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Autore: Yellow Canadair    15/07/2023    2 recensioni
Lucci, Kaku e Jabura si svegliano nudi in un laboratorio sconosciuto. Dove sono? che è successo al resto del gruppo? perché non riescono più a trasformarsi? Tutte domande a cui risolvere dopo essere scappati, visto che sono giustamente accusati di omicidio plurimo.
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Nefertari Bibi è sparita da Alabasta: Shanks il Rosso l'ha portata via per salvarla da morte certa, perché qualcuno vuole il suo sangue per attivare un'Arma Ancestrale leggendaria. Ma i lunghi mesi sulla Red Force suggeriscono a Bibi che forse chiamare i Rivoluzionari potrebbe accelerare i tempi...
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Intanto Caro Vegapunk ha una missione per gli agenti: recuperare suo padre, prigioniero nella Sacra Terra di Marijoa. Ma ormai Marijoa è inaccessibile, le bondole sono ferme, e solo un aereo potrebbe arrivare fin lassù...
I Demoni di Catarina, una long di avventura, suspance e assurde alleanze in 26 capitoli!
Genere: Angst, Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cipher Pool 9, Jabura, Nefertari Bibi, Rob Lucci, Shanks il rosso
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dal CP9 al CP0 - storie da agenti segreti'
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Capitolo 26

I Demoni di Catarina

 

Bibi, Koala e Sabo, scortati da Shanks e Benn Beckman, percorsero i corridoi come cavalli al galoppo e finalmente, attraversata una vasta e camera decorata di oro e di lilla, profumata di fiori che di lì a poco sarebbero bruciati per l'incendio che stava rapidamente divorando il Castello Pangea, arrivarono in una stanza che, in più occasioni, avevano visto tutti, in tutto il Mondo: la Stanza del Balconcino.

Quando i Draghi Celesti volevano parlare alle nazioni, in genere per dei provvedimenti improvvisi dei quali tutti i sudditi dovevano essere subito avvisati, ordinavano a un loro araldo di posizionarsi su quel Balconcino e leggere il loro proclama: un sistema di lumacamere trasmetteva quel discorso ai lumaschermi disposti in tutte le piazze di tutte le città e ovviamente, oltre all'araldo stesso, era ben riconoscibile il castello Pangea e la stanza dietro all'araldo, visibile tra le tende semiaperte.

Quello dunque non era un semplice balconcino: era IL balconcino. Era importante che la trasmissione partisse da lì: tutto il mondo doveva sapere che Marijoa era crollata, i Draghi Celesti non esistevano più, e chi voleva era libero di stringere un'alleanza con la regina di Alabasta.

Bibi si affrettò a una finestra, schermata da un pesante tendaggio. Cercò invano tra le pieghe del tessuto una fessura dove infilarsi per aprire i vetri e guardare fuori ma, non trovandola, afferrò a piene mani il prezioso broccato e lo tirò con forza, facendo cadere l'intero bastone che reggeva la tenda e liberando la finestra. Anche senza aprire il vetro, Bibi vide un nube oscura poco lontano; afferrò la maniglia e aprì l'anta, e un acre odore di bruciato le pizzicò le narici.

«Oh no!» esclamò la regina. «Sta bruciando tutto!»

«Stavolta non sono stato io.» disse Sabo. Per coprire le sue pudenda avevano smontato una delle Sentinelle D'Argento sconfitte e adesso il giovane sembrava un cavaliere con l'armatura scintillante. Un po' scomodo come vestiario, ma meglio che andare in giro completamente nudo.

Benn Beckman e Shanks, molto attenti a stare più lontani possibile dalle lumacamere, si misero fuori dai due ingressi della stanza: lì non avrebbero rischiato di essere ripresi e avrebbero tenuto sotto controllo la situazione, evitando che entrasse qualche battaglione di Sentinelle D'Argento modello androide.

«Sei pronta?» chiese Sabo, mentre Koala montava in fretta il cavalletto con la lumacamera, cercando un punto che catturasse sia la luce migliore, sia l'ala ovest del Castello Pangea dalla quale si levavano fiamme sempre più alte.

«No che non sono pronta!» rispose Bibi. «Facciamolo e basta!»

«Ci sono! qui è pronto!» disse Koala. Prese un lumacofonino bianco e comunicò: «Mercoledì è arrivato! Mercoledì è arrivato e siamo tutti contenti!» 

E qualcuno, da chissà dove, rispose misteriosamente: «Esce il topolino, tutti i bambini sono contenti!»

Evidentemente era un codice dei Rivoluzionari; poi Koala guardò Bibi e sussurrò: «Due minuti e siamo in onda. Ripassa quello che devi dire.»

Bibi fece un gran sospiro. In quel momento, in tutto il mondo, l'Armata Rivoluzionaria stava accendendo, di isola in isola, migliaia e migliaia di schermi. Milioni di persone sarebbero state liberate da un giogo crudele che le incatenava da generazioni e generazioni. E lei? lei, come le aveva detto Sabo, sarebbe stata un’icona: una figura di rottura con il passato, qualcuno che avrebbe ispirato tutte le persone a mettere in dubbio il potere centrale. Ma in seguito, pensava Bibi, avrebbe dovuto stare bene attenta all'Armata Rivoluzionaria: Sabo e Koala erano amici, ma la giovane Nefertari sapeva bene di dover essere molto cauta… erano persone che, se volevano, potevano far precipitare nella guerra civile anche un regno pacifico come quello di Alabasta, e lei era in un certo senso una pedina. 

«Dieci secondi alla diretta!» esclamò Koala. 

Bibi si mise in posizione.

«Cinque secondi.»

«Andrà tutto benissimo.» le promise Sabo, posandole un bacio su una guancia.

Bibi si voltò in quell'esatto momento e Sabo la baciò in piena bocca.

«IN ONDA!»

Bibi era pietrificata e con la leggera pressione delle labbra del ragazzo impresse sulle sue.

Rimase due interminabili istanti con gli occhi fissi negli occhi della lumaca davanti a lei e poi, come aveva provato tante volte da sola, allo specchio, esordì: «Care cittadine e cari cittadini. Il mio nome è Bibi Nefertari, la regina di Alabasta. Mi trovo oggi a Marijoa… questo è un luogo che conoscete bene. Molti di voi non ci sono mai stati, ma sono certa che tutti lo riconosciate… il balcone da cui per tanti anni, per tanti secoli, sono state promulgate leggi ingiuste. Da cui un portavoce si è occupato di condannare, di punire, di reprimere… di mandare a morte compagni, compagne, figli e figlie. Da cui è stato preteso il vostro pane, il vostro grano, il vostro denaro… con il quale avreste potuto costruire scuole, strade, ospedali! Ma oggi… oggi il Castello Pangea, costruito con il vostro sangue e con il vostro sudore… sta bruciando. Sta bruciando in questo momento!» 

E indicò verso il padiglione in fiamme.

Fece una pausa.

Benn, oltre una delle due porte, ascoltava compiaciuto. Aveva sentito quel discorso tante volte, sulla Red Force, di notte, quando Bibi credeva che tutti dormissero. E stava facendo girare in suo favore anche l'incidente dell'incendio. Si fumò una sigaretta, contento: il loro lavoro era terminato.

«L'Armata Rivoluzionaria ha abbattuto questo sistema di potere malato, grazie al quale un pugno di Nobili veniva mantenuto da tutti noi! l'era dei Draghi Celesti è tramontata per sempre! I Nobili Mondiali non ci sono più. Presto non esisterà più neanche questo balcone. Da oggi non siete più sudditi e suddite di un Governo Mondiale che nemmeno vi conosce… non siete sudditi di nobili che hanno potere di vita e di morte su di voi...» aveva le lacrime agli occhi.

Prese fiato. Sabo applaudì senza far rumore con i palmi, e Koala da dietro alla lumacamera fece cenno con il pollice all'insù.

Shanks, oltre l'altra porta, sorrise compiaciuto: brava, regina.

«Da oggi la schiavitù è illegale. Da oggi non esistono più i Draghi Celesti. Ma soprattutto… da oggi siamo liberi.»

Abbassò lo sguardo e continuò: «Essere liberi vuol dire non aver più paura. Vuol dire decidere da soli la nostra storia. Vuol dire che adesso la responsabilità è solo nostra. Proporrò ai rappresentanti del popolo di Alabasta di formare un'assemblea costituente… e se la Alabasta lo vorrà, fonderemo con altre nazioni amiche una comunità di aiuto, supporto e fratellanza. Siamo liberi. Non siamo più soli contro un potere invisibile.» e poi concluse togliendosi la corona: «Da oggi non siamo più sudditi. Non siamo più re o regine. Da oggi siamo… cittadine e cittadini.»

Koala premette stop.

«È andata benissimo!! brava!!» saltellò allegra.

Bibi sospirò e si appoggiò alla ringhiera, rilassando le spalle: era fatta. Il momento per cui si era preparata per due anni era arrivato, ed era già andato via. 

E adesso?

Adesso doveva scappare, e poi raccoglierne le conseguenze.

Sentì aprirsi la porta, e si voltò verso l'interno della stanza: davanti a lei c'erano Koala e Sabo, e oltre c'era Benn Beckman che, a lumacofoni riposti negli zaini, stava ritornando nella stanza dalla porta che Bibi aveva udito aprirsi.

«Adesso ci aspetta una bella corsa verso l'uscita» stava dicendo Koala.

Beckman si guardò attorno, poi avanzò a grandi passi verso l'altra porta, quella custodita da Shanks. La aprì in cerca del suo capitano, ma la sua Ambizione aveva già captato qualcosa di strano.

