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Autore: fiore di pesco    18/06/2023    3 recensioni
Vi propongo degli estratti dei miei pensieri più intimi, celata da un anonimato che dura da oltre un decennio.
Non è un testo delicato, non sono una persona eccessivamente sensibile e quindi potreste incappare in black humor, turpiloquio e considerazioni talvolta ciniche che potrebbero turbare i lettori più emotivi. Non voglio far finta che questo mi dolga, non sono mai stata ipocrita.
Potrete trovare capitoli composti da una vicenda che mi è successa di recente, altre molto lontane nel tempo, pensieri, aforismi, quello che mi va.
Alcune di queste riflessioni sono state scritte in bozze sul mio diario anni fa e non so perchè stasera abbia sentito l'esigenza di condividerle con qualcuno. Forse per strappare una risata o una imprecazione, ma sempre meglio della noia.
Questa "storia" è una raccolta disomogenea e non segue una trama, ogni capitolo è a sè e quindi non pubblicherò con scadenze, seguirà l'ispirazione.
Genere: Comico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La storia che condivido oggi è ciò che in gran parte ha contribuito a formare il mio carattere, per lo meno quello di base, e su cui si basa tutta la mia nevrosi a detta del mio vecchio psicoterapeuta.

Questo capitolo è lungo, non vogliatemene, ma non penso che abbia troppo senso dividerlo in due parti: chi è interessato all’argomento, potrà leggerlo tutto qui in una volta. Si tratta di una serie di vicende che ho affrontato nei primi anni della mia vita e che ruotano attorno al tema del narcisismo nella sfera genitore-figlio, sebbene in quegli anni non avevo idea di cosa fosse e la vera conferma di cosa si trattasse mi fu data solo da uno psicologo nel 2020.

Attenzione: allerta violenza su minori, quindi se non volete sentire parlare dell’argomento, non leggete.

Non ricordo di preciso in che giorno o situazione mi imbattei per la prima volta nel termine narcisista patologico, so solo che la cosa mi folgorò seduta stante. Cominciai ad informarmi su internet, principalmente mediante video perché ascoltare in quel periodo della mia vita mi risultava più semplice che leggere. Improvvisamente, avevo tutto chiaro.

Per molti anni mi sono chiesta cosa non andasse in mia madre, per quale motivo mi odiasse e provasse piacere nell’umiliarmi, giudicarmi, sottomettermi, farmi soffrire e non sia mai stata in grado di soddisfare nessuno dei miei bisogni ad eccezione di quelli primari come farmi dormire e darmi da mangiare.

Ricordo che la prima volta che sentii parlare di narcisismo, riguardava un contesto di relazione amorosa. Ascoltai diversi video online perché l’argomento faceva vibrare in me qualcosa, e non nascondo che provai a vedere se davvero anche io avessi subito una relazione con un narcisista, sebbene mi resi conto che più che altro erano stati i miei partner ad aver avuto a che fare con le mie doti manipolatorie e non viceversa. Posso dire che quasi nessuno è riuscito a manipolarmi in amore dopo i 16 anni, quindi decisamente non ero mai stata coinvolta in relazioni d’amore con un narcisista e, dopo aver analizzato il mio comportamento e aver visto che le mie relazioni erano tutte lunghe e non finivano mai per contesti relativi a pratiche narcisistiche o manipolatorie, bensì per problemi intrinsechi alla coppia che, per quanto tristi e dolorosi, possiamo definire “normali”, capii che nemmeno io ero narcisista in amore. La conferma che non fossi narcisista mi venne data dal mio psicoterapeuta, che però sottolineò come io possegga alcuni di quei tratti dato che ho subito la famosa ferita nell’Ego che è ciò da cui nasce il narcisismo.

Il mio vissuto faceva sì che io lottassi con ogni mezzo per ottenere ciò che volevo, ma mai per far soffrire la persona che avevo accanto e sempre per un fine condiviso, quindi non si poteva proprio affermare che avessi manipolato qualcuno per sottometterlo, non ho mai fatto gaslighting, love bombing o cose del genere.

Tuttavia qualcosa di quell’argomento, nelle definizioni, nelle tecniche dei narcisisti rivedevo qualcosa che nel mio inconscio facevano risonanza. Finalmente una youtuber accennò al fatto che le relazioni narcisistiche, sebbene più comuni nelle relazioni amorose in cui per lo più è l’uomo ad essere narcisista e la donna la sua Echo, può avvenire in moltissimi contesti, uno dei più subdoli quello che sovviene nella relazione tra genitore e figlio.

Finalmente eccomi lì, davanti ad un video di mezzora che spiegava la relazione abusante che si viene a creare tra una madre narcisista ed una figlia Echo, vittima dei soprusi di sua madre e senza nessuno che la difenda.

