La
storia che condivido oggi è ciò
che in gran parte ha contribuito a formare il mio carattere, per lo
meno quello
di base, e su cui si basa tutta la mia nevrosi a detta del mio vecchio
psicoterapeuta.
Questo
capitolo è lungo, non
vogliatemene, ma non penso che abbia troppo senso dividerlo in due
parti: chi è
interessato all’argomento, potrà leggerlo tutto
qui in una volta. Si tratta di
una serie di vicende che ho affrontato nei primi anni della mia vita e
che
ruotano attorno al tema del narcisismo nella sfera
genitore-figlio, sebbene
in quegli anni non avevo idea di cosa fosse e la vera conferma di cosa
si
trattasse mi fu data solo da uno psicologo nel 2020.
Attenzione:
allerta violenza
su minori, quindi se non volete sentire parlare
dell’argomento, non leggete.
Non
ricordo di preciso in che
giorno o situazione mi imbattei per la prima volta nel termine narcisista
patologico, so solo che la cosa mi folgorò seduta
stante. Cominciai ad
informarmi su internet, principalmente mediante video perché
ascoltare in quel
periodo della mia vita mi risultava più semplice che
leggere. Improvvisamente,
avevo tutto chiaro.
Per
molti anni mi sono chiesta
cosa non andasse in mia madre, per quale motivo mi odiasse e provasse
piacere
nell’umiliarmi, giudicarmi, sottomettermi, farmi soffrire e
non sia mai stata
in grado di soddisfare nessuno dei miei bisogni ad eccezione di quelli
primari
come farmi dormire e darmi da mangiare.
Ricordo
che la prima volta che
sentii parlare di narcisismo, riguardava un contesto di relazione
amorosa.
Ascoltai diversi video online perché l’argomento
faceva vibrare in me qualcosa,
e non nascondo che provai a vedere se davvero anche io avessi subito
una
relazione con un narcisista, sebbene mi resi conto che più
che altro erano
stati i miei partner ad aver avuto a che fare con le mie doti
manipolatorie e
non viceversa. Posso dire che quasi nessuno è riuscito a
manipolarmi in amore
dopo i 16 anni, quindi decisamente non ero mai stata coinvolta in
relazioni
d’amore con un narcisista e, dopo aver analizzato il mio
comportamento e aver
visto che le mie relazioni erano tutte lunghe e non finivano mai per
contesti
relativi a pratiche narcisistiche o manipolatorie, bensì per
problemi
intrinsechi alla coppia che, per quanto tristi e dolorosi, possiamo
definire
“normali”, capii che nemmeno io ero narcisista in
amore. La conferma che non
fossi narcisista mi venne data dal mio psicoterapeuta, che
però sottolineò come
io possegga alcuni di quei tratti dato che ho subito la famosa ferita
nell’Ego
che è ciò da cui nasce il narcisismo.
Il
mio vissuto faceva sì che io
lottassi con ogni mezzo per ottenere ciò che volevo, ma mai
per far soffrire la
persona che avevo accanto e sempre per un fine condiviso, quindi non si
poteva
proprio affermare che avessi manipolato qualcuno per sottometterlo, non
ho mai
fatto gaslighting, love bombing
o cose del genere.
Tuttavia
qualcosa di
quell’argomento, nelle definizioni, nelle tecniche dei
narcisisti rivedevo qualcosa
che nel mio inconscio facevano risonanza. Finalmente una youtuber
accennò al
fatto che le relazioni narcisistiche, sebbene più comuni
nelle relazioni
amorose in cui per lo più è l’uomo ad
essere narcisista e la donna la sua Echo,
può avvenire in moltissimi contesti, uno dei più
subdoli quello che sovviene
nella relazione tra genitore e figlio.
Finalmente
eccomi lì, davanti ad
un video di mezzora che spiegava la relazione abusante che si viene a
creare
tra una madre narcisista ed una figlia Echo, vittima dei soprusi di sua
madre e
senza nessuno che la difenda.
Di
seguito alcuni degli episodi che
ho vissuto, seguono un “crescendo” di situazioni,
partendo dalle cose che
possono sembrare condivisibili ma che mi causavano frustrazione ed
erano
campanelli di allarme, fino ai veri e propri abusi narcisistici.
Non
so se per via
dell’atteggiamento scostante di mia madre, oppure
perché fondamentalmente
venivo da una famiglia di persone verbalmente violente che mi
raccontavano
aneddoti ancora più cruenti, però sono sempre
stata una bambina aggressiva e propensa
ad alzare le mani. Picchiare gli altri bambini mi faceva stare bene,
forse
perché provavo invidia nei loro confronti: avevano buone
merende, venivano
apprezzati, nessuno faceva loro del male perché i genitori
li proteggevano,
avevano giochi molto interessanti e soprattutto parlavano sempre tra di
loro di
cosa avevano visto in televisione, mentre a me era vietata.
In
casa vi erano tre televisioni.
