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Autore: Yellow Canadair    24/07/2023    2 recensioni
Lucci, Kaku e Jabura si svegliano nudi in un laboratorio sconosciuto. Dove sono? che è successo al resto del gruppo? perché non riescono più a trasformarsi? Tutte domande a cui risolvere dopo essere scappati, visto che sono giustamente accusati di omicidio plurimo.
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I Demoni di Catarina, una long di avventura, suspance e assurde alleanze in 26 capitoli!
Genere: Angst, Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cipher Pool 9, Jabura, Nefertari Bibi, Rob Lucci, Shanks il rosso
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dal CP9 al CP0 - storie da agenti segreti'
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Epilogo

Una festa nel bosco

 

Il brigantino a tre alberi dallo scafo bianco sfilava nel sole freddo del mare dell'Isola di Nyta, nel Mare Occidentale, sfidando i banchi di ghiaccio che galleggiavano tra onda e onda, sparendo e ricomparendo all'improvviso. La nave della Neo Marina, però, avanzava imperterrita con il vento al giardinetto in direzione del porto principale dell'Isola, distante ancora qualche ora di navigazione.

«Ehi! la posta!!» esclamò all'improvviso qualcuno della ciurma.

Smoker, affacciato a un parapetto, alzò la testa, cercando il gabbiano con il berretto blu e la borsa di pelle. Eccolo: si era appollaiato sulla sartia di babordo e ora cercava un punto dove scendere… un punto dove quegli scalmanati dei suoi sottoposti non lo assalissero per ottenere lettere, cartoline e giornalini. Gli fece un cenno, e l'animale lo seguì dall'alto fino all'oblò della sua cabina.

Il Viceammiraglio Smoker non amava particolarmente la propria cabina come altri suoi colleghi, che la reputavano un simbolo di potere; per lui erano piuttosto ben quattordici metri quadrati di tranquillità, dove quel branco di scalcagnatissimi subordinati non osavano entrare, e lui poteva dedicarsi alla meditazione e alla rotta. 

Si trattava degli stessi di sette anni prima, compagni di tante avventure e testimoni di quando lui aveva perso il controllo del proprio potere. Smoker li conosceva bene, nei pochi pregi e nei tanti difetti, e come un mulo testardo se li era ripresi a bordo. Non avrebbe dovuto lamentarsi, si era scelto da solo il proprio destino. Come sempre.

Per il gabbiano portalettere invece quella cabina era un miracolo in mezzo a della squinternata gentaglia che lo guardava con l'acquolina in bocca. 

Smoker lo fece entrare, gli diede dell'acqua, qualcosa da mangiare, e ricevette la posta destinata alla sua nave; lasciò in cabina i dispacci destinati a lui, e poi chiamò un marinaio, perché prendesse il resto del mucchio e distribuisse la posta ai destinatari. Era un marinaio nuovo, che due anni prima non c’era.

«Kumadori!» chiamò, appena uscito in coperta.

Udì subito uno scalpiccio, e poi una voce tonante e un mare di capelli rosa. «YOOOYYYOIII! AGLI ORDINI, SIGNORE!»

«Distribuisci la posta. Bada, c'è qualcosa per te.» tuonò il Cacciatore Bianco, indicando la prima busta della pila che aveva in mano. Aveva l'aria importante: era di carta pesante, rossa, con le scritte color giallo canarino che sembravano prendere il volo dal fondo. Proveniva dall'Arcipelago di Catarina.

«Cos'è? un regalo?» si affacciò Tashigi.

«Non distrarti. Prima la posta degli altri.» lo ammonì Smoker.

Giornalini, riviste, cartoline, qualche pacchetto e alcune lettere. Quando Kumadori esaurì il breve compito, Smoker gli diede il permesso di prendersi qualche minuto di pausa per leggere la lettera.

«YOYOI, TROPPA L'EMOZIONE CHE MI ATTANAGLIA!» pianse Kumadori leggendo il mittente e asciugandosi le lacrime con la sciarpa. «PREGO LA TUA PERSONA, GENEROSA TASHIGI, PER ASSISTERMI IN TALE COMPITO!!»