Di seguito alcuni degli episodi che ho vissuto, seguono un “crescendo” di situazioni, partendo dalle cose che possono sembrare condivisibili ma che mi causavano frustrazione ed erano campanelli di allarme, fino ai veri e propri abusi narcisistici.

 

Non so se per via dell’atteggiamento scostante di mia madre, oppure perché fondamentalmente venivo da una famiglia di persone verbalmente violente che mi raccontavano aneddoti ancora più cruenti, però sono sempre stata una bambina aggressiva e propensa ad alzare le mani. Picchiare gli altri bambini mi faceva stare bene, forse perché provavo invidia nei loro confronti: avevano buone merende, venivano apprezzati, nessuno faceva loro del male perché i genitori li proteggevano, avevano giochi molto interessanti e soprattutto parlavano sempre tra di loro di cosa avevano visto in televisione, mentre a me era vietata.

In casa vi erano tre televisioni. Una in camera da letto dei miei genitori, una sospesa al muro della cucina, attaccata alla parete di fronte al tavolo da pranzo e una in salotto. Avevo il divieto di toccarle tutte e tre, il che mi dava una frustrazione enorme, perché era molto interessante da guardare. C’erano dei cartoni pieni di fantasia e di cose divertenti, e io non potevo guardarli. Potevo osservare la televisione solo quando la vedevano gli adulti, il che non era una cosa scorretta, quanto per il fatto che gli adulti erano sempre e solo interessati a guardare programmi che per me non avevano alcuna attrattiva.

Una delle cose che più mi urtava della televisione era che, se gli adulti la guardavano, io non potevo emettere un fiato. Dovevo tacere e farli ascoltare, senza mai poter porre domande o interrompere. A volte le mie domande, quando la curiosità che mi prendeva era troppo forte e non riuscivo a trattenermi, venivano zittite con occhiatacce, l’invito esplicito a fare silenzio o con una risposta ironica che sottintendeva l’ovvio, trasmettendo il messaggio che se non arrivavo a comprendere quella cosa che era stata appena detta in tv, ero scema. Forse loro volevano intendere che era la domanda ad essere stupida, ma non era così che lo interpretavo io, che accumulavo solo più frustrazione.

Dato che mia madre non lavorava ed era sempre a casa, la tv in salotto era inavvicinabile, anche perché si poteva accendere solo dal telecomando e lei se lo portava sempre dietro come fanno i secondini con le chiavi delle celle. Lei era teledipendente e passava le sue giornate a guardare programmi di cucina e soap opera che io non riuscivo a comprendere e difatti mi rifiutavo di guardare.

Ovviamente avevo provato a chiedere di guardare i cartoni, ma mia madre si era imposta fermamente che non avrei potuto guardarla finché non fossi diventata grande, il che era assurdo dato che lei alla mia età guardava “il carosello”, diceva mia nonna. Gli altri parenti infatti non erano molto d’accordo a questo oscurantismo tecnologico. Nonna lavorava ancora, ma quando veniva a trovarci, mi permetteva sempre di guardare i cartoni. Mia zia Sara (nome di fantasia), sorella di mia madre, invece si oppose a questa politica in quanto grande appassionata di cinematografia. Mia madre le aveva fatto promettere che non mi avrebbe mai dovuto far vedere i cartoni animati in televisione, allora Sara aveva trovato una scappatoia al proprio giuramento: io non avrei guardato le serie di cartoni in tv, ma avrei potuto vedere tutti i film in videocassetta che volevo senza farne parola con mia madre. Un film non è un cartone a puntate, giusto? Così Sara comprò decine, oserei dire centinaia, di cassette di animazione per bambini e passavamo i pomeriggi a guardarle insieme.

Quando chiedevo a mia madre perché tutti potessero guardare la tv tranne me, lei diceva che era perché i cartoni animati rendono cattivi, stupidi e aggressivi. La cosa ora come ora mi fa ridere perché non guardavo quei programmi eppure ero la bambina più violenta della scuola.

 

Mia madre era una persona con problemi di peso. Fin da quando era adolescente, aveva cominciato ad ingrassare e non è mai stata magra da allora. Metteva il dado e il burro in ogni portata e friggeva tutto il friggibile. Quando ebbi tre anni dovette farsi ricoverare per dei problemi che ebbe alla cistifellea, che le tolsero, e rimase per un paio di mesi debilitata. Non so il perché, fatto sta che per quel lasso di tempo mi affidò alle mie zie Sara e Carla, sue sorelle.

Mi hanno raccontato che mia madre mi imponeva di mangiare dosi enormi di cibo per una bambina di due anni. Purtroppo io cominciai ad ingrassare, ma le zie mi ripresero in tempo e mi fecero dimagrire. Non ero una bambina ingorda, quindi non capivano per quale motivo mia madre ritenesse necessario imbottirmi con così tanto cibo. Ho dei chiari ricordi in cui mi diceva “se non mangi tutto quello che ti metto nel piatto, morirai. Hai capito? Morirai!” e io, disperata, mangiavo fino a che lo stomaco non si tendeva dolorosamente, imponendomi poi di stare sdraiata su un fianco per riuscire a digerire. Queste cose le zie non potevano immaginarle.