Anzi, non aveva captato proprio niente.

Perché Shanks era sparito.

 

 

Erano più veloci. Erano più forti. Erano più grossi. Ed erano spietati.

Kumadori e Tashigi osservavano angosciati quel combattimento, in cui i loro amici, infinitamente minuscoli, scappavano per la stanza, in un susseguirsi di Geppo, Soru e Kami-e, e riuscendo solo sporadicamente ad assestare qualche colpo: ma era drammatico sapere che era questione di minuti, o anche meno, perché venissero catturati, fatti a pezzi, e uccisi.

I colpi dei loro avversari, invece, andavano a segno e venivano parati con il Tekkai con grande difficoltà, persino da Jabura, e l'aria era squarciata da grida soffocate e schiocchi di ossa spezzate. Era un folle mattatoio in cui l'odore del sangue diventava via via più penetrante, e le pietre del pavimento ormai si vedevano appena, offuscate da fiumi cremisi.

«Dottor Vegapunk, la prego, ci dev’essere un modo per fermarli!!» implorò Tashigi, ben conscia che dopo gli agenti sarebbe toccato a loro.

«Nulla che abbiamo a disposizione adesso! A parte neutralizzare il signor Spandam! È lui che ha il controllo vocale dei cloni!» gridò lo scienziato.

«Bene, allora vado io.» ringhiò risoluta Tashigi.

«FERMATI!!!» la placcarono a viva forza Vegapunk e Kumadori, e anche Smoker si mise nel mezzo, facendo tossire la sua sottoposta fino a farle cadere gli occhiali.

«Yoyoi, nessuno più di me comprende il tuo sentimento, e io davvero desidero uccidere il fellone che tanta sofferenza ci ha cagionato e tutt’ora continua. Ma due volte Rob Lucci ha cercato di uccidere Spandam, e due volte ‘l suo avversario l’ha preso e orribilmente crivellato di colpi!!»

«E allora cosa facciamo? Dopiamo i tuoi compagni??» si irò la marine. «E poi qui comincia a scricchiolare tutto! Il laboratorio sta per implodere!!»

Vegapunk si fermò, come in trance. Poi disse, prima mormorando e poi con grida sempre più acute: «Sì… sì… sì EUREKA!!! Questo credo proprio si possa fare!!!» e cominciò a scavare nella busta delle cose che aveva portato via dal suo laboratorio.

«Loro hanno parlato di esperimenti con una sostanza che si chiama “Demon”, giusto?» disse tirando fuori tre siringhe.

Kumadori annuì.

Vegapunk armeggiò brevemente con alcune fiale e riempì le tre siringhe. «Ero sicuro che Judge Vinsmoke stesse lavorando a quel progetto. Quindi anche io mi ci stavo arrovellando… loro sono stati testati con il Demon ma hanno detto che la sostanza non ha mai fatto effetto… ebbene, probabilmente è perché manca un reagente!!»

«Cioè… un come un detonatore? Una sostanza che attivi la sostanza?» mormorò pensosa Tashigi. 

«Invero non potrebbe essere rischioso per le loro persone?» azzardò Kumadori.

«Temo che morirebbero comunque, senza.» sussurrò Tashigi, sovrastando un grido di dolore proveniente dallo scontro: erano alle battute finali.

Vegapunk teneva le tre siringhe pronte tra le dita. «Siete pronti a scatenare i Demoni di Catarina?»

 

~

 

Im spariva e ricompariva, era voce ed era lunghe mani scheletriche che serravano la gola di Drakul Mihawk senza neppure toccarlo.

Era fiamma che ardeva la pelle, era acqua che strozzava il respiro in gola.

Era il nulla nascosto nei meandri del tuo cervello quando hai la febbre alta.

Erano occhi che spiavano nei meandri del buio in cui Mihawk era immerso, un abisso mortale di nulla che inghiottiva pensieri e azioni.

Drakul Mihawk però conosceva fin troppo bene l'entità che aveva davanti, con i suoi tranelli, i suoi sotterfugi e il suo potere. La vita che aveva vissuto in quel pianeta, rinnegando l'immortalità, non era stata sprecata: era stata una strada tortuosa che l'aveva portato, attraverso mille esperienze, a competere con una divinità. Non con la forza, non si sfidava Im a braccio di ferro. Come aveva detto al suo unico allievo, la sola forza non serve a nulla, quando si maneggia una spada.

Infatti, ogni colpo vibrato con la Yoru, la spada nera, sarebbe stato solo un proiettile sprecato, energie perse, tempo futile che scorreva tra le dita: Im trascendeva il reale, la lama non faceva partire nessun colpo, MIhawk si spostava ma le sue azioni non succedevano mai, assorbite dal nulla e annientate dal cosmo.

«È davvero incredibile quello che fai… un futile capriccio dai risvolti patetici.» mormorò vellutata la voce di Im, mentre la piuma del cappello di Mihawk spariva per sempre nello spazio profondo, annullandosi. «Continui con questa infinita follia , eppure lo sai che solo io posso decidere se aprire o non aprire questa dimensione divina… lo sai benissimo che se annulli la mia illustre persona, questa sarà la tua tomba.»

Mihawk guardò serissimo Im negli occhi.

Le loro iridi dorate, così simili nell’aspetto, ipnotiche e profonde, si incrociarono. Tutt’attorno era nero, e stelle e pianeti in lontananza. Gli occhi di Mihawk brillavano di pensieri, di canzoni, di bevute con Shanks, di sangue e battaglie. Quelli di Im rilucevano delle albe di migliaia di anni, di foreste primordiali, di stanze segrete di antichi templi, di amori lontani e stellari.

«Credi di aver generato uno stolto?» lo rimbeccò Mihawk. «Conosco da sempre la natura di questo luogo… anche se fino all’ultimo ho sperato di non doverla mai sperimentare.»

Im parve perdere aplomb e risuonarono seccate delle trombe, in quel nulla. «E allora cosa ci fai qui? Perché mi costringi a perder tempo in futilità, a condividere dei minuti con te? Feccia sei diventato, come la feccia che frequenti. Perché sacrificare la tua divina esistenza? Perché sputare sopra la tua ascendenza?» 

Il filo dei bottoni della camicia di seta di Mihawk si scuciva, si sfilava in altri minuscoli fili, e presto anche i bottoni di madreperla si sarebbero staccati e si sarebbero dissolti in quello spazio di nulla.

«Non ti permetto di definirti “mia ascendenza”» lo rimbeccò lo spadaccino. «Il mio nome non ha più niente a che fare con te. Non ha niente a che fare con i capricci di un bambino millenario.» 

E Mihawk sparì nel nulla, lui, la camicia di seta, gli stivali, la croce al collo, i capelli morbidi in cui far navigare le dita nelle notti d'estate.

Im stava per rispondere, quando all’improvviso avvertì una sensazione strana che non aveva mai provato prima. In basso. Pensò a quella parola che usano gli umani per descrivere quella parte del loro corpo: pancia.

Era normale che dalla “pancia” emergesse una lunga lama nera?

Si voltò alle sue spalle: la torsione gli provocò un’altra reazione… dolore? Arrivava al suo cervello, la sentiva fra le mani infinite, estranea eppure ancestrale.

Alle sue spalle i loro sguardi, di nuovo, si incrociarono: eccolo, quel figlio caduto in disgrazia, con la sua stupida lama forgiata dai mortali; impugnandola a due mani, spostandosi nel nulla con la grazia di un dio, l’aveva trafitto senza che nemmeno se ne accorgesse.

«Sono immortale.» gli ricordò sospirando.

«Lo so.» disse dignitosamente Mihawk. «Questa è una delle lame maledette… l’unica arma al mondo che può funzionare contro di te.»

«Ti ripeto che sono immortale.»

«E infatti non uccide: ti riporta nella tua vera dimensione. Salutami Gea, quando la vedi.»

Sul volto di Im si dipinse per la prima volta un’emozione: il terrore. «La dimensione divina? La dimensione dove ho esiliato…?»

Mihawk estrasse l’arma dal suo corpo. Nel ventre di Im rimase un buco grande quanto un pallone, attraverso cui si vedeva biancheggiare l'infinito; e da quel buco la sua persona cominciava velocemente a sgretolarsi; minuscoli pezzettini finivano nel cosmo, mangiati dal nulla.

«Yoru è maledetta dagli spiriti… pensi di capire il mondo che hai creato, ma in realtà ci sono ancora tante cose che sfuggono al tuo controllo. E questo lo sai… per questo volevi evocare Uranos e distruggere tutto.»

Im mostrò sdegno.

Mihawk continuò: «E magari ricostruire tutto come volevi tu, senza l'interferenza di Gea… non è comico?» sospirò rimettendo la Yoru al suo posto, sulle sue forti spalle, nell'incastro di cinghie con cui la portava in giro. «Distruggere un pianeta come ripicca per una storia d'amore finita male. Non vedevo una cosa così adolescenziale da quando Perona ha appeso il poster di una pessima boy band nella sua camera a Kuraigana.»

Perona… aveva detto quel nome, ma la memoria cominciava a sgretolarsi… chi era stata "Perona"? che concetto era "perona"?

«Rimarrai qui in eterno!!» lo maledisse Im. «Non aprirò il portale per la Terra, prima di sparire.»

«Accomodati.» disse Mihawk, sedendosi su una sedia fatta di nulla. «La mia decisione era presa molto tempo fa: se fossi impazzito, sarei dovuto essere io a mettere la parola fine alla tua follia. Tutto si è compiuto. E, a proposito…» aggiunse ricordandosi un dettaglio. «Donquijote Doflamingo ti manda i suoi saluti.» »

Im spalancò gli occhi, rabbioso, e la sua testa in quel momento sparì per sempre.