Tashigi inforcò gli occhiali e si sedette accanto a lui, sul ponte di poppa, su del cordame. «Le brutte notizie non arrivano in una busta così bella.» disse saggiamente, calcandosi meglio il cappellino di lana sulla testa.

Kumadori, con precauzione, aprì la busta ed estrasse il foglio che conteneva. Era un piccolo cartoncino giallo canarino, con le scritte stavolta in un elegante nero. Kumadori lesse, e poi cominciò a singhiozzare.

«Oh, Kumadori!» sorrise Tashigi indulgente. «È una bella notizia!» si rallegrò.

«INVERO UN MIRACOLO, YOOOOYOOOIIII!!!» esclamò Kumadori, ululando così forte da spaventare i suoi compagni di bordo.

Così forte che persino Smoker si avvicinò. «Che diavolo hai da urlare?» 

«È stato invitato a un matrimonio di amici!» spiegò Tashigi, mentre Kumadori, felice, sconvolto dall'emozione, era caduto in ginocchio e la abbracciava a cercare conforto e sostegno.

«Ho capito…» bofonchiò il Cacciatore Bianco leggendo l'invito. «Ti servirà un congedo.»

«Già, è stato invitato a questa bella festa!» sorrise Tashigi, consolando l'amico.

Smoker rilesse meglio la lettera. «No, non è un semplice "invitato"» osservò.

Kumadori smise di piangere e Tashigi lo guardò interrogativa.

«Non avete letto l'ultimo rigo?» tuonò Smoker. Restituì la lettera a Kumadori e con un dito indicò una frase specifica. «Sei l'officiante!»

 

~

 

Califa entrò dal retro, dall'ingresso degli artisti, come al solito.

Aprì la porta con la sua chiave e poi se la chiuse rapidamente alle spalle, badando bene che nel vicolo non ci fosse nessuno. Si sfilò un guanto di gomma sporco di sangue e lo gettò con discrezione in un sacchetto, e poi fece scivolare con discrezione quel sacchetto nella sua borsa: l'avrebbe distrutto a casa sua, nel caminetto, alla fine della serata.

Arrivò dietro le quinte e una voce squillante la accolse nella penombra delle prove generali per quella sera: «Califa!! per te! hai posta!» 

Califa sbuffò infastidita. «Ammiratori molesti, come al solito. Getta tutto.»

«No no, non getto proprio niente!» disse Bon Clay «Non con tutta la fatica che hanno impiegato due anime a trovarsi e a decidere di unirsi in matrimonio!»

«Matrimonio?» s'incuriosì Califa, prendendo dalle mani del suo direttore artistico la missiva contenuta in un'elegante busta rossa dalle scritte gialle.

 

~

 

Rob Lucci guardò la sommità dell'edificio a vetri, senza riuscire a distinguerla dal cielo: le nuvole e l'azzurro si specchiavano sulla superficie lucida del grattacielo, e in cima la luce del sole primaverile delle undici lo abbagliava.

Tirava un vento fresco proveniente dalle mare color smeraldo, Hattori si accoccolò meglio nel suo gilet color azzurro con le palmette, coordinato perfettamente con la camicia di Rob Lucci.

Il suo ampio soprabito sabbia ondeggiava, lasciando intravedere un completo di sartoria composto da completo chiaro e camicia azzurra con le palmette. Sulla testa, a coronare dei lunghi capelli neri a onde lasciati sciolti sulle spalle atletiche, c'era un bel cilindro dello stesso colore del soprabito con una lucida fascia azzurra, della stessa tonalità della camicia. Infine, nella mano sinistra l’uomo stringeva un elegante bastone dal pomello a forma di testa di toro.

Kaku lo osservò con la coda nell'occhio e si tolse il cappellino con la visiera, ravviandosi i capelli corti e slacciandosi anche l'ultimo bottone della polo verda acqua. 