Una in camera da letto dei miei genitori, una sospesa al muro della
cucina,
attaccata alla parete di fronte al tavolo da pranzo e una in salotto.
Avevo il
divieto di toccarle tutte e tre, il che mi dava una frustrazione
enorme, perché
era molto interessante da guardare. C’erano dei cartoni pieni
di fantasia e di
cose divertenti, e io non potevo guardarli. Potevo osservare la
televisione
solo quando la vedevano gli adulti, il che non era una cosa scorretta,
quanto
per il fatto che gli adulti erano sempre e solo interessati a guardare
programmi che per me non avevano alcuna attrattiva.
Una
delle cose che più mi urtava
della televisione era che, se gli adulti la guardavano, io non potevo
emettere
un fiato. Dovevo tacere e farli ascoltare, senza mai poter porre
domande o
interrompere. A volte le mie domande, quando la curiosità
che mi prendeva era
troppo forte e non riuscivo a trattenermi, venivano zittite con
occhiatacce,
l’invito esplicito a fare silenzio o con una risposta ironica
che sottintendeva
l’ovvio, trasmettendo il messaggio che se non arrivavo a
comprendere quella
cosa che era stata appena detta in tv, ero scema. Forse loro volevano
intendere
che era la domanda ad essere stupida, ma non era così che lo
interpretavo io,
che accumulavo solo più frustrazione.
Dato
che mia madre non lavorava
ed era sempre a casa, la tv in salotto era inavvicinabile, anche
perché si
poteva accendere solo dal telecomando e lei se lo portava sempre dietro
come
fanno i secondini con le chiavi delle celle. Lei era teledipendente e
passava
le sue giornate a guardare programmi di cucina e soap opera che io non
riuscivo
a comprendere e difatti mi rifiutavo di guardare.
Ovviamente
avevo provato a
chiedere di guardare i cartoni, ma mia madre si era imposta fermamente
che non
avrei potuto guardarla finché non fossi diventata grande, il
che era assurdo
dato che lei alla mia età guardava “il
carosello”, diceva mia nonna. Gli altri
parenti infatti non erano molto d’accordo a questo
oscurantismo tecnologico.
Nonna lavorava ancora, ma quando veniva a trovarci, mi permetteva
sempre di
guardare i cartoni. Mia zia Sara (nome di fantasia), sorella di mia
madre, invece
si oppose a questa politica in quanto grande appassionata di
cinematografia.
Mia madre le aveva fatto promettere che non mi avrebbe mai dovuto far
vedere i
cartoni animati in televisione, allora Sara aveva trovato una
scappatoia al
proprio giuramento: io non avrei guardato le serie di cartoni in tv, ma
avrei
potuto vedere tutti i film in videocassetta che volevo senza farne
parola con
mia madre. Un film non è un cartone a puntate, giusto?
Così Sara comprò decine,
oserei dire centinaia, di cassette di animazione per bambini e
passavamo i
pomeriggi a guardarle insieme.
Quando
chiedevo a mia madre
perché tutti potessero guardare la tv tranne me, lei diceva
che era perché i
cartoni animati rendono cattivi, stupidi e aggressivi. La cosa ora come
ora mi
fa ridere perché non guardavo quei programmi eppure ero la
bambina più violenta
della scuola.
Mia
madre era una persona con
problemi di peso. Fin da quando era adolescente, aveva cominciato ad
ingrassare
e non è mai stata magra da allora. Metteva il dado e il
burro in ogni portata e
friggeva tutto il friggibile. Quando ebbi tre anni dovette farsi
ricoverare per
dei problemi che ebbe alla cistifellea, che le tolsero, e rimase per un
paio di
mesi debilitata. Non so il perché, fatto sta che per quel
lasso di tempo mi
affidò alle mie zie Sara e Carla, sue sorelle.
Mi
hanno raccontato che mia madre
mi imponeva di mangiare dosi enormi di cibo per una bambina di due
anni.
Purtroppo io cominciai ad ingrassare, ma le zie mi ripresero in tempo e
mi
fecero dimagrire. Non ero una bambina ingorda, quindi non capivano per
quale
motivo mia madre ritenesse necessario imbottirmi con così
tanto cibo. Ho dei
chiari ricordi in cui mi diceva “se non mangi tutto quello
che ti metto nel
piatto, morirai. Hai capito? Morirai!” e io, disperata,
mangiavo fino a che lo
stomaco non si tendeva dolorosamente, imponendomi poi di stare sdraiata
su un
fianco per riuscire a digerire. Queste cose le zie non potevano
immaginarle.
Durante
la permanenza con le zie
mi legai a loro in una maniera particolare. Erano le mamme che avrei
sempre
voluto avere, il che è strano: implica che ci sono dei
ricordi negativi di mia
madre che io non conservo più, che però mi
avevano portato ad attuare quell’atteggiamento.