Durante la permanenza con le zie mi legai a loro in una maniera particolare. Erano le mamme che avrei sempre voluto avere, il che è strano: implica che ci sono dei ricordi negativi di mia madre che io non conservo più, che però mi avevano portato ad attuare quell’atteggiamento.

Carla raccontò che un giorno, mentre stavo sul triciclo, le chiesi “Dov’è mia mamma?” e lei rispose “in ospedale”, al che io me ne uscì con molta tranquillità “Se non torna più, mi adotti tu?”. Penso che questa cosa descriva appieno il mio stato d’animo e l’angoscia che mi legava ad avere un soggetto simile come madre. Ovviamente le zie glielo raccontarono commosse, lodando cose tipo l’istinto di sopravvivenza, quando lei lo seppe invece mi guardò con odio.

Ci sono vicende di cui non ho ricordo ma cui le zie a volte hanno avuto modo di assistere, come quando avevo due anni e mia madre mi scuoteva con forza per le spalle, facendomi oscillare la testa avanti e indietro con violenza quando entrò mia zia Sara in casa e la beccò, litigarono, mia madre le lanciò addosso un biberon di latte bollente e la zia mi portò via con sé minacciandola che avrebbe chiamato gli assistenti sociali. Purtroppo non lo fece mai.

Mia madre giustificava tutti i suoi atteggiamenti deleteri nei miei confronti con la scusa che aveva sofferto di depressione post partum. Non so quanto questa scusa fosse vera o no, fatto sta che anche ponessimo come realtà che lei abbia sofferto di depressione post partum, ciò non spiega come abbia fatto ad essere una madre degenere per oltre due decenni. Dubito che una crisi dovuta al parto, per quanto traumatico, possa durare fino alla morte per vecchiaia…

Sara mi raccontò di quando non avevo ancora due anni e mia madre se n’era andata a farsi un giro lasciandomi con la babysitter, la quale mi aveva chiusa in una stanza e si era messa davanti al televisore a farsi i fatti propri, tanto mia madre non sarebbe tornata prima di sera. Non aveva previsto che mia zia quel giorno finisse di lavorare prima e tornasse a casa in gran carriera per venire a vedermi. Quando la zia entrò in casa di mia madre, sentì immediatamente le mie urla disperate. La tipa sul divano era saltata in aria ed era panicata. Sara corse verso la camera da letto dei miei genitori e lì mi trovò sul girello, disperata, col pannolino sporco e una crisi respiratoria data dal forte pianto. La babysitter accorse dicendo che mi aveva lasciata lì perché dormivo e non voleva svegliarmi, ma Sara non le credette, la insultò e la sbatté fuori di casa. Mia madre disse che lei non immaginava andasse così e tutti le credettero: la cattiva di turno fu la babysitter e pace e bene a tutti gli uomini di buona volontà.

 

Un’altra volta, quando avevo quattro anni, riuscì ad evadere da casa di mia madre e andai nell’appartamento sopra il nostro, in cui di norma veniva la nonna a passare i weekend. Lì c’erano Carla e Sara in visita e io dissi loro “Mamma dice che non dovrei raccontarvi cosa fa lei. Mi dice che vado a dire sempre tutto a quelle puttane delle mie zie, ma io dico che non è vero che siete puttane”. Le zie raggelarono ma lì per lì risero davanti a me per non farmi allarmare. Non avevo idea di cosa fosse una puttana, però dovevo aver inteso che non fosse un complimento.

Quello di cui non mi capacito, è come hanno fatto le zie a tollerare tutte queste cose senza sentire l’esigenza di proteggermi, di portarmi via da lei. Sapevano quanto lei fosse orribile: loro stesse quando erano piccole avevano avuto modo di provare sulla propria pelle le punizioni di mia madre e le sue freddure, con la differenza che loro avevano qualche anno meno di lei, erano in gruppo e lei non era la loro madre, erano sue pari. Loro potevano ribellarsi, mandare affanculo la sorella ed essere di nuovo libere. Io invece ero sua figlia, completamente succube dei suoi deliri e sadismi, non potevo difendermi, non sapevo nemmeno come si facesse e soprattutto ero completamente sola. Non avevo fratelli, cugini di primo grado, amici di alcun genere.

 

Un giorno mia madre annunciò che avendo quasi quattro anni, era giunto il momento che io andassi all’asilo perché secondo la sua teoria mi avrebbe aiutato socializzare con bambini della mia età, anche se in realtà penso che fosse soltanto una scusa per avermi fuori dai giochi: a quanto pareva ero diventata impegnativa per una donna che non lavorava e non aveva un bel niente da fare tranne pulire una casa già pulita e cucinare cose malsane.