Tornati da un'importante missione per la Black Sword, avevano appena avuto il tempo di passare a casa per una doccia al volo, e poi erano stati convocati al Quartier Generale, un elegantissimo palazzo a vetri sulla strada principale della città. 

Caduto il Governo Mondiale, infatti, nel giro di pochi mesi la vecchia Marina si era riformata e Gion Momousagi ne era finita al vertice. Altro che conigli, pensò Kaku: il suo simbolo avrebbe dovuto essere un gatto, perché cadeva sempre in piedi.

L'aspetto moderno di Enies Newbie gli ricordava vagamente Water Seven, la Città dell'Acqua, e chiuse gli occhi nell'accogliere la brezza che lo salutava. Lucci odiava Water Seven almeno quanto lui l'amava, ma vivere lì a Enies Newbie sembrava un buon compromesso: sulla Red Line, vicino ai centri del governo, clima primaverile e ventoso, una città dallo stile di vita costoso e dalle larghe strade lastricate su cui affacciavano cinema, atelier e locali notturni. E vicino al mare, con i cantieri sempre in attività, le spiagge bianche poco lontano e l'oceano che luccicava. 

Lucci tirò fuori dalla tasca interna del soprabito un minuscolo oggettino, che poteva somigliare a un prezioso accendino dai contorni dorati; lo portò alla bocca, prese una boccata del contenuto e, rinsaldata la presa sul bastone, si apprestò a salire i tre gradini dell’ingresso del palazzo.

Kaku lo seguì, senza fretta, con le mani nelle tasche dei jeans. 

«Abbiamo un appuntamento con la Grand'Ammiraglia.» disse Lucci alla reception, che occupava tutto il pianterreno in un fresco tripudio di marmi bianchi e piante rigogliose in vasi dorati negli angoli.

«Certo.» gli sorrise un uomo poco più giovane, biondo, dal viso pulito. «Bentornati. Ultimo piano.» e indicò gli ascensori sulla sinistra.

Rob Lucci andò deciso verso le scale a destra, e cominciò a salirle con grande compostezza.

Arrivati all'ultimo piano senza tradire la minima fatica, videro una bellissima donna, con un'elaborata acconciatura e la divisa più alta della Neo Marina: Gion Momousagi. Stava parlando con un'altra persona.

Appena li vide, Momousagi si girò verso di loro e gli rivolse un luminoso sorriso da diva del cinema. «Rob Lucci. Che splendore vederti di ritorno!» disse andandogli incontro e lasciando il suo interlocutore a balbettare. «E ciao anche a te, Kaku!»

Lucci si avvicinò a Momousagi alla velocità che gli consentiva la sua gamba sinistra, ormai definitivamente danneggiata dallo scontro di Marijoa, cinque anni prima.

«Ti trovo benissimo. Hai cambiato bastone!» lo accolse la Grand'ammiraglia, cordiale.

«Immagino che siamo stati convocati per i dettagli della missione.» tagliò corto Lucci, per nulla colpito dall'atteggiamento amichevole della marine.

«Già. In effetti nel rapporto che abbiamo inviato ci sono delle omissioni che…» diede manforte Kaku.

Momousagi mosse vezzosamente la mano per scacciare quei problemi. 

«Lasciate perdere quella missione. Ne parlemo poi. Vi devo consegnare delle cose che sono state spedite qui… le ho nel mio ufficio. Date pure le giacche a Don'tworry.» una ragazza dai lunghi e boccolosi capelli verdi e le lentiggini si avvicinò a lui, sollecita. Lucci si sbarazzò del soprabito e della tuba, e si fece scorrere le dita tra i capelli neri liberati dal cappello.

Momousagi precedette i due uomini per pochi metri, conducendoli nel suo sontuoso ufficio. Chiuse la porta alle loro spalle senza usare la chiave.

Andò alla scrivania e trafficò tra i fogli, i lumacofoni, le mappe e i dispacci che vi erano sparpagliati. «Ma guarda, le ho tenute qui tra i piedi un sacco di tempo…! e quando mi servono non ci sono! Oh, eccole… nel cassetto…» mormorava.