Carla
raccontò che un giorno,
mentre stavo sul triciclo, le chiesi
“Dov’è mia mamma?” e lei
rispose “in
ospedale”, al che io me ne uscì con molta
tranquillità “Se non torna più, mi
adotti tu?”. Penso che questa cosa descriva appieno il mio
stato d’animo e
l’angoscia che mi legava ad avere un soggetto simile come
madre. Ovviamente le
zie glielo raccontarono commosse, lodando cose tipo l’istinto
di sopravvivenza,
quando lei lo seppe invece mi guardò con odio.
Ci
sono vicende di cui non ho
ricordo ma cui le zie a volte hanno avuto modo di assistere, come
quando avevo
due anni e mia madre mi scuoteva con forza per le spalle, facendomi
oscillare
la testa avanti e indietro con violenza quando entrò mia zia
Sara in casa e la
beccò, litigarono, mia madre le lanciò addosso un
biberon di latte bollente e
la zia mi portò via con sé minacciandola che
avrebbe chiamato gli assistenti
sociali. Purtroppo non lo fece mai.
Mia
madre giustificava tutti i
suoi atteggiamenti deleteri nei miei confronti con la scusa che aveva
sofferto
di depressione post partum. Non so quanto questa scusa fosse vera o no,
fatto
sta che anche ponessimo come realtà che lei abbia sofferto
di depressione post
partum, ciò non spiega come abbia fatto ad essere una madre
degenere per oltre
due decenni. Dubito che una crisi dovuta al parto, per quanto
traumatico, possa
durare fino alla morte per vecchiaia…
Sara
mi raccontò di quando non
avevo ancora due anni e mia madre se n’era andata a farsi un
giro lasciandomi
con la babysitter, la quale mi aveva chiusa in una stanza e si era
messa
davanti al televisore a farsi i fatti propri, tanto mia madre non
sarebbe
tornata prima di sera. Non aveva previsto che mia zia quel giorno
finisse di
lavorare prima e tornasse a casa in gran carriera per venire a vedermi.
Quando
la zia entrò in casa di mia madre, sentì
immediatamente le mie urla disperate.
La tipa sul divano era saltata in aria ed era panicata. Sara corse
verso la
camera da letto dei miei genitori e lì mi trovò
sul girello, disperata, col
pannolino sporco e una crisi respiratoria data dal forte pianto. La
babysitter
accorse dicendo che mi aveva lasciata lì perché
dormivo e non voleva
svegliarmi, ma Sara non le credette, la insultò e la
sbatté fuori di casa. Mia
madre disse che lei non immaginava andasse così e tutti le
credettero: la
cattiva di turno fu la babysitter e pace e bene a tutti gli uomini di
buona
volontà.
Un’altra
volta, quando avevo
quattro anni, riuscì ad evadere da casa di mia madre e andai
nell’appartamento
sopra il nostro, in cui di norma veniva la nonna a passare i weekend.
Lì
c’erano Carla e Sara in visita e io dissi loro
“Mamma dice che non dovrei
raccontarvi cosa fa lei. Mi dice che vado a dire sempre tutto a quelle
puttane
delle mie zie, ma io dico che non è vero che siete
puttane”. Le zie raggelarono
ma lì per lì risero davanti a me per non farmi
allarmare. Non avevo idea di
cosa fosse una puttana, però dovevo aver inteso che non
fosse un complimento.
Quello
di cui non mi capacito, è
come hanno fatto le zie a tollerare tutte queste cose senza sentire
l’esigenza
di proteggermi, di portarmi via da lei. Sapevano quanto lei fosse
orribile:
loro stesse quando erano piccole avevano avuto modo di provare sulla
propria
pelle le punizioni di mia madre e le sue freddure, con la differenza
che loro
avevano qualche anno meno di lei, erano in gruppo e lei non era la loro
madre,
erano sue pari. Loro potevano ribellarsi, mandare affanculo la sorella
ed
essere di nuovo libere. Io invece ero sua figlia, completamente succube
dei
suoi deliri e sadismi, non potevo difendermi, non sapevo nemmeno come
si
facesse e soprattutto ero completamente sola. Non avevo fratelli,
cugini di
primo grado, amici di alcun genere.
Un
giorno mia madre annunciò che
avendo quasi quattro anni, era giunto il momento che io andassi
all’asilo
perché secondo la sua teoria mi avrebbe aiutato socializzare
con bambini della
mia età, anche se in realtà penso che fosse
soltanto una scusa per avermi fuori
dai giochi: a quanto pareva ero diventata impegnativa per una donna che
non
lavorava e non aveva un bel niente da fare tranne pulire una casa
già pulita e
cucinare cose malsane.
Per
me fu un vero trauma: fino a
quel momento la mia vita era serena, non dovevo preoccuparmi per il
futuro,
finché avessi avuto la mia casa e del cibo, sarei stata
bene. Il fatto di
volermi spedire fuori casa così senza alcuna preparazione,
mi causò ansia.
Improvvisamente non ero più protetta, non ero più
in un ambiente conosciuto,
non avevo mai incontrato nessuno di quei bambini prima e non avevo idea
di come
potessero essere.