Per me fu un vero trauma: fino a quel momento la mia vita era serena, non dovevo preoccuparmi per il futuro, finché avessi avuto la mia casa e del cibo, sarei stata bene. Il fatto di volermi spedire fuori casa così senza alcuna preparazione, mi causò ansia. Improvvisamente non ero più protetta, non ero più in un ambiente conosciuto, non avevo mai incontrato nessuno di quei bambini prima e non avevo idea di come potessero essere.  

Mia madre provava piacere nel dirmi che i miei “anni di pacchia” erano giunti al termine. Le zie mi dissero che sicuramente mi sarei divertita e avrei fatto tanti amici, ma io ero turbata: cosa erano gli amici? Perché avrei dovuto farmene? I nonni furono gli unici a comprendere almeno parzialmente il mio disagio. La nonna ancora lavorava, le mancava giusto un anno alla pensione, e il nonno era sempre a casa nostra. Si offrirono di tenermi poiché non vedevano alcuna necessità nell’asilo. Nessuno dei nonni aveva mai anche solo visitato un asilo e nessuna delle loro figlie ci era mai stata. Mia madre infatti cominciò le scuole dopo i sei anni e non prima, inoltre i nonni le fecero notare che non si trattava di una scuola di prestigio, ma di un pulcioso asilo di paese, dove non c’era alcuna sicurezza che sarei stata trattata bene né che avrei appreso qualcosa, tuttavia mia madre fu inamovibile.

La prima volta che mi accompagnò all’asilo fu uno shock. Aveva detto che sarebbe stata lì ad aspettarmi fino alla fine della giornata, non aveva immaginato che io sarei corsa alla finestra per accertarmi del fatto, sorprendendola mentre se ne andava via in auto. Piansi per tutto il giorno disperatamente. Nel trambusto del primo giorno non mi resi conto di dove mi trovavo, di chi fossero gli altri bambini, le maestre, come fosse fatto l’asilo o una probabile via di fuga. Non mi venne dato amore dalle maestre né comprensione dagli altri bambini. Mi ignorarono completamente e quando la sera lei tornò a prendermi, ero in condizioni pietose. Non la abbracciai e non le dimostrai affetto: il suo obiettivo di liberarsi di me era stato raggiunto, non provavo alcuna pietà per lei, come lei non ne provava per me.

Col tempo, venendo lasciata lì ogni giorno, non potei far altro che provare a comprendere dove fossi e come potevo liberarmi da quel giogo. L’asilo sarà stato grande almeno centocinquanta metri quadri, suddiviso in una stanza mansardata al piano superiore, in cui i bambini venivano costretti a dormire qualche ora nel pomeriggio e al piano di sotto due stanze e un atrio con l’ingresso. Le due stanze erano le aule, ognuna con una propria maestra: Marianna e Troianna. Mi dispiace, non riesco a non chiamarla così.

Io, dotata di una sfortuna provvidenziale, capitai in classe con la Maestra Troianna.

Troianna è stata a tutti gli effetti una donna aspra, arcigna, rancorosa, iraconda. Pessimo esempio da seguire, era una persona nata stanca, stufa e vendicativa, totalmente inadatta a lavorare con i bambini e soprattutto violenta. Questo personaggio era completamente incapace di dare amore, trasmettere emozioni positive e gioia. Stare con lei equivaleva a subire le sue ire e nessuna azione ribelle poteva restare impunita.

Ricordo che l’asilo era cominciato da appena uno o due mesi quando mia madre mi portò in piscina e una bolla di acqua mi entrò nell’orecchio. Il giorno dopo, all’asilo, Troianna parlava come al solito di quelle frivolezze che piacciono tanto ai bambini, pur sempre con uno sguardo di pura sofferenza. Stava spiegando che il nostro compito per quella mattina sarebbe stato colorare un bruco stampato su un foglio A4.

Io ero sovrappensiero, persa nella mia depressione e incapacità di accettare un destino tanto ingiusto, per di più profondamente infastidita dalla bolla d’acqua nell’orecchio, che attutiva il mio udito. La maestra diede inizio al compito e notai che ognuno colorava il bruco come più desiderava. A me piaceva colorare e una delle cose positive dell’asilo è che erano forniti di tutti i pennarelli che volevo, pertanto completai la mia opera con un po’ più di serenità. Il bruco era felice, aveva un bel faccione rotondo con un sorriso e le antenne, il corpo composto da sezioni tondeggianti e zampette carine.