Ed estrasse due belle buste da lettera rosse, di carta pesante.

«Eccole qui! prego, sono per voi! ma tanto ho capito già di cosa si tratta!»

Non ci voleva certo un genio dell'investigazione a capire che erano inviti per un qualche matrimonio.

Kaku l'aprì subito: era inutile aspettare di essere a casa, e gettò senza troppi riguardi la busta nel cestino dell'ufficio di Momousagi.

«Non ci credo.» mormorò confuso. «Tu lo sapevi?» chiese a Lucci.

Momousagi gli andò alle spalle e sul suo volto si aprì un sorriso commosso. «Ohhh, che dolci! È sempre bello vedere che di questi tempi qualcuno si vuole ancora bene!» 

Anche Lucci era sorpreso, ma non quanto Kaku: era un epilogo noiosamente scontato. 

«E quello cos'è?» indicò Momousagi.

Nella busta indirizzata a Lucci c'era anche un piccolo biglietto scritto a mano.

 

~

La figura alta e allampanata di Jabura si affacciò alla soglia del Blueno's Bar 2. Nella luce arancione del mezzogiorno la sua sagoma era inconfondibile, con la treccia lunga, le gambe fasciate nel pantalone di tuta, e in mano reggeva qualcosa di rettangolare. Il Blueno's bar due era sempre aperto, all'ora dell'aperitivo, e Jabura lo sapeva. Inutile sprecare tempo e francobolli, gli portò l'invito a mano.

Blueno stava asciugando un bicchiere, lasciò che Jabura attraversasse la sala con i suoi clienti e si avvicinasse al bancone. Quando aprì la busta con l'invito commentò: «Così alla fine ti sei fatto incastrare.»

«Piantala con questa retorica da due soldi.» rispose Jabura di malumore. Che coglione. Poi chiese, per levarsi dai piedi subito: «La redazione del Giornale dell'Economia è ancora sull'Isola della Primavera?» 

«Sì, li trovi ancora lì, verso la baia.»

Jabura tracannò un goccetto offerto da Blueno come pegno per la battutaccia, e se ne andò.

Preferiva quel posto quando era di Gigi L'Unto, decisamente.

Morgans in quel periodo si era fermato proprio lì, all'Arcipelago di Catarina. Una coincidenza fortunata, pensò Jabura uscendo da quello che era stato il bar di Gigi L'Unto e dirigendosi verso il ponte che portava all'Isola centrale, quella della Torre.

Nel passeggiare sotto gli alberi del parco, Jabura gettò uno sguardo a quella che era stata la Torre di Catarina. Ricordava ancora il suo appartamento, e i mobili di quello di Kumadori, e l'androne di marmo dove a Natale facevano l'albero… ormai era in pezzi, bombardata dalle navi di Spandam, e solo il primo piano era ancora in piedi, divorato dalle piante infestanti e ormai quasi invisibile. Notò tra gli sterpi il grande portone di legno che aveva varcato tante volte… un bel periodo, finito per quel pezzo di merda di Spandam, pensò.
E ci provasse adesso, a mettere la parola fine ad altri bei periodi, ghignò tra sé e sé.

Arrivò al ponte che conduceva all'Isola della primavera e, senza problemi, trovò la grande mongolfiera che conduceva la redazione del Giornale dell'Economia Mondiale in giro per il mondo.

«Chapapa, testimone?» sobbalzò Fukuro, quando Jabura l'ebbe portato a un bar della zona.

«Kumadori è l'officiante. Tu sei la seconda scelta, non montarti la testa.» lo rimise al suo posto, mentre rimestava con la cannuccia nel fondo del suo frappé. 

«E quando?» mormorò.

«Tra due mesi.» rispose Jabura. Poi, notando che Fukuro aveva tirato fuori il blocchetto su cui scriveva le notizie, abbaiò: «E non ti azzardare a scriverci sopra un articolo e spiattellare i cazzi miei!!»

