ha sempre mandato te a comprare le sigarette? » scherzai io, che non volevo iniziare discorsi seri e, inoltre, cercavo di non soffocare il buon umore con cui ti eri svegliata il terzo giorno. 

« Non le è mai piaciuto scendere in paese. Sai com’è, le piace fare la misteriosa, vuole a tutti i costi una vita interessante… ». Reagisti tu. Io la immaginai a bordo piscina di qualche hotel raffinato, con quell’uomo saccente seduto accanto a lei. La mia espressione si fece amara, ma tu non ci facesti caso.

« E si rifiuta di leggere le mie poesie, sin da quando ho iniziato a scriverle. Si inventa sempre qualche scusa… »

« Credo che più gente meriti di leggere le tue poesie » ti interruppi io  « In paese dicono che sei fredda, che cammini con gli occhi che scorrono sulle pietre dei palazzi e parli solo con la tabaccaia in piazza. » Cercai di evitare l’argomento “mamma”.

« Non mi importa quello che pensano. E, dopotutto, è solo la verità »

« Non sanno niente di te. »

Tu avevi scrollato le spalle e poi versato finalmente il caffè in due tazze. 

   
 
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