Notando che tutti si sbizzarrivano, io colorai come più mi aggradava. Notavo che lo sguardo della maestra non si allontanava mai da me, ma non le diedi troppo peso perché a quel tempo non sapevo cosa fosse la paranoia, non ne ero dotata. Alla fine del disegno, la maestra fece una richiesta inusuale: chiese di vedere come avessimo colorato. Non chiamò tutti, solo me. Prese il mio disegno, lo guardò con disgusto e disse “È così che avevo detto di colorarlo?” e io rimasi stupita, mi guardai alle spalle per vedere i disegni degli altri e vidi di nuovo che ognuno aveva usato colori differenti, quindi in che modo aveva detto di colorarlo? Possibile che nessuno avesse capito? Io non stavo ascoltando, è vero, ma in teoria basandomi sulle azioni della maggioranza, avrei dovuto eseguire il compito correttamente. Purtroppo non ce n’erano due che avessero usato gli stessi colori, quindi quale dei trenta bambini nell’aula aveva eseguito il compito assegnato? Mi tranquillizzò anche il pensiero che, avendo sbagliato quasi tutti, la punizione dovesse essere lieve o comunque, condivisa. Risposi senza timore “Non lo so, non ho sentito.”

Quello che avvenne dopo fu del tutto inaspettato, illogico. Lei strappò il mio disegno con furore, stringendo i denti e con una smorfia di rabbia. Io rimasi allibita e sconvolta perché il mio povero bruco era stato fatto a pezzi senza motivo, era stata l’unica cosa di quel luogo capace di darmi un po’ di gioia.

Guardai addolorata il secchio dove buttò la carta e, se avessi potuto, probabilmente mi sarei abbassata a recuperare i pezzi per portarmeli a casa e riattaccarli con lo scotch, ma non ebbi tempo per fare niente. Troianna si alzò e con violenza mi afferrò i capelli, persi l’equilibrio e mi stupii del fatto che il mio peso potesse essere sostenuto per i capelli. Non provai nemmeno dolore, il mio sgomento era veramente elevato. Mi trascinò dall’altra parte dell’aula, facendomi scontrare contro banchi e sedie degli altri bambini, che erano pallidi e mi guardavano spaventati. Nessuno fiatò, lei mi sbatté di viso contro la parete in fondo all’aula dicendo che sarei dovuta rimanere faccia al muro finché non le avessi chiesto scusa per la mancanza di rispetto che avevo dimostrato nei suoi confronti non ascoltando la sua spiegazione.

Io impiegai diversi minuti prima di rendermi conto che quello che avevo subito era successo veramente. Non versai nemmeno una lacrima, mantenni lo sguardo alla parete, continuando a sentire la voce di quella donna immonda e raramente qualche intervento dei bambini, non più giocosi. Cominciò a montare in me l’odio. Odiavo la maestra, odiavo quel posto, odiavo chi mi ci aveva mandato, odiavo il fatto che il mio destino fosse già stato segnato e io non avessi alcun potere decisionale. A quel tempo non concepivo che diventando adulta avrei potuto fare ciò che volevo.

Avvertii un forte senso di ambiguità, di viscido e compresi che, nell’espressione di Troianna durante la sua sfuriata, avevo rivisto alcuni dei tratti di mia madre. Mi accorsi in quel momento che sì, la reazione della maestra mi aveva scioccato, ma era una sciocchezza in confronto ad alcune cose che avevo visto fare da mia madre. Io non avevo forza fisica per sottomettere la maestra, non avevo i mezzi per scappare, non volevo perdere la mia famiglia né la mia casa, ma non potevo nemmeno tollerare di essere annientata da una becera qualsiasi. Dovevo vendicarmi, o meglio, dovevo essere vendicata. Lì raggiunsi una epifania: mia madre.

Mia madre era più grossa, forzuta, rabbiosa, violenta, cattiva e intelligente di quella povera sfigata di Troianna. Peccato che a lei piacesse Troianna. Come fare per metterle l’una contro l’altra?

Impiegai letteralmente tutto il giorno riflettendo su queste cose. Non proferii parola con nessuno, nemmeno con i bambini che durante la pausa vennero a chiedermi come stavo. Non sentii il bisogno di andare in bagno, di bere o di mangiare. Ero focalizzata sulla vendetta. Vendetta per me, vendetta per il mio bruco sul fondo del cestino della spazzatura.

Rimasi faccia al muro per ore, anche se a me sembrarono giorni, poi giunse l’ora di andare a casa e vennero a prendermi mia madre e la zia Sara. Quando le vidi ero ancora scossa, non del tutto sicura di come cominciare il discorso. Quella fetida di Troianna finse che non fosse successo nulla, adducendo il mio comportamento al mio carattere poco incline alla socievolezza.