~

 

La tormenta soffiava in vortici di neve che rendevano il sentiero impenetrabile. Milioni e milioni di spilli di ghiaccio vorticavano nell’aria gelida, mentre il vento mugghiava tra i rami rinsecchiti degli alberi, le cui cime non si vedevano più. Gli animali sembravano spariti: in realtà erano nascosti da ormai una settimana nelle loro tane, stretti gli uni agli altri, uscendo solo nei brevi sprazzi di tregua per portare un po’ di neve ai loro cuccioli per bere, o per staccare un pezzetto di corteccia dagli alberi e avere qualcosa da mordere nelle lunghe notti.

Ma non tutti gli animali avevano questa fortuna: un morbidissimo lapin, infatti, si stava arrampicando con fatica su per i boschi, su per la parete di roccia a strapiombo, per arrivare in cima al monte di Drum, diretto alle porte dell’Accademia dei Medici. Era stanco, imprecava tra le fauci serrate, però aveva un compito: trasportare una lettera fin lassù.

Quando fu arrivato al portone, visto come un miraggio in mezzo alla bufera, con il cuore che faceva i salti di gioia bussò. Gli aprì un medico minuscolo in uniforme, prese il plico che gli porgeva tremando dal freddo, e ora sicuramente l’avrebbe accolto all’interno, gli avrebbero offerto un po’ di stufato, avvolto in una coperta…

«Oh. Per Kureha.» mormorò il medico, sbattendo la porta sul muso del Lapin. Si diresse con calma al primo piano e andò ad affacciarsi sulla soglia del laboratorio dov’era la dottoressa.

«Che vuoi?» berciò Kureha alzando la testa dal microscopio che stava usando in quel momento.

«Posta dall’estero.» disse intimorito l’ometto. 

La dottoressa si alzò e si diresse subito verso di lui. «Non mi dire che è…» e gli strappò dalle mani la busta rossa con fare frenetico.

La aprì rapidamente e scorse le prime righe.

Il suo volto rugoso (eppure ancora così sorprendentemente giovane) in un primo momento sembrò adombrarsi di delusione. «Ah, no…» mormorò.

Forse sperava in un mittente diverso.

Ma poi cominciò a sorridere, e infine proruppe in un’allegra risata.

«Ahahahah, ma guarda quei due!!» esclamò. «E hanno anche il becero coraggio di invitarmi al matrimonio! Swintell!!!» chiamò.

«Sì signora, mi dica.» saltò in piedi il medico, che era ancora lì.

«Chiama Dorton, e poi passamelo… mi serve il mio “più uno”!»

Il medico sussurrò i suoi ossequi e andò via, chiudendo la porta.

Kureha si rigirò la busta tra le mani, poi la posò su un tavolino.

Ma guarda quei due!, pensò di nuovo. 

Ripensò ai momenti passati con quei maledetti agenti del Cipher, a quanto l’avevano fatta penare dal primo minuto in cui li aveva conosciuti fino a quando li aveva dovuti riacchiappare tutti per il colletto a un passo dalla morte, sulla nave di Gion. E meno male che c’era Gion con una nave ammiraglia e le relative infermerie, altrimenti persino lei avrebbe potuto farci ben poco.

E, tra quegli agenti infami, non le erano sfuggiti piccoli gesti di gentilezza reciproci tra i due mittenti di quell’invito… un té preparato a tarda notte, una coperta messa sulle spalle dell’altro, occhiate preoccupate…

Forse quel branco di imbecilli che qualche altra mente geniale aveva nominato “agenti segreti” poteva non accorgersi di niente, ma non certo lei!

 

~

 

La foresta color smeraldo copriva le colline dell’entroterra dell’Isola dell’Estate dell’Arcipelago di Catarina, piena di alberi, e con il suo sottobosco pieno di fiori e profumi. I primi alberi cominciavano alle spalle dei campi coltivati nella periferia della città principale, e si moltiplicavano sulle colline dell’isola fino a lambire, diversi chilometri oltre, la periferia dei paesini affacciati sulle coste opposte della stessa isola.