«Impazzirai lentamente! Il nulla ti mangerà il cervello e…» ma la voce morì.

E nulla fu.

Il silenzio era appena cominciato e già era assordante.

Mihawk guardò la camicia, che non c’era più. Guardò la punta dei suoi stivali, non vide niente.

Sospirò.

Tutto cominciava a svanire.

 

~

 

La nuvola di fumo bianco serpeggiò risoluta, aleggiò rapida verso Vegapunk e assorbì dalle sue mani le siringhe. In un attimo fu al centro della stanza, tra i piedi dei duellanti, e trafisse i tre agenti con gli aghi. Poi si gonfiò a dismisura, riempì la stanza, ultimo sforzo di un Rogia alla fine della sua corsa, per permettere ai tre uomini di risparmiarsi almeno qualche colpo e trasformarsi… qualsiasi cosa avrebbe significato per loro.

«Che fate, idioti??? Continuate!! Devono morire!!!» berciò Spandam.

Dalla nebbia lentamente emersero tre lugubri figure. Sembravano malferme, ma passo dopo passo apparivano sempre più sicure, e sempre più assetate di sangue. I loro corpi scattanti erano poco più bassi degli avversari, ma ben più massicci, e sembravano trasudare un sottile fumo nero, che avvolgeva i loro muscoli tesi in spirali che salivano verso l'alto, senza mai disperdersi del tutto.

Pelo folto ricopriva i loro muscoli tesi, gli artigli lucidi graffiavano il pavimento come fosse di velina, i loro occhi feroci scandagliarono la stanza fino a trovare vittime alla loro altezza.

Kumadori impallidì quando gli occhi gialli di Jabura incontrarono i suoi: anche quello era un Monster Point, ordunque? Ancora sì vivido era il ricordo tremendo di Enies Lobby! E i suoi amici erano ormai trasformati, la loro coscienza per sempre inghiottita dal buio e demoniaco abisso? 

Ma proprio in quel momento sentì sghignazzare: «Uhuhuh… questo mi era mancato.» e un ululato riempì l’aria.

Smoker ritornò verso Tashigi, Kumadori e Vegapunk, ma quando fu a pochi metri da loro scivolò per terra, e con un grugnito infastidito ritornò in sembianze umane.

«Porca miseria, era or-» borbottò Smoker, in ginocchio, ma si interruppe bruscamente. Tashigi, commossa, a denti stretti nel tentativo di fermare le lacrime, lo strinse a sé, finalmente, dopo due anni a crederlo morto.

Smoker si irrigidì, pensò per un istante di pretendere un comportamento degno di lei, poi sospirò, e abbracciò quella ragazza che ancora una volta, e in circostanze assurde, gli aveva mostrato assoluta devozione. 

Era alleata con degli agenti del Cipher, ma Smoker era sicuro che ci fosse una spiegazione. Anche perché uno degli agenti era accanto a lui e piangeva a fontana, perduto nella contemplazione del miracolo cui stava assistendo, e bagnando di lacrime anche il camice di Vegapunk, nel quale si soffiò rumorosamente il naso.

«Smoker, mi dispiace interrompere il momento, ma…» Vegapunk gli passò quella che sembrava una cintura di plastica morbida, con una fibbia gialla. «Può indossare questo? Premendo il pulsante si genereranno dei vestiti. Non c’è ancora una grande scelta, ma meglio che rimanere nudi, non trova? Così vedrò come si comporta questa invenzione con un utilizzatore di una taglia così diversa dalla mia…» 

Tashigi arrossì e i suoi occhiali si appannarono. «Mi… mi scusi signor Smoker, signore.» mormorò in imbarazzo, staccandosi dal suo superiore e rendendosi conto che… era completamente nudo.

Smoker posò con gratitudine una mano sulla testa della sua ormai ex sottoposta, poi si voltò verso lo scienziato. «Fanculo, Vegapunk.» ringhiò Smoker in risposta, strappandogli dalle mani l’aggeggio sperimentale.

 

 

Che stava succedendo? Jabura non lo sapeva. Sapeva soltanto che era di nuovo in forma animale, era di nuovo un lupo, ma stavolta era alto almeno cinque metri, aveva molto più pelo che attutiva i colpi avversari, i muscoli sembravano vibrargli sotto la pelle e tirava dei Rankyaku che non aveva mai visto in quanto a precisione e potenza. Del fumo nero e sottile avvolgeva i suoi movimenti, sembrava rabbia che gli trasudava dal corpo. Forse stava sognando? Forse era morto? Ma chi se ne fregava! Stava facendo a pezzi quella faccia di merda del clone, lo stava strangolando con il suo stesso collare, e stavolta la rigenerazione non riusciva a essere più veloce di lui.

Bramoso di vendetta e violenza, incassava e attaccava con dieci volte più forza, godendo nel sentire le mani ricoperte dall'Ambizione e dal Tekkai spaccare quella faccia di cazzo del suo avversario.

Che poi in realtà la faccia di cazzo era la sua.

"Che faccia di cazzo!" gli diceva Lili ridendo, al bar, a Catarina, in un'altra vita, con il costume bagnato e i fiori tra i capelli.

Il clone sfoderò fuoco e fiamme dalle mani, l'odore del pelo bruciato penetrò le narici dei due animali, pugni infuocati cercarono di penetrare il Tekkai di Jabura, ma il Demon aveva preso il sopravvento nelle sue vene, e fargli male non era più facile come prima.

Con il petto e gli avambracci che fumavano per la trasformazione e per i colpi subiti, Jabura prese la rincorsa e gli assestò un fortissimo cazzotto in pieno plesso solare, lasciandolo finalmente senza fiato e sbattendolo all'altro capo della stanza.

Nel corpo del clone c'era un proiettile.

C'era il calibro 9 che una pilota gli aveva sparato a bruciapelo. 

Il proiettile era entrato, il foro d'entrata si era rimarginato, ma lui, il proiettile, era rimasto lì.

Pugno dopo pugno, caduta dopo caduta, il proiettile entrava sempre più in profondità.

La rigenerazione cedeva, il Rankyaku del Jabura originale dilaniava, tagliava, recideva, il sangue sgorgava a fiumi e Jabura nemmeno sentiva più gli sporadici colpi che ogni tanto il suo avversario riusciva a infliggergli.

Poteva anche avere un fattore di rigenerazione, ma doveva avere la stessa matrice delle Sentinelle D’Argento: bastava decapitarlo, e il processo si sarebbe fermato.

Ammazzare se stesso? Se Jabura pensava troppo, faceva impressione. Ma era un professionista, assetato di sangue. La posta in palio era la vita dei suoi amici, la vita di Lilian. E pensando a tutti loro non ebbe pietà. 

Un ultimo pugno in petto fece indietreggiare il clone.

Il proiettile raggiunse il cuore, e la sua stessa presenza impedì finalmente la rigenerazione. Il sangue smise di pompare, gli occhi del clone incontrarono per l'ultima volta quelli ferini e bestiali di Jabura.

«Ohoh… sembra che il gioco sia finito.» ghignò lui, l'originale, leccandosi le labbra spaccate dalla lotta.

Atterrò l’avversario, lo inchiodò a terra con il suo stesso peso, e a piene mani, dopo avergli devastato quel miserabile Tekkai che provava a fare (solo una pallida imitazione del suo), gli penetrò la gabbia toracica, strappando via quello che trovava.

E quando dell’avversario non rimasero che brandelli sparsi e inerti, Jabura ululò, rise, e poi cadde privo di sensi nel suo stesso sangue.

Kaku combatteva come assorto, incazzato nero per le prese in giro che il suo clone aveva osato rivolgergli. Non era così che aveva immaginato il risveglio del suo Frutto, e forse poteva dimostrare a Jabura che non solo le giraffe gli piacevano, ma le aveva anche studiate nei minimi dettagli per riuscire a sfruttare in combattimento tutte le peculiarità di un corpo a prima vista così ingombrante.

Le zampe erano mitragliatrici per fitte gragnole di Shigan, ben più letali di quelli fatti finora, che imprigionarono l’avversario in una stretta gabbia di correnti d’aria taglienti come rasoi; il collo era una frusta che liberava dei Rankyaku potenti, precisi, e che in breve trovarono un varco nella difesa avversaria: una lama, un calcio, un salto dall’alto, e la testa del clone venne recisa di netto in uno strale di sangue scuro e denso. «Adesso voglio proprio vedere se parli ancora.» ringhiò il giovane agente, prima di accasciarsi al suolo, stremato.

Spandam vedeva sgretolarsi la sua sicurezza. Due dei suoi mastini erano morti, ma il terzo… andiamo, era Rob Lucci! La copia perfetta e migliorata di Rob Lucci! Quel Vinsmoke gliel’aveva assicurato, no? Era il meglio del meglio! 

E allora perché era messo alle strette dall’originale, originale che poi era anche stremato, ferito, e sembrava un gatto gigante asmatico??

Decise che era meglio strisciare via. Sì, decisamente, molto meglio lasciare che fosse l’ultimo clone a sistemare tutta la faccenda.

Approfittando della confusione, strisciò sotto il muro e senza dare nell’occhio andò verso la parete di fondo e armeggiò per aprire la porta.

Ma una mano piuttosto grande, e molto pelosa, si schiantò contro la porta, tenendola ben chiusa. Il pelo grigio risaliva su un avambraccio molto muscoloso e molto umano, e con il sangue ghiacciato nelle vene Spandam si girò lentamente fino a mettere a fuoco, sopra di lui, il tatuaggio con il kanji di “lupo”, un ghigno tremendo sfatto di stanchezza, e due occhi gialli da predatore che aveva appena trovato la sua preda.