Salii in auto e non dissi nulla fino a casa. Zia Sara notò che qualcosa non andava e, sebbene volessi parlarne con mia madre, non riuscivo a immaginare come potessi mettere giù i fatti per farmi appoggiare. Il rischio era che lei desse ragione a Troianna e io ricevessi la punizione anche a casa. La presenza della zia fu provvidenziale, perché se non ci fosse stata avrei dovuto inventare alcuni dettagli per volgere mia madre dalla mia parte, come ad esempio che Troianna avesse detto qualcosa di brutto su di lei o cose di questo genere, ma essendo bugie avrei potuto essere scoperta e punita doppiamente. Per fortuna la zia era lì e mi bastò dire la verità per scatenare la sua reazione più eclatante. Mia madre non poteva punirmi se la zia era dalla mia parte, ero protetta.

La zia urlò, scalpitò, sciorinò una lista di insulti particolarmente fantasiosi e mia madre fu chiamata a personificare il suo ruolo di genitore senza possibilità di tirarsi indietro. Mi disse solo “non ti preoccupare, non accadrà più”.

Il giorno dopo mi portò all’asilo, ma non mi fece entrare in aula. Rimase nell’atrio con me finché non si avvicinò Troianna, a quel punto la sentii finalmente parlare e non fui l’unica a cogliere la furia che trapelava dalle sue parole, lo sguardo fisso sulla faccia della maestra, i denti serrati e gli occhi stretti. Troianna ebbe paura di lei, le cui parole stonavano con l’espressione che aveva in volto. Usava termini pacati, concisi, periodi brevi che giustificavano il fatto che il giorno prima non avevo sentito la spiegazione su come dovessi colorare a causa della bolla di acqua rimastami nell’orecchio, ma il suo cipiglio era letale. Lo percepii chiaramente, voleva pestarla e io l’avrei aiutata se ci avesse provato. In quel momento la stimai, capii che anche io volevo essere così, spietata e aggressiva. Nessuno mi avrebbe potuto sottomettere.

Mi persi nel loro discorso, tra qualche parola farfugliata di Troianna e qualche frase lenta di mia madre, che concluse il suo monologo con un semplice “ora chiedile scusa.”.

Troianna si chinò su di me e vidi che aveva perso tutto il suo livore, non era più quella stronza violenta che in classe urlava e picchiava i bambini, ora era un agnellino spaventato alla mercè di una bestia ben più terrificante: mia madre.

Io annuì e basta, giustizia era stata fatta, purtroppo solo per me. Gli altri bambini continuarono a ricevere lo stesso trattamento, ma io non venni più sfiorata. È facile manifestare potere con dei bambini, ma la vera forza si sviluppa affrontando i forti, non i deboli.

 

Se ripenso alla mia infanzia prima dei sette anni, non ricordo un solo discorso fatto da un bambino, ricordo solo le parole degli adulti e so che le mie parole erano sensate, riuscivo a comunicare con loro, ma non con i miei coetanei.

Tuttavia non posso dire che questa esperienza non mi abbia proprio trasmesso le basi delle relazioni sociali. A furia di passare il tempo con quelli che consideravo esseri inferiori, cominciai a vederli con un occhio meno arrogante e più comprensivo, arrivando a volte addirittura ad apprezzarli. Non posso negare che a qualcuno ho perfino voluto bene, di solito a chi è stato gentile con me senza volere nulla in cambio.

Mi piacevano particolarmente le acconciature che avevano le bambine, fatte dalle loro madri prima di accompagnarle all’asilo. Io avevo i capelli che arrivavano fino a metà schiena, scuri, liscissimi, fini eppure folti, che si sarebbero prestati molto bene a certe pettinature. L’unico problema si trovava alla base: chi me le avrebbe fatte? Esattamente come le madri di quasi tutte le altre bambine, anche la mia stava a casa e non andava a lavorare. Avrebbe potuto pensarci lei, sebbene non avevo un grande dialogo con mia madre e fino ad allora i miei capelli non li aveva mai tagliati un parrucchiere, ma sempre lei, le zie o la nonna in casa con delle comuni forbici.

Pensai di provare a chiederglielo, male che fosse andata, pensai, non sarebbe cambiato nulla. Notavo come gli altri si relazionavano con i genitori, alzando la voce, insistendo, buttandosi a terra, piangendo fino ad ottenere quello che volevano. In casa mia non funzionava così, fare i capricci era qualcosa di impensabile, però giunsi alla conclusione che avrei potuto fare qualche pressione senza bisogno di essere così plateale.

Cominciai con discorsi sui capelli, poi chiedendo che mi acquistasse qualche molletta a forma di farfalla, poi provai a sistemarli io, creando dei disastri e arrivando a chiedere aiuto a lei per disfare i nodi. Non comprendevo che i suoi sguardi, i suoi sbuffi, erano sintomo di insofferenza alle mie richieste: in quei momenti ero felice che la mia mamma curasse i miei capelli proprio come tutte le altre mamme facevano con le figlie.