Un ruscello lasciava cantare la sua canzone, scrosciava tra le foglie del sottobosco e scivolava via, trasparente, nell’aria tiepida della tarda mattinata. Si faceva strada tra gli sterpi, tra le mille e mille sentieri arricciati delle formiche, e poi sbucava dalla foresta e si tuffava in mare da una piccola spiaggia selvaggia, in un abbraccio tra dolce e salato che sfumava verso il largo, amore di cui solo la foresta era silenziosa testimone.

Dentro di essa si dipanavano tramogge e sentieri, alcuni più larghi, e percorsi dai carri che viaggiavano tra i paesini dell’isola, altri per lo più dimenticati, altri invece ormai spariti nel fitto sottobosco.

Uno di questi sentieri secondari si staccava dalla stradina che collegava la città principale a un villaggio più piccolo, e sembrava perdersi nel nulla, tra il verde e tra i rumori misteriosi di animali nascosti. Notare questo sterrato era quasi impossibile, se non per chi già fosse stato a conoscenza della sua esistenza.

Seguendo questo sentiero ci si inoltrava nella foresta, tra le antiche colline, e, senza lasciarsi spaventare dal sottobosco fitto e dalla strada che a volte spariva per poi ricomparire solo più avanti, si arrivava al torrentello che poi sfociava sulla spiaggia; risalendo il suo corso, lungo il sentiero, si arrivava a un piccolo prato dominato da una casetta di legno dal tetto a pagoda. Il sole, libero in quel punto dai tanti alberi che lo intrappolavano, la abbracciava e faceva splendere il prato attorno.

Ci si sentiva un povero Pollicino sperso nel bosco delle fiabe con tanto di casetta incantata davanti, con il lupo acquattato nella tana pronto a mangiarselo.

Un grosso leopardo uscì dalla foresta e frustò l'aria umida con la coda. Controllò che dov’era fosse abbastanza pulito, e non ci fosse più il fango del ruscello, e poi con eleganza tornò ad essere in forma umana, con lunghe gambe flessuose, spalle ampie, un ampio soprabito, un completo di sartoria composto da pantaloni neri, camicia rosso cupo e busto fasciato in un’elegante gilet nero dai riflessi di broccato. Sulla testa, a coronare dei lunghi capelli neri a onde, comparve un bel cilindro nero dalla fascia rossa, della stessa tonalità della camicia. Infine, nella mano sinistra l’uomo stringeva un elegante bastone dal pomello a forma di testa di toro.

Rob Lucci osservò la casa davanti ai suoi occhi, la struttura in legno scuro e il tetto a pagoda, le finestre del pianterreno chiuse e il balcone aperto al primo piano, dove c'era un terrazzino con la balaustra di legno.

Un rumore attirò lo sguardo di Hattori: poco distante c'era il filo di un torrente che si separava dal bosco e attraversava il giardino, si infilava sotto un ponticello di pietra, creava cascatelle e si infilava tra i massi coperti di muschio.

In vista non ce n'erano, ma si sentiva distintamente il chiocciare di qualche gallina che forse stava becchettando in un'aia sul retro.

Tutt'attorno sembrava il set di un film in costruzione: sotto gli alberi c'erano diversi tavoli, con le panche di legno tutt'attorno; accatastate alla casa c'erano altre panche e due grossi rotoli di tappeto e alcuni scatoloni con la scritta "lampioncini - fragile", ma uno di essi aveva un angolo completamente ammaccato.

Tutto taceva, il sole non era ancora alto e i suoi raggi accarezzavano la pelle dell'uomo facendosi strada tra le foglie lussureggianti.

Lucci represse uno sbuffo di irritazione: ma proprio laggiù si dovevano cacciare? Arrivare a piedi era un’impresa da pellegrini masochisti; in sella era scomodo; un carro avrebbe avuto serie difficoltà. Meno male che quel cretino di Vegapunk aveva trovato il modo di ridargli i poteri del Felis-Felis, per cui scivolare nel sottobosco non era un problema nemmeno con i vestiti addosso. 