«Vai di fretta, stronzo?» ringhiò Jabura.

Spandam aprì la bocca per rispondere, ma la paura gli fece morire la voce in gola. 

Jabura lo afferrò per il collo e Spandam venne sbattuto con le spalle contro la fredda porta di metallo che gli avrebbe assicurato la fuga. Il Lupo lo sollevò da terra, e lui dovette mettersi in punta di piedi per toccare il pavimento.

Aprì gli occhi e vide, vicinissimo, il volto di Jabura mezzo trasformato, sporco di sangue, con i lunghi capelli che gli cadevano sulla fronte sudata e gli occhi ferini e ardenti che lo scrutavano dal fondo dell'inferno. Il naso doveva essere rotto, e le zanne bianchissime e acuminate brillavano nel sangue rappreso sceso dal setto spaccato.

Spandam istintivamente strinse con le mani il braccio che lo stringeva, ma era come stringere la pietra.

«…lasciami andare.» mormorò. «mi dispiace, mi dispiace tantissimo, io non volevo farvi attaccare, è stato il Governo, il Governo mi ha detto di proteggere questo laboratorio… Jabura, tu sei… sei un agente bravissimo, uno dei migliori, sai benissimo che gli ordini non si dis-»

«Ci hai venduti al Germa.» .

Spandam sbiancò, poi cercò di balbettare con aria innocente: «Quale Germa?» 

«Hai fatto arrestare Fukuro e Kumadori.» continuò pianissimo, scoprendo le fauci. «E li hai mandati a Tequila Wolf. La pena infinita.»

«Arrestati? è stato mio padre, io nemmeno c’ero…»

«E hai venduto Lilian agli schiavisti.» elencò infine, basso e terribile.

Spandam rise nervosamente «Posso metterci una parola con la Grande Armata, posso farti diventare ricchiss-»

Jabura strinse fino a mozzargli il fiato. «È la tua ultima occasione per salvarti! Dove sono?»

«…chi?»

«Gli altri agenti, Lilian e la dottoressa. Hai mandato il mio clone a ucciderli, ma non sono morti. E adesso. Voglio. Sapere. Dove. Sono.»

«Non ho idea di-»

Jabura gli afferrò la testa prendendogliela dalla fronte e lo sbatté contro il muro, spaccandogli il cranio e lasciandolo tramortito.

Spandam non ci vide per qualche istante, poi la vista gli tornò su quel volto sfigurato per la rabbia e per le ferite ricevute.

«Ti spacco il cranio a poco a poco finché non ti esce il cervello. Dimmi dove sono.» e spinse di nuovo la testa dell’uomo contro il muro.

Altro crock di ossa.

Di nuovo la vista che si anneriva. Sentì il sangue scorrere dentro il colletto, sul collo, tra le scapole. Spandam mormorò piagnucolando: «Va bene… sono chiusi nell'armeria del settimo piano. Sotto di noi. Dietro questa porta ci sono delle scale, nel corridoio, la seconda porta a sinistra.»

«Bravo, lo vedi che quando vuoi sei persino utile?» Jabura chinò la testa. Non smetteva di ansimare, la mutazione del Demon era stata tremenda, e quel maledetto clone aveva pestato fortissimo… beh non se ne sorprendeva, l'originale era di prima qualità.

Spandam gridò: «Abbiamo un patto! la mia vita!»

Ma la presa di Jabura non si allentò. Sollevò la testa per guardarlo dritto in faccia, nel buio brillò il suo ghigno.

Shigan.

Jabura gli penetrò il petto con due dita. Sentì il cuore pulsare sotto le falangi, guardò Spandam. Due occhi colmi di terrore. Spinse ancora. Penetrò il muscolo.

E infine ritirò la mano dal corpo dell'omuncolo, la vita si spense dal suo sguardo, e lo lasciò cadere per terra, nel suo stesso sangue.

«Non ci si fida del lupo, brutto stronzo.» disse, prima di crollare anch'egli in ginocchio. Artigliò la stoffa della felpa che si impregnava di sangue e strinse le zanne. Ma col cazzo proprio che crepo qui per colpa di questo coglione, pensò; prese fiato e cercò di fermare l'emorragia, ma tutto si spense, e cadde in avanti.

 

~

 

Drakul Mihawk sospirò e cercò Yoru sulle sue spalle, senza trovarla.

Anche il suo spadino, nascosto nella croce che sempre teneva al collo… finita. 

Era finita. Era finita per sempre. 

Niente più divinità, niente più Im che gioca con le vite delle persone come un bambino capriccioso che getta i suoi soldatini nel fuoco.

Gli sfuggì un sorriso, pensò a Gea.

Erano tornati insieme, da qualche parte, in qualche dimensione…? Mihawk non lo sapeva. Comunque fosse, pensò, aveva tutta l’eternità per fantasticarci su: era bloccato nella cupa dimensione di oscurità creata dal suo genitore, un fato che si era scelto e che aveva accettato.

La sua esistenza, la sua eternità, in cambio dell’esistenza e dell’eternità del mondo intero. Chiuse gli occhi: ormai tenerli aperti era inutile.

Aveva letto tanto, nei suoi lunghi e peregrini anni sulla terra, di libri era piena la sua biblioteca e di parole era colma la sua testa: milioni di pensieri di centinaia di autori gli avrebbero fatto compagnia durante quella lunga, lunga, lunga permanenza.

Oppure, pensò Mihawk, l’oscurità l’avrebbe compresso fino a ridurlo a un pugno di atomi senza memoria. Avrebbe perso gradualmente consapevolezza della propria vita fino ad allora, del proprio essere, delle sue capacità da “miglior spadaccino del mondo”, delle canzoni che aveva ascoltato, del vino che aveva bevuto…

«Ehi, sei qui?» 

E avrebbe cominciato a sentire le voci.

Sì, quello se l’aspettava, ma non così presto. Evidentemente era stanco e, anche se non lo avrebbe mai ammesso, fronteggiare Im l’aveva provato. 

Si strofinò gli occhi, si passò una mano sul volto rasato di fresco.

Non voleva sentire la voce del Rosso, come prima cosa, in quel mondo oscuro e infinito. Qualsiasi cosa, ma non il Rosso. Almeno, non subito.

«A quanto pare in questa storia non rispondi mai e devo sempre venirti a prendere di persona… vuoi almeno aprirmi? O c’è una ragazza con i fantasmini depressivi anche qui?»

Mihawk spalancò gli occhi di botto e quello che si vide davanti, nel buio più nero, tra le stelle e gli astri lontani, fu… Shanks.

O, meglio, solo la faccia di Shanks. Il suo ovale, per la precisione, come se emergesse a fatica da una cortina di nero. Una visione esecrabile, che devastava, con la sua mera esistenza, tutta la drammaticità e l’austerità della situazione.

Mihawk non rispose. Non subito, almeno. Non vedeva nemmeno le proprie mani, però in qualche modo vedeva Shanks.

«Che fai qui?» mormorò confuso.

«Mi devi ancora una bevuta, no?»

«Ma come hai fatto?»

Shanks scosse la testa e disse: «Te lo spiego con calma dopo, adesso afferra la mia mano!»

Mihawk si guardò attorno. «Quale mano?»

«Non hai molta scelta, con me.» sottolineò Shanks ridendo. «Questa!»

E con un po’ di sforzo riuscì a infilare nella dimensione oscura di Mihawk anche le spalle, e quindi il braccio destro.

Mihawk era incredulo, ma tese in avanti la propria mano destra per afferrare quella del pirata (e, sorpresa: riuscì a vederla!) e Shanks subito lo afferrò.

Poi, come un naufrago alla deriva che viene fatto salire su una scialuppa, Drakul Mihawk venne tirato a sé da Shanks, e abbandonò per sempre la dimensione oscura di nulla infinito in cui Im l’aveva confinato.

 

~

 

Hattori, terrorizzato, volò tra le mani di Kumadori coprendosi gli occhietti con le ali: al di sotto di Rob Lucci non si vedeva più il pavimento, ma una distesa ferrigna e acida di sangue e di sudore, e si sentivano le ossa scricchiolare e rompersi, e il fiatone delle due belve feroci riempiva l’aria pesante e cupa.

Di solito, durante i combattimenti, Hattori rimaneva a svolazzare al di sopra del suo compagno, ma quella volta era pericoloso persino quello: i colpi lanciati dai duellanti erano imprevedibili, supersonici, e se il clone avesse colto al volo l’opportunità di usare il piccione come ostaggio sarebbero stati guai, Demon o no.

Smoker vide chiaramente che la parete di fondo stava cominciando pericolosamente a perdere acqua: la pressione sottomarina, spaventosa a settemila metri di profondità, stava per far implodere tutto. «Vegapunk.» tuonò l’ex viceammiraglio. «Quanto tempo rimane a questo posto?» 

Il congegno di Vegapunk non aveva molta scelta, in fatto di vestiti: Smoker si era ritrovato vestito con un pantalone frusto, una camicia hawaiiana e un camice da laboratorio, già corredato con alcune matite nel taschino sul petto; la taglia di camice e pantalone era un po’ abbondante, la camicia era troppo piccola, ma Smoker aveva risolto strappandosela di dosso; infine, si era infilato in bocca due matite del taschino: non erano neanche lontanamente paragonabili a sigari, ma erano stati due lunghi anni di astinenza.