Mia
madre provava piacere nel
dirmi che i miei “anni di pacchia” erano giunti al
termine. Le zie mi dissero
che sicuramente mi sarei divertita e avrei fatto tanti amici, ma io ero
turbata: cosa erano gli amici? Perché avrei dovuto farmene?
I nonni furono gli
unici a comprendere almeno parzialmente il mio disagio. La nonna ancora
lavorava, le mancava giusto un anno alla pensione, e il nonno era
sempre a casa
nostra. Si offrirono di tenermi poiché non vedevano alcuna
necessità
nell’asilo. Nessuno dei nonni aveva mai anche solo visitato
un asilo e nessuna
delle loro figlie ci era mai stata. Mia madre infatti
cominciò le scuole dopo i
sei anni e non prima, inoltre i nonni le fecero notare che non si
trattava di
una scuola di prestigio, ma di un pulcioso asilo di paese, dove non
c’era
alcuna sicurezza che sarei stata trattata bene né che avrei
appreso qualcosa,
tuttavia mia madre fu inamovibile.
La
prima volta che mi accompagnò
all’asilo fu uno shock. Aveva detto che sarebbe stata
lì ad aspettarmi fino
alla fine della giornata, non aveva immaginato che io sarei corsa alla
finestra
per accertarmi del fatto, sorprendendola mentre se ne andava via in
auto. Piansi
per tutto il giorno disperatamente. Nel trambusto del primo giorno non
mi resi
conto di dove mi trovavo, di chi fossero gli altri bambini, le maestre,
come
fosse fatto l’asilo o una probabile via di fuga. Non mi venne
dato amore dalle
maestre né comprensione dagli altri bambini. Mi ignorarono
completamente e
quando la sera lei tornò a prendermi, ero in condizioni
pietose. Non la
abbracciai e non le dimostrai affetto: il suo obiettivo di liberarsi di
me era
stato raggiunto, non provavo alcuna pietà per lei, come lei
non ne provava per
me.
Col
tempo, venendo lasciata lì
ogni giorno, non potei far altro che provare a comprendere dove fossi e
come
potevo liberarmi da quel giogo. L’asilo sarà stato
grande almeno centocinquanta
metri quadri, suddiviso in una stanza mansardata al piano superiore, in
cui i
bambini venivano costretti a dormire qualche ora nel pomeriggio e al
piano di
sotto due stanze e un atrio con l’ingresso. Le due stanze
erano le aule, ognuna
con una propria maestra: Marianna e Troianna. Mi dispiace, non riesco a
non
chiamarla così.
Io,
dotata di una sfortuna
provvidenziale, capitai in classe con la Maestra Troianna.
Troianna
è stata a tutti gli
effetti una donna aspra, arcigna, rancorosa, iraconda. Pessimo esempio
da
seguire, era una persona nata stanca, stufa e vendicativa, totalmente
inadatta
a lavorare con i bambini e soprattutto violenta. Questo personaggio era
completamente incapace di dare amore, trasmettere emozioni positive e
gioia.
Stare con lei equivaleva a subire le sue ire e nessuna azione ribelle
poteva
restare impunita.
Ricordo
che l’asilo era
cominciato da appena uno o due mesi quando mia madre mi
portò in piscina e una
bolla di acqua mi entrò nell’orecchio. Il giorno
dopo, all’asilo, Troianna parlava
come al solito di quelle frivolezze che piacciono tanto ai bambini, pur
sempre
con uno sguardo di pura sofferenza. Stava spiegando che il nostro
compito per
quella mattina sarebbe stato colorare un bruco stampato su un foglio A4.
Io
ero sovrappensiero, persa
nella mia depressione e incapacità di accettare un destino
tanto ingiusto, per
di più profondamente infastidita dalla bolla
d’acqua nell’orecchio, che
attutiva il mio udito. La maestra diede inizio al compito e notai che
ognuno
colorava il bruco come più desiderava. A me piaceva colorare
e una delle cose positive
dell’asilo è che erano forniti di tutti i
pennarelli che volevo, pertanto
completai la mia opera con un po’ più di
serenità. Il bruco era felice, aveva
un bel faccione rotondo con un sorriso e le antenne, il corpo composto
da sezioni
tondeggianti e zampette carine.
Notando
che tutti si
sbizzarrivano, io colorai come più mi aggradava. Notavo che
lo sguardo della
maestra non si allontanava mai da me, ma non le diedi troppo peso
perché a quel
tempo non sapevo cosa fosse la paranoia, non ne ero dotata. Alla fine
del
disegno, la maestra fece una richiesta inusuale: chiese di vedere come
avessimo
colorato. Non chiamò tutti, solo me. Prese il mio disegno,
lo guardò con
disgusto e disse “È così che avevo
detto di colorarlo?” e io rimasi stupita, mi
guardai alle spalle per vedere i disegni degli altri e vidi di nuovo
che ognuno
aveva usato colori differenti, quindi in che modo aveva detto di
colorarlo?