Hattori si staccò dalla sua spalla e fece un voletto lì attorno: la terra umida spesso gli regalava tanti bei vermetti impigriti dal sole.

Lucci strinse di più la testa del toro e mosse un passo verso la casa, aiutandosi con il bastone.

 

~
 

«Che c’è?» domandò Lilian sorpresa. «Hai sentito qualcosa?» 

Era metà mattina, loro erano al primo piano. Stavano seduti sul loro letto, tra le coperte sfatte, ed erano completamente nudi.

Una coperta avvolgeva morbidamente i fianchi e le gambe della ragazza; dietro di lei Jabura, anche lui nudo, le spazzolava con calma i capelli che le arrivavano fino alla schiena e coprivano quello che era stato il marchio degli schiavi, ora trasformato in un meraviglioso tatuaggio nascosto dalla lunga chioma nera.

I capelli di Jabura, lunghissimi, erano sciolti e pigramente lasciati cadere sui muscoli, e se ne stava seduto dietro la ragazza, quasi a contatto con quella pelle morbida ancora calda di letto. All’improvviso aveva fermato il movimento delicato della spazzola di legno che aveva in mano e si era proteso ad ascoltare i rumori della foresta.

Il sole si era appena affacciato sulla loro radura, cominciando a scaldare le tegole della casa luccicanti di umidità. Il fresco della notte non si era ancora diradato, ed era piacevole rimanere lì, nel letto, ritagliandosi un momento di intimità, scaldandosi a vicenda come in un bozzolo morbido.

Jabura posò la spazzola tra le lenzuola.

«Rimani qui» le ordinò l’uomo, accarezzandole le spalle, mutandosi per metà in lupo e andando verso la soglia. Amava vivere così, senza regole, nudo con quella donna, però era consapevole dei rischi che comportava il vivere isolati e lontani dalla civiltà; era lui che doveva difenderla, lui che doveva assicurarsi che non corresse il minimo pericolo. Quel posto era selvaggio, c’erano animali feroci nei dintorni, e c’era sempre la possibilità che qualche pazzo venisse a disturbarli, anche se erano a chilometri dal villaggio più vicino. Tanto, pensava con orgoglio Jabura, l’animale più pericoloso di tutti era proprio lui.

L'aveva dimostrato abbondantemente negli anni, no? specialmente cinque anni prima… se l’era vista brutta durante il combattimento a Marijoa: quel maledetto clone creato dal Germa 66 non si decideva mai a crollare, e quando aveva tirato fuori i pugni di fuoco… diamine, Jabura (il solo e unico!) aveva sudato freddo. Poi Vegapunk gli aveva attivato il Demon, quella sostanza dormiente che lui, Lucci e Kaku, avevano in corpo, ma ad effetto finito, con la spinta dell’adrenalina ormai esaurita, tutti i danni di quel combattimento erano stati chiari: fratture multiple, perforazioni addominali e ustioni di terzo grado, per non parlare del naso rotto e della testa che era una fontana di sangue, era un miracolo che fosse vivo. 

Di quella maledetta notte rimaneva solo una cicatrice da bruciatura (enorme, gli partiva dal basso ventre e gli si arrampicava fino alla spalla sinistra; il tatuaggio okami aveva eroicamente resistito, risparmiato dalle fiamme) sul suo corpo statuario, che testimoniava che nessuno, nemmeno un figlio di puttana geneticamente modificato, poteva buttarlo giù.

Lilian lo seguì con lo sguardo, poi si alzò dal letto in punta di piedi, prese il fucile che aveva accanto al comodino, e trattenendo il fiato scivolò sul pavimento, diretta verso il balcone che dava sul retro.

Era impossibile che fossero lì per lei, vero? Catarina era casa sua. Quella era casa sua. Sapeva che nessuno poteva venirla a cercare lì. E sapeva soprattutto che, adesso, aveva la forza per respingere da sola qualsiasi pezzo di merda che avesse osato provare a portarla via di nuovo. Stava ben attenta ad ascoltare rumori e odori diversi dal solito. Strisciò fino al balcone, e guardò verso l'esterno sfruttando l'anta semiaperta. 