«Poco!» mormorò Vegapunk spaventato. «L’acqua che scorre sulla parete di fondo può solo significare che i danni si sono estesi fino agli scudi esterni… non credo che abbiamo più di quindici minuti!!»

«I marine!!» esclamò Tashigi. «Bisogna aprire tutte le gabbie, o…!!» impallidì: «Un’implosione li ucciderebbe tutti sul colpo, no?» 

Vegapunk la guardò interrogativo per qualche istante, poi si ricordò che nel mondo dei comuni mortali le vite umane erano preziose. «Tesoro mio, se questi vanno in giro per il mondo a dire che sono stati usati come cavie, pensi che me la passerei bene?»

Tashigi si inalberò: «Ma questo è… questo è disumano!!»

Smoker puntò le mani sulle ginocchia e si alzò, molto piano e sospirando. Mise una mano sulla spalla di Tashigi e la sua voce sembrò il tuono sotterraneo di un vulcano: «Va bene così, Tashigi.» disse.

Poi, con grandissima calma, si chinò fino ad essere a un pelo dal naso a patata dello scienziato, e piantò i suoi occhi grigi e tempestosi in quelli liquidi e timorosi di Vegapunk. «E se invece non lo facesse, penserebbe davvero di passarsela bene? So cos'è successo qui. So chi è lei e dove venirla a cercare, se non libera tutti adesso. E sono due anni che non fumo.. non è una bella giornata, dottore.»

Smoker, il Cacciatore Bianco.

Vegapunk, vedendosi così vicino non a un'inerme cavia, ma a un pezzaccio d'uomo che dava tutta l'idea di poterlo uccidere stringendolo semplicemente tra pollice e indice, tanta la rabbia, mormorò dei lamenti intellegibili fino a esclamare: «E va bene!» si diresse verso la scrivania di Spandam, dove c'era una plancia di comando secondaria, e schiacciò alcuni tasti. Si sentirono dei rumori metallici provenire dai piani inferiori. Poi si schiarì la voce e annunciò all'interfono: «Attenzione. È Spandam che vi parla. Dirigetevi verso l'uscita posta all'ultimo piano del laboratorio.» e poi riattaccò.

 

~

 

Il clone, dall'alto dei suoi svariati metri, guardò Rob Lucci appena trasformato che avanzava verso di lui e ridacchiò. «E invece è proprio vero che sei solo un debole prototipo… altrimenti ti saresti accorto di cosa stai facendo.» 

Rob Lucci si accorgeva benissimo di cosa stava facendo, invece: stava per distruggere definitivamente quella misera copia di se stesso, e stava pregando che il Germa non ne avesse messe in giro anche altre. Si leccò le fauci e tirò un primo Rankyaku contro l'avversario, che fu costretto a spostarsi.

Il colpo non era andato a segno, ma Lucci ghignò: era stato più veloce, più potente e più preciso. La differenza, sia con cinque minuti prima sia con la sua trasformazione in Zoan originale, la sentiva eccome.

«Stai cercando di sottrarre qualcuno al Governo Mondiale, te ne rendi conto?» disse il clone. «Stai disobbedendo alla Giustizia Oscura.» continuò.

Rob Lucci sparì alla vista del clone con un subitaneo Soru, gli ricomparve alle spalle e, velocissimo, finalmente riuscì a trapassargli la schiena con uno Shigan fatto con l'intera mano.

«So benissimo cosa sto facendo.» ruggì feroce. «Sto eliminando la concorrenza.» concluse estraendo la mano.

Il Rob Lucci che aveva subìto il colpo cadde a terra, confuso e sorpreso: mai in vita sua aveva sperimentato una sensazione del genere. Non provava molto dolore, Judge Vinsmoke non aveva ritenuto essenziale che dei cloni da combattimento dovessero provarne, ma essere atterrato da una persona normale, un uomo qualsiasi… questo era qualcosa che non doveva accadere. Si girò risoluto, senza rabbia né altri sentimenti, solo con l'obiettivo in testa: doveva finirlo.

Con il Rokuogan

Si rialzò fulmineo, caricò il colpo, ma anche Rob Lucci, stavolta più veloce, prese la rincorsa usando la parete di fondo come trampolino, e gli si lanciò addosso con la stessa mossa.

Le due belve si scontrarono a metà della stanza, lo spostamento d'aria fece carambolare via tutti i presenti, ossa si spezzarono, e i due vennero respinti via dai loro stessi attacchi.

Il clone finì verso il fondo, il Lucci originale per poco non travolse Kumadori e gli altri. Li evitò per un soffio, usando il Kamie all'ultimo.

Ma il primo a rialzarsi fu il clone.

Dal fondo della sala risuonò la sua risata: «Ahahaha, che illuso. Lucci, che aspetti?» disse. «Scappa.»

Rob Lucci si rialzò, si scrollò di dosso la polvere, si spostò immediatamente da lì con un agile colpo di Soru

Il clone continuò: «Scappa con i tuoi amici. Stai dimenticando la tua missione… prendere il bersaglio e andartene. Salvare i tuoi amici e andartene. Quindi perché perdi tempo qui?»

Poi lanciò un Rankyaku contro il muro, incrinandolo pericolosamente.

«Le pareti corazzate hanno un limite, cari ex agenti… e ormai l'hanno raggiunto. Dovete muovervi, se volete salvare qualcosa.»

Rob Lucci, l'originale, quello che grazie al Demon si era trasformato in un ibrido felino e umano alto, slanciato e letale, si appiattì nel buio e pensò all'ultima volta che aveva udito una proposta del genere… "perché perdi tempo? va' dai tuoi amici e salvali."

Era stato lui.

Nulla di cui sorprendersi: quello era un suo clone, cresciuto artificialmente in fretta e furia secondo i dettami degli agenti governativi.

Ricordava benissimo quella strategia, che lui aveva faticosamente studiato negli anni di addestramento e che in altrettanti anni aveva messo in pratica, mietendo sempre più vittime.

Ma c'era stato un bersaglio che, invece di cadere nel suo tranello, gli aveva risposto in un altro modo: "No, perché so benissimo cosa farai: raggiungerai i miei amici prima di me, e li ucciderai tutti. Ecco perché il mio posto è questo: stare qui, e fermarti."

Rob Lucci, schivando agilmente una pioggia di Shigan, sorrise.

Bravo Cappello di Paglia, a cui aveva sempre riconosciuto una certa capacità da leader.

Però, pensò anche, io non sono certo così idiota come lui.

Si fermò, saltò così in alto da sfondare il soffitto, facendo franare giù calcinacci, pietre e frammenti del pavimento del piano di sopra, e infine ricadde con tutta la forza che aveva sul proprio avversario, trapassandogli con due Shigan due precisi punti: tra collo e spalla, da cui passavano sia le arterie che portavano il sangue al cervello e da cui partivano i fasci di nervi che servivano a muovere le braccia.

E quindi ad attaccare.

A nulla servì il Tekkai, stavolta: il clone rimase senza fiato, il cervello gli si spense per qualche istante, Rob Lucci atterrò indenne alle sue spalle sulle quattro zampe, preparandosi all'ultimo decisivo colpo.

Il clone barcollò, confuso. 

La rigenerazione stava vacillando.

Lanciò un Rankyaku improvviso, radente al suolo, ma in quel preciso istante Rob Lucci si alzò sulle gambe e lanciò il suo ultimo attacco:

«Rokuogan Mikoyan Gatling»

E una pioggia di Rokuogan atterrò definitivamente l'avversario, impedendo ogni sorta di rigenerazione, distruggendo ossa, tendini, muscoli, e riducendo infine il clone a pura materia organica sparsa sul pavimento, irriconoscibile e fumante per la frizione altissima.

Rob Lucci rimase qualche istante in piedi accanto a quello che non si poteva nemmeno definire più cadavere, e che solo in qualche punto poteva ancora ricollegarsi a quello che era stato: una sua copia, perfetta nella genetica… ma non nell'efficienza.

Si notava ancora un brandello di braccio con parte di tatuaggio, da qualche altra parte ciuffi ricci di capelli… non si ricomponeva nulla.

Era davvero finita, pensò accarezzandosi gli avambracci, e sentendo sotto le dita il pelo color ambra con le familiari chiazze nere, e passandosi una mano sul volto, ancora trasformato e con il tartufo ruvido da felino.

Hattori volò da lui, si appollaiò sulla sua spalla, e in quel momento Lucci si sentì mancare, crollò a terra, e tornò del tutto umano mentre i suoi amici correvano verso di lui.

 

~

 

Le luci bianche e asettiche del laboratorio si erano tinte di rosso, e dagli altoparlanti risuonava una voce preregistrata: «Emergenza! Emergenza! Tutto il personale è pregato di dirigersi in file ordinate all’ascensore principale. Ordine di evacuazione! Emergenza! Emergenza! Tutto il personale è pregato di dirigersi…» 

Kumadori singhiozzava, cercando di raccogliere Rob Lucci da terra e caricarselo in braccio. Anche se quella sorta di "risveglio artificiale" del suo Frutto del Diavolo gli aveva permesso di battere l'avversario, era comunque reduce di un combattimento sanguinoso, che l'aveva quasi ucciso, e le sue condizioni erano ben più gravi di quelle post-Enies Lobby: una gamba era completamente fuori uso, impossibile persino da appoggiare per terra e forse impossibile persino da salvare, aveva varie perforazioni da Shigan, e probabilmente, come gli altri due compari, organi interni compromessi, costole rotte e un trauma cranico.

«Aspetta, fermo, non sollevarlo… quella gamba gli si stacca, se lo sollevi!» lo pregò Tashigi, in cerca di una soluzione. Si sfilò la cintura e la usò come laccio emostatico su Lucci, poco al di sotto dell'anca.