Possibile che nessuno avesse capito? Io non stavo ascoltando,
è vero, ma in
teoria basandomi sulle azioni della maggioranza, avrei dovuto eseguire
il
compito correttamente. Purtroppo non ce n’erano due che
avessero usato gli
stessi colori, quindi quale dei trenta bambini nell’aula
aveva eseguito il
compito assegnato? Mi tranquillizzò anche il pensiero che,
avendo sbagliato
quasi tutti, la punizione dovesse essere lieve o comunque, condivisa.
Risposi
senza timore “Non lo so, non ho sentito.”
Quello
che avvenne dopo fu del
tutto inaspettato, illogico. Lei strappò il mio disegno con
furore, stringendo
i denti e con una smorfia di rabbia. Io rimasi allibita e sconvolta
perché il
mio povero bruco era stato fatto a pezzi senza motivo, era stata
l’unica cosa
di quel luogo capace di darmi un po’ di gioia.
Guardai
addolorata il secchio
dove buttò la carta e, se avessi potuto, probabilmente mi
sarei abbassata a
recuperare i pezzi per portarmeli a casa e riattaccarli con lo scotch,
ma non
ebbi tempo per fare niente. Troianna si alzò e con violenza
mi afferrò i
capelli, persi l’equilibrio e mi stupii del fatto che il mio
peso potesse
essere sostenuto per i capelli. Non provai nemmeno dolore, il mio
sgomento era veramente
elevato. Mi trascinò dall’altra parte
dell’aula, facendomi scontrare contro
banchi e sedie degli altri bambini, che erano pallidi e mi guardavano
spaventati. Nessuno fiatò, lei mi sbatté di viso
contro la parete in fondo
all’aula dicendo che sarei dovuta rimanere faccia al muro
finché non le avessi
chiesto scusa per la mancanza di rispetto che avevo dimostrato nei suoi
confronti non ascoltando la sua spiegazione.
Io
impiegai diversi minuti prima
di rendermi conto che quello che avevo subito era successo veramente.
Non
versai nemmeno una lacrima, mantenni lo sguardo alla parete,
continuando a
sentire la voce di quella donna immonda e raramente qualche intervento
dei
bambini, non più giocosi. Cominciò a montare in
me l’odio. Odiavo la maestra,
odiavo quel posto, odiavo chi mi ci aveva mandato, odiavo il fatto che
il mio
destino fosse già stato segnato e io non avessi alcun potere
decisionale. A
quel tempo non concepivo che diventando adulta avrei potuto fare
ciò che
volevo.
Avvertii
un forte senso di
ambiguità, di viscido e compresi che,
nell’espressione di Troianna durante la
sua sfuriata, avevo rivisto alcuni dei tratti di mia madre. Mi accorsi
in quel
momento che sì, la reazione della maestra mi aveva
scioccato, ma era una
sciocchezza in confronto ad alcune cose che avevo visto fare da mia
madre. Io
non avevo forza fisica per sottomettere la maestra, non avevo i mezzi
per
scappare, non volevo perdere la mia famiglia né la mia casa,
ma non potevo
nemmeno tollerare di essere annientata da una becera qualsiasi. Dovevo
vendicarmi, o meglio, dovevo essere vendicata. Lì raggiunsi
una epifania: mia
madre.
Mia
madre era più grossa,
forzuta, rabbiosa, violenta, cattiva e intelligente di quella povera
sfigata di
Troianna. Peccato che a lei piacesse Troianna. Come fare per metterle
l’una
contro l’altra?
Impiegai
letteralmente tutto il
giorno riflettendo su queste cose. Non proferii parola con nessuno,
nemmeno con
i bambini che durante la pausa vennero a chiedermi come stavo. Non
sentii il
bisogno di andare in bagno, di bere o di mangiare. Ero focalizzata
sulla
vendetta. Vendetta per me, vendetta per il mio bruco sul fondo del
cestino
della spazzatura.
Rimasi
faccia al muro per ore,
anche se a me sembrarono giorni, poi giunse l’ora di andare a
casa e vennero a
prendermi mia madre e la zia Sara. Quando le vidi ero ancora scossa,
non del
tutto sicura di come cominciare il discorso. Quella fetida di Troianna
finse
che non fosse successo nulla, adducendo il mio comportamento al mio
carattere
poco incline alla socievolezza.
Salii
in auto e non dissi nulla
fino a casa. Zia Sara notò che qualcosa non andava e,
sebbene volessi parlarne
con mia madre, non riuscivo a immaginare come potessi mettere
giù i fatti per
farmi appoggiare. Il rischio era che lei desse ragione a Troianna e io
ricevessi la punizione anche a casa. La presenza della zia fu
provvidenziale,
perché se non ci fosse stata avrei dovuto inventare alcuni
dettagli per volgere
mia madre dalla mia parte, come ad esempio che Troianna avesse detto
qualcosa
di brutto su di lei o cose di questo genere, ma essendo bugie avrei
potuto
essere scoperta e punita doppiamente. Per fortuna la zia era
lì e mi bastò dire
la verità per scatenare la sua reazione più
eclatante. Mia madre non poteva
punirmi se la zia era dalla mia parte, ero protetta.