Quando poi cominciai ad esprimere apertamente i miei desideri, ricevetti dei fermi dinieghi. Dapprima secchi, ai quali mi aggrappavo continuando a chiedere il perché di quei “no”. Le risposte spesso mi ferivano perché le spiegazioni erano sempre volte al senso di colpa. Dovevo sentirmi in colpa per il mio egoismo perché lei faceva già così “tante cose” per me, addirittura mi aveva messo al mondo, e io la assillavo con il chiaro intento di farle perdere tempo e farle venire il mal di testa.

La questione sui capelli andò avanti per qualche settimana, soprattutto in vista della fine dell’asilo. Mancava poco alla foto di fine asilo a metà giugno, che sarebbe stata scattata da un fotografo l’ultimo giorno di asilo, in vista dell’inizio delle elementari, che sarebbero iniziate a settembre.

Commisi l’errore di insistere più del dovuto e un giorno feci quelli che potevano essere considerati classici capricci da bambini. Allora lei non disse più no, in quel momento ebbe una idea malsana e se solo avessi avuto più esperienza o più intelletto, avrei capito che c’era qualcosa di strano nell’improvvisa accettazione della mia richiesta. Io, nella mia ingenuità, credetti che i capricci avessero funzionato. Mi disse che non mi faceva mai i capelli perché non era capace, ma che prima dell’ultimo giorno di asilo mi avrebbe portata dal parrucchiere e mi avrebbe fatto una acconciatura bellissima. Ero emozionata.

Fu così che, il sabato antecedente l’ultima settimana di asilo, mi portò in un salone di bellezza che si trovava in paese. Venni fatta sedere su una poltrona, ma non arrivavo a guardare lo specchio e quindi cosa mi succedeva in testa. Non ero mai andata dal parrucchiere, non sapevo come funzionava.

Vidi mia madre parlare con il parrucchiere per spiegargli, pensai, quale taglio farmi. Lui annuiva preoccupato, lei sembrava serena e io mi feci coraggio guardando la contentezza della sua espressione. Lui si avvicinò, mi mise la mantella e mi disse di stare ferma immobile qualsiasi cosa sentissi. Io mi fidai, chiesi perfino ad una delle parrucchiere lì vicino se fossi bellissima e lei mi rispose commossa che sarei sempre stata bella. Ci sono delle risposte che acquisiscono un senso solo più avanti negli anni.

Quando ebbe finito, molto velocemente, mi fece alzare dalla sedia e vidi per terra moltissimi capelli. Chissà perché non realizzavo che potessero essere i miei, anche se credo che fosse abbastanza normale dato che non avevo mai visto dei capelli tagliati dopo aver raggiunto quella lunghezza considerevole.

Corsi all’entrata del salone dove c’era lo specchio e mi guardai, ricordo che l’impatto fu tanto forte che barcollai. Non avevo più i capelli lunghi. Erano stati tagliati ad appena quattro centimetri di lunghezza. Sembravo un maschio. Mi misi le mani tra i capelli e non dimenticherò mai la sensazione di non avere più capelli lunghi. Mi venne l’affanno, cominciai a piangere e ricordo il petto che sembrava esplodermi. Le parrucchiere erano anche loro leggermente urtate dalla cosa, l’unico apparentemente insensibile fu proprio il capo del salone, che passò semplicemente alla cliente successiva dopo aver raccolto i miei capelli con lo scopino. Ecco lì la mia fiducia nel mondo che veniva letteralmente buttata nell’immondizia.

Sentii mia madre dire che aveva dovuto farlo, perché aveva sentito che all’asilo si era verificata una epidemia di pidocchi e non voleva che li prendessi anche io. Era una bugia, non c’erano stati pidocchi all’asilo, e soprattutto mi mancavano solo un paio di giorni a finire l’asilo.

Una volta fuori dovette trascinarmi, mi buttai a terra, rifiutavo di mettere un piede davanti all’altro. Mi mise in auto, ricordo che la portiera era verde scuro, il sedile color antracite. Lei salì al posto del guidatore e giurai di averla sentita dire “adesso abbiamo risolto il problema dei capelli” io mi tirai su, smisi di piangere, placai il mio petto che vibrava come le corde di un’arpa e le dissi, guardandola fissa dallo specchietto retrovisore “Questo non succederà più”. Lei rise e rispose che avrebbe potuto portarmi dal parrucchiere a tagliarmi i capelli a zero quando voleva e che così avrei imparato cosa succedeva ad assillarla. Assottigliai lo sguardo, poi dissi “Giuro che non taglierò più i capelli finché non mi arriveranno fino alle ginocchia”. Lei fece una smorfia di rabbia e schernii il mio giuramento, ridendo della mia presa di posizione.

A questo punto mi sembra d’obbligo fare un po’ di spoiler e anticipare che riuscii a mantenere la mia promessa: la volta successiva che andai dal parrucchiere per tagliare i capelli, avevo tredici anni e i capelli mi arrivavano ai polpacci.