Smoker non approvava quello che stava vedendo, era quasi contro natura vedere una marine come Tashigi farsi in quattro per salvare la vita di uno degli assassini più pericolosi del mondo; ma si rendeva conto che c'era un pezzo di storia che non conosceva, e che aveva a che fare con lei e con l'agente con i capelli rosa. «C'è una barella medica qui fuori. Possiamo usare quella.» propose, alzandosi per andarla a prendere.

Quando Lucci, ancora privo di sensi ma vivo, venne deposto sulla barella, Kumadori andò a cercare Kaku in mezzo a tutto quello sfacelo di mobili, calcinacci e acqua dolce, che rivolava dalle pareti che stavano per cedere.

Il ragazzo riuscì a riprendere conoscenza, ma alzarsi in piedi fu complicato, e Tashigi, stringendo i denti, dovette aiutarlo ad avanzare: era uno del Cipher, ma non poteva chiedere a Kumadori di lasciare indietro uno di quei tipacci, e il loro tempo nel fondo del lago stava per scadere.

«Porca miseria.» ansimò Kaku. Lo sapeva, lo sapeva che ogni volta che si trasformava in giraffa, poi c’erano problemi strutturali con gli edifici! E quella volta di giraffe ce n’erano state addirittura due… senza contare i suoi colleghi, che avevano assestato alla struttura sottomarina ben più di un colpo mortale.

Vegapunk uggiolava come un cane: «Il laboratorio ha dei sistemi d’emergenza che impediscono alla struttura di cedere all’improvviso… ma dobbiamo correre! Dobbiamo arrivare all’ascensore prima che le pareti collassino!»

Kumadori in quel momento gridò disperato: «YOYOI, NON V'È FIATO!!! NON V'È FIATO!!» gridò.

Tutti si fermarono attoniti, senza capire, ma Kaku cercò di far muovere Tashigi, che lo sorreggeva, verso Lucci. «Non respira… fammi andare da lui, muoviti!»

Fu Kumadori a seguire alla lettera le indicazioni del giovane agente, Kaku era così debole da non riuscire nemmeno a tenere in mano la siringa, tale era il tremore alle mani. Quando il petto di Lucci si gonfiò d'aria, tutti sospirarono di sollievo. Ma Kaku sapeva che ci aveva messo più tempo del normale per tornare a respirare, e non era un bene.

 

~

 

Era ora di muoversi: Lucci, in barella, veniva trasportato da Kumadori e Smoker, Kaku era assistito da Tashigi… 

«JABURA!» esclamò Kumadori all'improvviso, mentre portava fuori dalla stanza la barella con Lucci. «MIO COMPAGNO, MIO VALOROSO FRATELLO! NON SI È RIALZATO! DOVE MAI-» 

Smoker intuì l'antifona e si guardò attorno, afferrò Vegapunk per la testa e lo mise a sorreggere la barella di Lucci al posto suo: «Fa' qualcosa di utile.»

E poi si lanciò dall'altra parte della stanza, dove aveva intravisto qualcosa muoversi.

Kaku cercò di seguirlo, ma appena si staccò da Tashigi crollò a terra, senza riuscire neppure a fare un passo.

Smoker cercò di evitare i resti del clone del Lupo, e arrivò vicino a quello che ormai, pensava, fosse un cadavere.

Lo prese per le spalle e lo tirò su. A quanto si diceva in giro, quel Jabura era quello col Tekkai più forte di tutti: per abbatterlo, doveva aver preso anche le mazzate più forti di tutte.

 «Ehi, tu» tuonò. «Jabura. Jabura, giusto? se non ti muovi ti lascio qua!!» 

 Jabura aprì gli occhiacci di una fessura. 

«E tu chi cazzo sei?»

«Al mio tre ti alzi in piedi, ti reggo io.» gli assicurò Smoker senza badare alla domanda e passandosi un braccio dell'agente attorno alle spalle. «Pronto? Uno, due…»

E al tre si alzarono in piedi, anche se Jabura vide nero per alcuni istanti e mosse incerto i primi passi.

«Possiamo andare! Muoviamoci!» gridò Smoker al resto del gruppo.

«Porca troia.» mormorò il Lupo. Poi, come ricordando all’improvviso, strinse i denti, si strappò da Smoker, e cominciò a correre verso l'uscita: «Dobbiamo andare a prendere gli altri… sono qui al piano di sotto.» 

Fece due passi e crollò di nuovo a terra, ma si rialzò prima che qualcuno potesse fermarlo e corse via, senza ascoltare né Smoker né Kaku né le sue ossa che sembravano volersi spaccare a ogni fottuto passo. Avevano perso abbastanza tempo ad ammazzare quei cloni di merda come meritavano, e lui aveva perso secondi preziosi con Spandam, mentre l'unica cosa che avrebbe dovuto fare era correre dai loro compagni e scappare via insieme. Teneva tra le dita quella maledetta vivre-card che bruciava, si scottava le dita e il Tekkai contro il fuoco non funzionava, lo sapeva bene, ma non gliene fregava niente. Quella era la vivre-card di Lili, la sua Lili che lentamente stava sparendo fra le sue dita come quel minuscolo pezzetto di carta. 

Tossì sangue, si fermò, proseguì appoggiandosi alle pareti e lasciando una macabra scia di mani di sangue, e procedeva come un cane sulla pista giusta. Alla fine trovò una porta chiusa con un pesante catenaccio che polverizzò senza nemmeno rendersi conto di come, e spalancò due battenti metallici dentro una sala lunga e larga una quindicina di metri, rischiarata da una lampadina sul fondo, e dove regnava l'odore del sangue di poco mitigato dall'odore pungente del disinfettante.

Sotto la parete opposta all'ingresso c'erano quattro persone a terra, e un'altra inginocchiata accanto a loro, affaccendata tra l'una e l'altra.

Califa, stesa a terra con gli occhi chiusi, li aprì, alzò la testa e, a poco a poco, lo mise a fuoco. Fu scossa da un fremito, e cercò di alzarsi, ma la dottoressa intervenne.

«Ferma.» l'ammonì Kureha, inginocchiata al suo fianco.

La dottoressa si alzò in piedi, calmissima, e ordinò al Lupo: «Fuori.»

Blueno, seduto vicino a Califa, si tirò a fatica in piedi, ritrovò l'equilibrio e si preparò a combattere.

Califa, senza dare ascolto alla dottoressa, appoggiandosi al muro si alzò e fece un passo avanti. «Non ti avvicinare.» sibilò verso il Lupo; era pallida, le gambe erano sporche di sangue e la pelliccia era ai suoi piedi, lei aveva solo la gonna, mezza stracciata, e le fasciature a coprirla. Aveva le mani sporche di sangue, le dita marchiate dallo Shigan

Lei e Blueno stavano tremando per lo sforzo, le ampie fasciature facevano presagire che, contro chiunque avessero combattuto, questi non voleva semplicemente fermarli, e non ci era andato leggero.

Jabura alzò le mani in segno di resa. «Sono io, sono io, sono davvero io. L'altro è morto. L'ho ucciso.»

Califa, iraconda e terribile, superò la dottoressa e arrivò a un passo dal Lupo. «Non è vero. Esci da questa stanza.»

Jabura guardò versò Califa, verso Kureha, e scorse a terra Fukuro e la pilota. Lei era immobile a terra, Fukuro era chino su di lei e le premeva sull'addome uno straccio pieno di sangue. Anche Fukuro era malridotto.

«Rankyaku!» ringhiò Califa.

Jabura sospirò, fece il Tekkai rimanendo immobile, il colpo di Califa non partì neppure e lei crollò ai suoi piedi.

Ma Jabura la prese al volo prima che potesse toccare terra, e la depositò sul freddo pavimento. Poi si sfilò la felpa nera, ormai semidistrutta, e rimase con una maglietta dilaniata dai colpi ricevuti. Non c'era traccia di cinghie, borchie, pelle nera.

«Copriti.» disse. Poi ridacchiò: «Non voglio essere anche accusato di molestia sessuale.»

Califa tremò. Stavolta la Percezione e l'istinto non davano spazio a dubbi. «Sei…» cominciò a dire la donna «Sei davvero tu?»

«Grazie per averli protetti. Come stai?» mormorò il Lupo, accomodandole la felpa sulle spalle nude.

Califa fece un cenno di assenso: era viva. Poi disse: «La dottoressa ci ha dato una mano. Però…»

«Adesso vi portiamo via.» promise il Lupo. Le passò oltre, andò da Blueno, e infine si inginocchiò accanto a Fukuro e Lilian.

Intanto arrivarono alla porta della stanza anche Smoker e Kumadori, che reggevano la barella con Lucci, e Tashigi con Kaku. E infine ecco Vegapunk.

«Eccoli, finalmente.» commentò lo scienziato, entrando nel lazzaretto. «Sapevo che potevano essere solo qui. Non ci sono altre stanze adatte a…»

Una scarpa da ginnastica, che conteneva un piedino delicato, attraversò la stanza e si depositò alla venerabile velocità di 141 chilometri orari sulla mandibola dello scienziato.

«VEGAPUNK! MALEDETTO COGLIONE!»

Vegapunk carambolò come un birillo fuori dalla stanza e si fermò incrinando il muro di fondo del corridoio.

«Mi dispiace! mi dispiace!» piagnucolò lo scienziato massaggiandosi il capoccione. «Come potevo sapere che…»

«E sei stato tu a creare dei cloni di questi stronzi, no?» incalzò Kureha avanzando minacciosa verso di lui.