La
zia urlò, scalpitò, sciorinò
una lista di insulti particolarmente fantasiosi e mia madre fu chiamata
a
personificare il suo ruolo di genitore senza possibilità di
tirarsi indietro.
Mi disse solo “non ti preoccupare, non accadrà
più”.
Il
giorno dopo mi portò
all’asilo, ma non mi fece entrare in aula. Rimase
nell’atrio con me finché non
si avvicinò Troianna, a quel punto la sentii finalmente
parlare e non fui
l’unica a cogliere la furia che trapelava dalle sue parole,
lo sguardo fisso
sulla faccia della maestra, i denti serrati e gli occhi stretti.
Troianna ebbe
paura di lei, le cui parole stonavano con l’espressione che
aveva in volto. Usava
termini pacati, concisi, periodi brevi che giustificavano il fatto che
il
giorno prima non avevo sentito la spiegazione su come dovessi colorare
a causa
della bolla di acqua rimastami nell’orecchio, ma il suo
cipiglio era letale. Lo
percepii chiaramente, voleva pestarla e io l’avrei aiutata se
ci avesse
provato. In quel momento la stimai, capii che anche io volevo essere
così,
spietata e aggressiva. Nessuno mi avrebbe potuto sottomettere.
Mi
persi nel loro discorso, tra
qualche parola farfugliata di Troianna e qualche frase lenta di mia
madre, che
concluse il suo monologo con un semplice “ora chiedile
scusa.”.
Troianna
si chinò su di me e vidi
che aveva perso tutto il suo livore, non era più quella
stronza violenta che in
classe urlava e picchiava i bambini, ora era un agnellino spaventato
alla mercè
di una bestia ben più terrificante: mia madre.
Io
annuì e basta, giustizia era
stata fatta, purtroppo solo per me. Gli altri bambini continuarono a
ricevere
lo stesso trattamento, ma io non venni più sfiorata.
È facile manifestare
potere con dei bambini, ma la vera forza si sviluppa affrontando i
forti, non i
deboli.
Se
ripenso alla mia infanzia
prima dei sette anni, non ricordo un solo discorso fatto da un bambino,
ricordo
solo le parole degli adulti e so che le mie parole erano sensate,
riuscivo a
comunicare con loro, ma non con i miei coetanei.
Tuttavia
non posso dire che
questa esperienza non mi abbia proprio trasmesso le basi delle
relazioni
sociali. A furia di passare il tempo con quelli che consideravo esseri
inferiori, cominciai a vederli con un occhio meno arrogante e
più comprensivo,
arrivando a volte addirittura ad apprezzarli. Non posso negare che a
qualcuno
ho perfino voluto bene, di solito a chi è stato gentile con
me senza volere
nulla in cambio.
Mi
piacevano particolarmente le
acconciature che avevano le bambine, fatte dalle loro madri prima di
accompagnarle all’asilo. Io avevo i capelli che arrivavano
fino a metà schiena,
scuri, liscissimi, fini eppure folti, che si sarebbero prestati molto
bene a
certe pettinature. L’unico problema si trovava alla base: chi
me le avrebbe
fatte? Esattamente come le madri di quasi tutte le altre bambine, anche
la mia
stava a casa e non andava a lavorare. Avrebbe potuto pensarci lei,
sebbene non
avevo un grande dialogo con mia madre e fino ad allora i miei capelli
non li
aveva mai tagliati un parrucchiere, ma sempre lei, le zie o la nonna in
casa
con delle comuni forbici.
Pensai
di provare a
chiederglielo, male che fosse andata, pensai, non sarebbe cambiato
nulla.
Notavo come gli altri si relazionavano con i genitori, alzando la voce,
insistendo, buttandosi a terra, piangendo fino ad ottenere quello che
volevano.
In casa mia non funzionava così, fare i capricci era
qualcosa di impensabile,
però giunsi alla conclusione che avrei potuto fare qualche
pressione senza bisogno
di essere così plateale.
Cominciai
con discorsi sui
capelli, poi chiedendo che mi acquistasse qualche molletta a forma di
farfalla,
poi provai a sistemarli io, creando dei disastri e arrivando a chiedere
aiuto a
lei per disfare i nodi. Non comprendevo che i suoi sguardi, i suoi
sbuffi,
erano sintomo di insofferenza alle mie richieste: in quei momenti ero
felice
che la mia mamma curasse i miei capelli proprio come tutte le altre
mamme
facevano con le figlie.
Quando
poi cominciai ad esprimere
apertamente i miei desideri, ricevetti dei fermi dinieghi. Dapprima
secchi, ai
quali mi aggrappavo continuando a chiedere il perché di quei
“no”. Le risposte
spesso mi ferivano perché le spiegazioni erano sempre volte
al senso di colpa.
Dovevo sentirmi in colpa per il mio egoismo perché lei
faceva già così “tante
cose” per me, addirittura mi aveva messo al mondo, e io la
assillavo con il
chiaro intento di farle perdere tempo e farle venire il mal di testa.