L’ultimo giorno d’asilo feci la foto insieme a tutti e poi da sola. La foto esiste ancora, mia nonna la conservava gelosamente, dicendo che ero bellissima. Mi chiedo come mai solo io riesco a vedere la profonda sofferenza sul mio viso.

 

Vi è un altro episodio, molto più cruento che in realtà ho già scritto ma che alla fine ho deciso di non condividere, meglio evitare.

Ho sempre saputo di non poter essere l’unica ad avere a che fare con una figura genitoriale snaturata, e che nel mondo c’erano madri molto peggiori della mia, anche perché la morale cristiana e italiana in cui sono tristemente cresciuta, mi ricordava ogni giorno che “ehi, c’è chi sta peggio di te, non lamentarti che sei così fortunata!”. No, no ragazzi. Lamentatevi, fatevi sentire. Se qualcosa vi fa male, non sopportate più di quanto il vostro buon senso reputi normale. Fate casino, fatevi sentire. Forse i più vi allontaneranno, ma qualcuno vi sentirà. Qualcuno vi ascolterà e a quel punto forse la vostra situazione non migliorerà, ma almeno avrete qualcuno che vi sostiene nel disagio.

Per anni le mie zie avevano sostenuto che mia madre dovesse avere qualche malattia mentale, bipolarismo o cose di questo tipo, in realtà no… lei non è psicotica: è solo una narcisista, anaffettiva, prevaricante, vigliacca e piena di rabbia. Rabbia perché avrebbe voluto essere bella, perfetta, sagace, intelligente, geniale, lodata, lusingata, ricca, amata da tutti, l’unica con la figlia perfetta e il marito figo e perfetto, senza dover mai lavorare etc. Invece era obesa, brutta, aveva perso i capelli, astuta ma non colta perché non aveva voglia di studiare e la conoscenza non si può acquisire senza lo sforzo di applicarsi allo studio. Aveva scelto tra tutti uomini che erano belli e benestanti ma profondamente disturbati e mio padre, bello, con genio nel suo settore professionale ma incline all’uso di droghe per via della sua vita turbata, alla fine l’aveva tradita e abbandonata. Poi c’ero io, che da piccola tendevo ad essere grassottella e vivace, ma allo stesso tempo riservata e piena di passioni e soprattutto ero intelligente. Ero più intelligente di quanto lei sia mai stata, ora posso dirlo con certezza, e questo la mandava in bestia.

Non so se mi abbia mai voluto bene, sicuramente non mi ha amato ma penso che sì, provasse dei sentimenti per me. Come quando ti affezioni a qualcuno perché bene o male ci hai vissuto per tanto tempo e avete condiviso tante cose, ma no, non ho mai sentito amore per me. Questa è la mia ferita narcisistica e se avessi avuto gli stessi impulsi di mia madre, avrei potuto veramente diventare una narcisista delle peggiori. Non so perché, penso che a questo punto si tratti di una questione di carattere o di predisposizione ad un concetto di morale particolarmente complesso.

Io posso nuocere al prossimo, ma non lo faccio perché non è giusto, non voglio farlo, anche se una parte di me pensa che questa cosa sia molto affascinante. Io resterò integra, per quanto mi si possa considerare ancora integra.

Ho letto tanti libri sulla manipolazione mentale, il linguaggio del corpo, sulla comunicazione assertiva, sulla programmazione neurolinguistica e mia madre in 18 anni me ne fece passare di ogni. Questo ha fatto di me “una delle persone più refrattarie alla manipolazione di qualsiasi genere che abbia mai visto” a detta del mio psicologo. Eppure mi ha rovinato indelebilmente perché non riesco più a fidarmi di nessuno e la mia indipendenza e autonomia sono spesso controproducenti. Non riesco a chiedere aiuto e sono cocciuta e arrogante. Uso il turpiloquio come valvola di sfogo alternativa alla violenza fisica e sono sempre arrabbiata.

Però sono riuscita a scappare, alla fine ce l’ho fatta. Il giorno in cui me ne andai di casa, senza preavviso e senza che lei sapesse niente, lo ricordo come fosse ieri. Misi tutta la mia roba nel baule della mia auto, incredibilmente ci entrava tutta, non possedevo granché e lo realizzai solo in quel momento. Andai da lei che era davanti alla televisione (che non ho mai potuto vedere, il divieto in realtà è stato protratto finché non me ne sono andata) e le dissi solo “Sto andando via. Vado via di casa.” Lei tacque per qualche secondo, senza mai staccare gli occhi dalla TV. Rispose senza muovere un muscolo del corpo e senza mai distogliere lo sguardo dallo schermo “Sì ok”. Rimasi un po’ spiazzata da quella risposta ma non le diedi modo di rendersi conto che in realtà era riuscita a sconvolgermi anche con un solo “Sì ok”. Salii in auto e non la rividi per mesi.

Fu l’inizio di una nuova vita.

  
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