«No, li ho solo potenziati, m-ma…»

«E NON HAI INVENTATO UN SISTEMA DI SICUREZZA PER FERMARLI??» si irritò la dottoressa. Fece un ultimo ringhio e poi gli girò le spalle per tornare ai suoi pazienti, dicendo tranquillissima: «Bah. Ho sempre pensato che eri sopravvalutato.»

La voce di Kumadori la chiamò disperata: Lucci aveva un'altra crisi, nonostante la fiala di pochi minuti prima. 

La dottoressa soffiò come un gatto verso Vegapunk, che si riparò la testa con le braccia, poi girò sui tacchi e si diresse verso Rob Lucci: non aveva tempo da perdere con quella mezza calzetta.

«Fatemi spazio.» ordinò a Kumadori e Kaku, vicini all'agente.

Mosse con perizia le dita sul corpo straziato dell'uomo, lo auscultò brevemente, poi prese il suo zainetto con il necessario per il primo soccorso e cominciò ad armeggiare con gli oggetti al suo interno.

Estrasse una fiala simile a quelle che Lucci aveva avuto con sé durante la missione, e riprodusse in pochi attimi la procedura che Kaku aveva imparato a fare in almeno trenta secondi: la fiala, il tappo, il collo di Lucci, un punto che non fosse stato colpito troppe volte, lo stantuffo, due secondi di vuoto, poi Lucci che tornava a respirare. Stavolta un pochino meglio di prima: evidentemente, la fiala della dottoressa conteneva una sostanza molto più forte, e che poteva aiutare Lucci in un momento delicato come quello.

«Va portato immediatamente in un ospedale.» disse serissima. «Chi è stato a mettergli il laccio emostatico alla gamba?»

Kaku e Kumadori indicarono Tashigi, poco lontana.

La dottoressa strinse le labbra e non disse niente, però non tolse il laccio: evidentemente la marine aveva fatto un buon lavoro.

Hattori rumoreggiò con le ali, e cominciò a tubare per attirare l'attenzione: era sveglio. Lucci era sveglio!

Kureha si allontanò per parlare con Smoker e Tashigi: sembravano gli unici due cervelli funzionanti in zona, e bisognava organizzare il trasporto di tutti i feriti all'ascensore.

Kumadori cominciò a ululare, Kaku si accovacciò a fatica vicino al leader.

«Siamo ancora nel laboratorio» disse subito Kaku. «Stiamo per risalire…»

Ma Lucci aprì di pochissimo gli occhi, stanchi e offuscati, e mosse le labbra. Kaku si avvicinò di più, e finalmente riuscì a sentire i pochi ultimi ordini: «Hai tu il lumacofono… chiama il Rosso. E poi passamelo.»

Non sentiva dolore, sentiva solo una grande stanchezza e le piume morbide di Hattori tra le dita. Aveva la sensazione che ogni respiro potesse essere l'ultimo, e non aveva più percezione della gamba sinistra. A ondate, vagamente, gli arrivavano le voci dei suoi compagni di squadra che pregavano, organizzavano, si davano ordini. 

Branco di idioti, pensò. Perché erano ancora in quel buco puzzolente? bisognava uscire subito. Oppure era il suo tempo, che in qualche modo scorreva rallentato?

Kaku rispose in un soffio: «Agli ordini, non ti muovere. Lo faccio subito»

 

~

 

Jabura, dopo essersi assicurato che Fukuro e Blueno non corressero pericoli nell'immediato, era chino a terra su Lilian. Si era faticosamente inginocchiato accanto a lei, col fiato corto e il costato che faceva male a ogni cazzo di respiro. 

La ragazza non si muoveva. Fukuro tolse delicatamente la pezza che stava usando per tamponare il sangue, ma vide che l'emorragia non si fermava.

«Se la caverà, vero?» chiese Jabura.

Fukuro si asciugò due lacrimoni. «Chapapa, la dottoressa ha detto che deve essere operata subito… lei… non ha le Tecniche come noi, non è riuscita a usare il Tekkai, o il Soru…»

La ragazza aprì con fatica gli occhi, mise a fuoco Jabura. Si irrigidì, graffiò il pavimento con le unghie per scappare, ma non riuscì a muoversi. Fukuro e Jabura la rassicurarono.

«Chapapa, è lui, è lui!»

«Sono davvero io, piccola.» si avvicinò lui, prendendole la mano e accarezzandole la testa con delicatezza. Cazzo, perdeva sangue anche da lì e la mano era ghiacciata. Stava tremando.

Lili studiò il volto che aveva davanti, tumefatto e rigato di sangue che rivolava dai capelli, ma con gli occhi e il ghigno di Jabura. La sua mano fredda si strinse attorno a quella ruvida e insanguinata del Lupo. La mano sinistra, quella che aveva perso due dita anni prima, e che a causa di quello non avrebbe mai potuto lanciare un Jus-Shigan, ma al massimo un Hachi-Shigan. Lili cercò con le dita l'imperfezione dell'uomo, quella che le aveva dato la prova definitiva che ad attaccarli non fosse stato il Jabura che conosceva, ma qualcun altro che ne aveva le sembianze,  e poi sussurrò: «Lo sapevo che quello non eri tu.»

Jabura si chinò a raccogliere quel sussurro, e borbottò: «Shhhh, non parlare… adesso ti portiamo fuori.»

«All'inizio mi sono arrabbiata… ma poi l’abbiamo capito.» sussurrò infine, debole ma orgogliosissima. Poi il suo sguardo si adombrò e balbettò angosciata: «Sei… sei ferito.» 

Jabura si leccò le fauci e mentì spudoratamente: «Non è sangue mio, tesoro.»

Però la ragazza non si lasciò convincere e mormorò, sporgendosi verso di lui: «Che ti hanno fatto? Sei… stai perdendo sang-AH!» fu sferzata da un gemito e sembrò accartocciarsi sulle loro mani strette. Fukuro accorse per tenerla distesa, ma in quel momento arrivò la dottoressa Kureha: aveva momentaneamente sistemato Rob Lucci per portarlo fuori da lì, puntò la torcia addosso a Jabura: «A te che è successo? Fammi vedere.» corrucciò le sopracciglia e strinse i denti. 

«Sto benissimo, quel bastardo non mi ha-» 

La dottoressa sbuffò nervosa. «Ma queste… sono ustioni di terzo grado… servono… serve di tutto.» si alzò in piedi e prese il comando del drappello: «TUTTI FUORI! VI VOGLIO TUTTI FUORI DI QUI AL MIO TRE! VOI MARINE, SIETE PRONTI CON LE BARELLE?»

«Chapapa, possiamo usare una delle porte del laboratorio per trasportare lei, se non riesce a camminare. Basta staccarla.» propose Fukuro, alzandosi pian piano e andando a cercare, zoppicando, una porta robusta ma leggera.

Lili chiuse gli occhi. Sentiva sempre di meno, le voci diventavano lontane. 

«Ti prego, non portarmi in un ospedale.» sussurrò.

«Ma sei scema? Che stai dicendo?»

Lili si sforzò di dire: «Ho il tatuaggio… sono stata una schiava…» ma la voce le morì in gola, finché non mosse più nemmeno le labbra.

Jabura si mise più comodo accanto a lei: «Porca miseria, Lili» protestò accarezzandole il volto bianco. «Rimani sveglia, Lili.. Lili…? Dopo quel bacio, devo almeno portarti a cena fuori, no?» cercò di scherzare.  

Jabura tossì, un fiotto di sangue si riversò sul pavimento, le costole rotte gridarono ancora. Qualche organo interno doveva averlo salutato per sempre. Sentiva il petto bruciare, abbassò lo sguardo e vide il tatuaggio okami mezzo mangiato da quella che sembrava un’onda di fuoco sulla sua pelle nuda. La vista gli si oscurò per qualche istante, poi tornò a guardare la ragazza che sembrava dormire, in un pallore che non era il suo. Le accarezzò i capelli, crollò a terra sui gomiti, si fece male nel disperato tentativo di non caderle addosso.

La dottoressa gridò qualcosa, ma non riuscì a sentirla. Con la coda nell'occhio vide Fukuro che arrancava verso di loro tenendo tra le mani una porta di legno con ancora un cardine appeso. «Resisti tesoro, ti portiamo all'aria aperta.»

 

~

 

La luce era immensa, in parte veniva dall’alto: il soffitto era di vetro, e il sole stava sorgendo e illuminava di pallida luce rosa un mondo libero; tutt’attorno era un immenso fiorire di boccioli, di alberi in fiore e di farfalle tra i rami.

Parte invece veniva dalle finestre: il castello era in fiamme, la loro luce arancione e rossa combatteva a pugni duri contro la luce tenue dell’alba, in un duello crescente.

Mihawk conosceva bene quella stanza: una delle più interne, segrete e meravigliose del palazzo. Su un tavolino, dove ricordava esserci i lumacofoni per comunicare con gli Astri, c’era un enorme cappello di paglia, rovesciato e riempito d’acqua; il sole, dal soffitto di vetro, creava un riverbero di cristallo rosa e azzurro.

Mihawk si tastò incredulo le braccia, la barba curata, il cappello. La camicia con i bottoncini di madreperla. La sua Yoru. O era tornato, o nel Nulla si avevano allucinazioni veramente realistiche. 

«Avevamo un patto. Io andavo, e tu non avresti interferito.» disse severo al Rosso.

Shanks, noncurante, uscendo dalla stanza, rise. «Che sorpresa. Un pirata che non rispetta i patti.»