La
questione sui capelli andò
avanti per qualche settimana, soprattutto in vista della fine
dell’asilo.
Mancava poco alla foto di fine asilo a metà giugno, che
sarebbe stata scattata
da un fotografo l’ultimo giorno di asilo, in vista
dell’inizio delle
elementari, che sarebbero iniziate a settembre.
Commisi
l’errore di insistere più
del dovuto e un giorno feci quelli che potevano essere considerati
classici
capricci da bambini. Allora lei non disse più no, in quel
momento ebbe una idea
malsana e se solo avessi avuto più esperienza o
più intelletto, avrei capito
che c’era qualcosa di strano nell’improvvisa
accettazione della mia richiesta.
Io, nella mia ingenuità, credetti che i capricci avessero
funzionato. Mi disse
che non mi faceva mai i capelli perché non era capace, ma
che prima dell’ultimo
giorno di asilo mi avrebbe portata dal parrucchiere e mi avrebbe fatto
una
acconciatura bellissima. Ero emozionata.
Fu
così che, il sabato
antecedente l’ultima settimana di asilo, mi portò
in un salone di bellezza che
si trovava in paese. Venni fatta sedere su una poltrona, ma non
arrivavo a
guardare lo specchio e quindi cosa mi succedeva in testa. Non ero mai
andata
dal parrucchiere, non sapevo come funzionava.
Vidi
mia madre parlare con il
parrucchiere per spiegargli, pensai, quale taglio farmi. Lui annuiva
preoccupato, lei sembrava serena e io mi feci coraggio guardando la
contentezza
della sua espressione. Lui si avvicinò, mi mise la mantella
e mi disse di stare
ferma immobile qualsiasi cosa sentissi. Io mi fidai, chiesi perfino ad
una
delle parrucchiere lì vicino se fossi bellissima e lei mi
rispose commossa che
sarei sempre stata bella. Ci sono delle risposte che acquisiscono un
senso solo
più avanti negli anni.
Quando
ebbe finito, molto
velocemente, mi fece alzare dalla sedia e vidi per terra moltissimi
capelli.
Chissà perché non realizzavo che potessero essere
i miei, anche se credo che
fosse abbastanza normale dato che non avevo mai visto dei capelli
tagliati dopo
aver raggiunto quella lunghezza considerevole.
Corsi
all’entrata del salone dove
c’era lo specchio e mi guardai, ricordo che
l’impatto fu tanto forte che
barcollai. Non avevo più i capelli lunghi. Erano stati
tagliati ad appena
quattro centimetri di lunghezza. Sembravo un maschio. Mi misi le mani
tra i
capelli e non dimenticherò mai la sensazione di non avere
più capelli lunghi.
Mi venne l’affanno, cominciai a piangere e ricordo il petto
che sembrava
esplodermi. Le parrucchiere erano anche loro leggermente urtate dalla
cosa,
l’unico apparentemente insensibile fu proprio il capo del
salone, che passò
semplicemente alla cliente successiva dopo aver raccolto i miei capelli
con lo
scopino. Ecco lì la mia fiducia nel mondo che veniva
letteralmente buttata
nell’immondizia.
Sentii
mia madre dire che aveva
dovuto farlo, perché aveva sentito che all’asilo
si era verificata una epidemia
di pidocchi e non voleva che li prendessi anche io. Era una bugia, non
c’erano
stati pidocchi all’asilo, e soprattutto mi mancavano solo un
paio di giorni a
finire l’asilo.
Una
volta fuori dovette
trascinarmi, mi buttai a terra, rifiutavo di mettere un piede davanti
all’altro. Mi mise in auto, ricordo che la portiera era verde
scuro, il sedile
color antracite. Lei salì al posto del guidatore e giurai di
averla sentita
dire “adesso abbiamo risolto il problema dei
capelli” io mi tirai su, smisi di
piangere, placai il mio petto che vibrava come le corde di
un’arpa e le dissi,
guardandola fissa dallo specchietto retrovisore “Questo non
succederà più”. Lei
rise e rispose che avrebbe potuto portarmi dal parrucchiere a tagliarmi
i
capelli a zero quando voleva e che così avrei imparato cosa
succedeva ad
assillarla. Assottigliai lo sguardo, poi dissi “Giuro che non
taglierò più i
capelli finché non mi arriveranno fino alle
ginocchia”. Lei fece una smorfia di
rabbia e schernii il mio giuramento, ridendo della mia presa di
posizione.
A
questo punto mi sembra
d’obbligo fare un po’ di spoiler e anticipare che
riuscii a mantenere la mia
promessa: la volta successiva che andai dal parrucchiere per tagliare i
capelli, avevo tredici anni e i capelli mi arrivavano ai polpacci.
L’ultimo giorno
d’asilo feci la foto insieme a tutti e poi
da sola. La foto esiste ancora, mia nonna la conservava gelosamente,
dicendo
che ero bellissima. Mi chiedo come mai solo io riesco a vedere la
profonda
sofferenza sul mio viso.
Vi è un altro episodio,
molto più cruento che in realtà ho già
scritto ma che alla fine ho deciso di non condividere, meglio evitare.
Ho
sempre saputo di non poter
essere l’unica ad avere a che fare con una figura genitoriale
snaturata, e che
nel mondo c’erano madri molto peggiori della mia, anche
perché la morale
cristiana e italiana in cui sono tristemente cresciuta, mi ricordava
ogni
giorno che “ehi, c’è chi sta peggio di
te, non lamentarti che sei così
fortunata!”. No, no ragazzi. Lamentatevi, fatevi sentire. Se
qualcosa vi fa
male, non sopportate più di quanto il vostro buon senso
reputi normale. Fate
casino, fatevi sentire. Forse i più vi allontaneranno, ma
qualcuno vi sentirà.
Qualcuno vi ascolterà e a quel punto forse la vostra
situazione non migliorerà,
ma almeno avrete qualcuno che vi sostiene nel disagio.
Per
anni le mie zie avevano
sostenuto che mia madre dovesse avere qualche malattia mentale,
bipolarismo o
cose di questo tipo, in realtà no… lei non
è psicotica: è solo una narcisista,
anaffettiva, prevaricante, vigliacca e piena di rabbia. Rabbia
perché avrebbe
voluto essere bella, perfetta, sagace, intelligente, geniale, lodata,
lusingata, ricca, amata da tutti, l’unica con la figlia
perfetta e il marito
figo e perfetto, senza dover mai lavorare etc. Invece era obesa,
brutta, aveva
perso i capelli, astuta ma non colta perché non aveva voglia
di studiare e la
conoscenza non si può acquisire senza lo sforzo di
applicarsi allo studio. Aveva
scelto tra tutti uomini che erano belli e benestanti ma profondamente
disturbati e mio padre, bello, con genio nel suo settore professionale
ma
incline all’uso di droghe per via della sua vita turbata,
alla fine l’aveva
tradita e abbandonata. Poi c’ero io, che da piccola tendevo
ad essere
grassottella e vivace, ma allo stesso tempo riservata e piena di
passioni e
soprattutto ero intelligente. Ero più intelligente di quanto
lei sia mai stata,
ora posso dirlo con certezza, e questo la mandava in bestia.
Non
so se mi abbia mai voluto
bene, sicuramente non mi ha amato ma penso che sì, provasse
dei sentimenti per
me. Come quando ti affezioni a qualcuno perché bene o male
ci hai vissuto per
tanto tempo e avete condiviso tante cose, ma no, non ho mai sentito
amore per
me. Questa è la mia ferita narcisistica e se avessi avuto
gli stessi impulsi di
mia madre, avrei potuto veramente diventare una narcisista delle
peggiori. Non
so perché, penso che a questo punto si tratti di una
questione di carattere o
di predisposizione ad un concetto di morale particolarmente complesso.
Io
posso nuocere al prossimo, ma
non lo faccio perché non è giusto, non voglio
farlo, anche se una parte di me
pensa che questa cosa sia molto affascinante. Io resterò
integra, per quanto mi
si possa considerare ancora integra.
Ho
letto tanti libri sulla
manipolazione mentale, il linguaggio del corpo, sulla comunicazione
assertiva,
sulla programmazione neurolinguistica e mia madre in 18 anni me ne fece
passare
di ogni. Questo ha fatto di me “una delle persone
più refrattarie alla
manipolazione di qualsiasi genere che abbia mai visto” a
detta del mio
psicologo. Eppure mi ha rovinato indelebilmente perché non
riesco più a fidarmi
di nessuno e la mia indipendenza e autonomia sono spesso
controproducenti. Non
riesco a chiedere aiuto e sono cocciuta e arrogante. Uso il turpiloquio
come
valvola di sfogo alternativa alla violenza fisica e sono sempre
arrabbiata.
Però
sono riuscita a scappare, alla
fine ce l’ho fatta. Il giorno in cui me ne andai di casa,
senza preavviso e
senza che lei sapesse niente, lo ricordo come fosse ieri. Misi tutta la
mia
roba nel baule della mia auto, incredibilmente ci entrava tutta, non
possedevo
granché e lo realizzai solo in quel momento. Andai da lei
che era davanti alla
televisione (che non ho mai potuto vedere, il divieto in
realtà è stato
protratto finché non me ne sono andata) e le dissi solo
“Sto andando via. Vado
via di casa.” Lei tacque per qualche secondo, senza mai
staccare gli occhi
dalla TV. Rispose senza muovere un muscolo del corpo e senza mai
distogliere lo
sguardo dallo schermo “Sì ok”. Rimasi un
po’ spiazzata da quella risposta ma
non le diedi modo di rendersi conto che in realtà era
riuscita a sconvolgermi
anche con un solo “Sì ok”. Salii in auto
e non la rividi per mesi.
Fu
l’inizio di una nuova vita.