Mihawk lo seguì, salutando quella stanza mentre il fuoco cominciava a mangiare le travi che reggevano il soffitto di vetro. I cristalli esplosero per il calore mentre i due filibustieri si chiudevano le porte alle spalle, e una delle travi, in fiamme, crollò sul giardino sottostante. Le piante presero fuoco all'istante, alimentando l'incendio. 

«C'era solo un modo per entrare nella dimensione del Nulla di Im…» disse Mihawk. «Ma non pensavo che fossi così scemo da provarci.»

«Risparmiami i complimenti per la cena a lume di candela.» rispose Shanks. «Era ovvio che avrei usato il Varco del Cappello di Paglia, no?»

«Ma il Cappello di Paglia…» avversò lo spadaccino. «Come facevi a sapere come si usa? L’originale è chiuso nei sotterranei di questo palazzo da generazioni!»

«Mikki, questa non è una domanda degna del tuo lume» rispose semplicemente il Rosso. «Ho avuto il prototipo in testa per tanti anni, ricordi?»

Mihawk scosse la testa, mentre dietro di loro il castello era un'unica altissima vampa di fuoco che si stagliava contro il cielo. 

I due uomini uscirono sul piazzale, trovando lì ad aspettarli Benn, Bibi, Sabo, e Koala.

All'improvviso, il lumacofonino che Shanks aveva in una tasca squillò. Aveva i tratti severi e austeri di Rob Lucci, con la sua barba curata.

 

~

 

L'ascensore saliva, finalmente.

Si stavano per lasciare alle spalle un laboratorio che stava per implodere, cloni fatti a pezzi, Sentinelle D'Argento ginoidi, e un ex direttore finalmente giustiziato.

E anche almeno un mezzo centinaio di ex-marine.

«Non preoccupatevi» disse Vegapunk a Smoker e Tashigi. «Avranno tutto il tempo per prendere il montacarichi prima che il laboratorio collassi.»

«Deve sperarlo.» rispose secco Smoker, facendogli abbassare lo sguardo e disperdendo quella saccenza come fumo nel vento.

Tra far sapere ad Akainu e agli altri che gli aveva salvato il culo rimanendo ad aspettarli, e scappare con quella carogna di Rob Lucci dopo aver aperto le gabbie dei marine, preferiva di gran lunga la seconda.

Il montacarichi, ampio quasi quanto un salone da ballo e dalle balaustre di legno e ferro riccamente decorate, viaggiava inesorabile lungo quei sette chilometri di altezza, insopportabilmente lento per i suoi passeggeri. L'aria del condotto faceva tremolare le luci al neon che rischiaravano la salita, infisse nella pavimentazione di parquet, in uno strano contrasto tra uno stile futuristico e il fasciame di una vecchia nave.

La dottoressa Kureha era in ginocchio per terra, era riuscita a fatica a stabilizzare tutti ma Rob Lucci ormai non riusciva più a respirare da solo. Disteso tra Califa e il fido Kaku, la dottoressa non staccava gli occhi dal saturimetro a cui l'aveva attaccato.

«Gli tolga il respiratore.» chiese Kaku a Doctorine.

Lei rise sprezzante. «Lo vuoi ancora vivo tra dieci minuti o no?»

Kaku espirò. Gli faceva male tutto, vedeva sfocato e non aveva più percezione delle profondità perché la dottoressa gli aveva fasciato metà del volto, occhio destro compreso. «Lo voglio vivo per ancora parecchio» disse.

Lucci lo fissava.

Kaku continuò: «Ma la missione è la prima cosa: e deve parlare con il Rosso.» 

Lucci sorrise, al di sotto della maschera che gli facilitava la respirazione.

«Solo pochi istanti.» permise la dottoressa. «Sei pronto, pericolosissimo agente del Cipher?» disse a Lucci. «Al mio tre, tolgo la maschera. Prendi fiato.»

«Compongo il numero del Rosso.» disse Kaku, cercando di richiamare nella memoria le cifre che aveva imparato a memoria all'inizio della missione, quando erano ancora alle Sabaody. Sembravano passati mesi, ma era la sera precedente.

Rob Lucci chiuse gli occhi, concentrandosi sulla respirazione. Bruciava tutto. Da qualche parte c'era Kumadori che piangeva e chiamava il nome di Jabura. Ma figuriamoci, se quel deficiente era schiattato. Non gli avrebbe mai fatto questo favore. 

Vero?

I pensieri gli scivolarono tra le ciglia, senza riuscire a fermarsi. Avvertì le mani di Califa attorno alle sue dita.

Califa, un minimo di contegno, pensò. Quella sottospecie di strip-club in cui l'aveva trovata le aveva fatto male.

«Sta squillando» disse Kaku. La sua voce lo riportò al presente.

Forse avrebbe dovuto lasciare tutto nelle mani del suo secondo, lui era al limite, e non sapeva nemmeno che suono gli sarebbe uscito di bocca per parlare con quel maledetto imperatore pirata.

Califa, coprendosi meglio con la felpa lacera che Jabura le aveva dato, «inaffidabile.» sibilò affilata.

Kaku strinse i denti, ascoltando il tu… tu… tu… della linea. «KUMADORI CHIUDI LA BOCCA!» si sforzò di gridare.

Che stava dicendo Kumadori? qualcosa su Jabura, sulla pilota.

Li aveva portati a morire in fondo a un lago.

No, pensò Lucci. Non poteva lasciare tutto a Kaku in quel momento: il leader era lui. La responsabilità della missione era la sua. Anche la responsabilità di tutti i colleghi a terra, attorno a lui, sfregiati, feriti, anche morti.

Era lui che doveva parlare con Shanks.

Non avrebbe delegato.

Poi, all'improvviso: «Eccomi!» salì la voce di Shanks dalla cornetta. I lineamenti del lumacofono ripresero quelli di Shanks, con i capelli vermigli e le tre cicatrici sull'occhio.

Kureha sfilò la mascherina di plastica dal volto di Lucci, Kaku gli avvicinò la cornetta.

«Rosso» mormorò nel silenzio. La voce era roca, un graffio frastagliato.

«Lucci. Ti sento.» assicurò la voce del pirata. 

«Non abbiamo l'aereo per il ritorno…» esalò. «Si passa al piano B.» 

Shanks, dall'altra parte, annuì. Ovviamente avevano previsto anche l'ipotesi che l'aereo finisse distrutto, quindi disse pronto: «Avverto Momousagi. Avete subito perdite?»

Rob Lucci guardò oltre Kaku, verso Jabura. Il collega era riverso a terra, vicino a lui, assistito da Kumadori; ancora oltre c'era la pilota, esangue. 

«Ci serve assistenza medica immediata.» si sforzò di continuare. Non aveva più fiato.

Kureha prese in mano il ricevitore con malagrazia e gridò rapida: «DAMMI QUA, IMPIASTRO!» una voce stridula trapanò i timpani dell’Imperatore e si sostituì a Lucci. «Ehi mozzo! Qui è la dottoressa Kureha che parla! Muovi il culo e manda qualcuno a prenderci! Abbiamo quattro codici rossi e tre arancioni, serve una sala operatoria o schiattano tutti!»

«Signorsì signora! La nave di Gion Momousagi è alla fonda a Red Port…» 

«La nave ammiraglia della Grande Armata» mormorò Kaku «Avranno le infermerie a bordo.»

Kureha annuì al ragazzo.

Shanks continuò: «Mando immediatamente un messaggio perché si preparino, e veniamo a prendervi all'uscita del montacarichi. Preparatevi: il castello Pangea è in fiamme.»

Rob Lucci chiuse gli occhi e sentì la mascherina posarsi sul suo volto, la respinse. C'era un'ultimissima cosa da dire.

Kureha ringhiò e gli mise la cornetta vicino alle labbra.

«Abbiamo Vegapunk. Missione conclusa con successo.»


 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Eccoci qui! Ecco a voi l'ultimo capitolo! Non preoccupatevi, manca ancora una cosa... l'epilogo! 

Grazie, grazie infinite a tutte le persone che hanno letto questa storia! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, avevo veramente bisogno di qualche settimana in più per ultimarlo, per fare in modo che uscisse esattamente come avevo in mente fin dall'inizio! Lo so che, essendo l'autrice, "me la canto e me la suono da sola", ma lasciatemi dire che ho amato scrivere queste ultime scene! Ho adorato gli scontri di Lucci, di Jabura, ho adorato che fosse Jabura a uccidere Spandam e a vendicare tutti, perché Lucci era troppo impegnato con il boss finale della saga, ho adorato Smoker che è burbero e non capisce che cazzo stia succedendo (poveretto, ma vi immaginate?) però si fida di Tashigi e fa tutto quello che serve per aiutarla. Ho amato Bibi e il suo discorso di cuore. Ho adorato Mihawk che fa l'eroe tragico, pronto a morire per il bene superiore, e poi però nel buio totale gli spunta Shanks (un po' come fa Mirio in My Hero Academia) e gli distrugge tutta la tragedia del momento. Ho amato scrivere di Kureha che pesta Vegapunk, l'avrei scritta in capslock grassetto quella scena, è stata liberatoria. Ho amato la scena tra Jabura e Lilian, feriti, distrutti, senza nemmeno la forza per tenere gli occhi aperti, spero veramente che, almeno per quella scena, sia riuscita a trasmettere la tragicità che volevo. Forse non si rivedranno mai più... 

C'è poco altro da aggiungere! manca solo l'epilogo di questa lunga cavalcata ♥ grazie a tutti per aver letto, per avermi supportata, per aver recensito ♥ sono felice se sono riuscita a farvi apprezzare un pelino in più questi meravigliosi agenti del Cp9 ♥ 

Un abbraccio

Yellow Canadair
 

 

  
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