Aveva passato nelle foreste abbastanza tempo perché i suoi sensi si fossero affinati, e fossero ora in grado di distinguere suoni e profumi che prima non pensava nemmeno esistessero. Jabura, con la sua trasformazione animale, doveva avere una percezione addirittura amplificata di quella differenza. 

Sperò che si trattasse solo di qualche bestia che si era avvicinata per errore, e che se ne sarebbe andata a breve per i fatti suoi. In quella casa non aveva paura né per se stessa né per il suo compagno, certa che Jabura in combattimento era milioni di volte superiore a qualsiasi animale, però la mattina era un bellissimo momento per stare abbracciati, scambiarsi coccole assonnate, e di solito ci scappava anche una superba trombata.

Anche lei era uscita faticosamente da un tunnel di dottori, di punti, di alimentazione endovena per gli organi interni devastati dallo Shigan di Jabura… del falso Jabura. E aggrappata a lui si era trascinata fuori da un altro incubo, quello della schiavitù. Ci aveva messo dei mesi perché il suo corpo, su cui c'erano ancora i segni delle violenze e delle frustate, permettesse all'uomo di accarezzarla, di assaggiarla, di farla sua. Un bel lavoro di pazienza per entrambi, anche per Jabura, a cui piaceva essere ben più irruente e selvatico tra le lenzuola.

Adesso che riusciva persino a vivere nuda insieme a lui, col cazzo proprio che avrebbe permesso a qualcuno di spezzare quel sogno, e proprio quel giorno, pensò facendo scattare il caricatore del fucile e avventurandosi con precauzione sul terrazzino, nascondendosi tra i vasi di piante.

Jabura scese dabbasso, giù per la scala interna di legno, e non ebbe nemmeno bisogno di aprire la porta d’ingresso o spostare le tende: annusava l’aria e scandagliava la spianata con l’Ambizione della Percezione. All’improvviso tornò umano e tornò sui suoi passi, salendo i primi gradini della scala e gridò verso la ragazza: «Falso allarme, copriti…»

Lilian strisciò a ritroso e, tornata dentro la stanza, abbassò l'arma e gridò di rimando: «Perché? Chi è?» domandò sorpresa.

Jabura aprì la porta d’ingresso e vide Rob Lucci, appoggiato al suo bastone. Si fermò a considerare Jabura e lo squadrò con disprezzo.

«Non credevo che l’avessi fatto sul serio.» disse l'agente.

«Cosa? Vivere nudo in un bosco? Sono anni che te lo dico.»

«Trovare qualcuno che ti sposasse.» lo corresse Lucci. «Del tuo essere un selvaggio, invece, sono sempre stato al corrente mio malgrado.»

Lucci entrò, attraversò il rustico salottino e si sedette al tavolo della cucina. Hattori aprì diversi sportelli finché non trovò le bottiglie degli alcolici, che portò a tavola. «Ehi, ehi! Chiedete almeno il permesso prima di entrare in casa mia!!» protestò Jabura.

«Boss!» si stupì Lilian, dalla cima delle scale, con una morbida e larga maglietta di cotone addosso. Felice che l’intruso non fosse altro che il suo capo, scese le scale e si avvicinò con tranquillità.

Il padrone di casa chiuse la porta d'ingresso e si trascinò in cucina, prese una sedia e si piazzò vicino a Lucci, facendosi servire un bicchiere da Hattori. «Che ci fai già qui? La cerimonia è stasera. E da Blueno dovevamo vederci a pranzo.»

«Copriti, selvaggio » lo pregò Lucci.

Il Lupo sghignazzò, buttando giù il bicchiere di liquore. « Ti imbarazza? Guarda che sei in casa mia, non hai nessun… »

«Smettila, Jabura» lo chetò gentilmente Lilian, passandogli un pantalone di tuta. «Tratta bene il mio testimone.»

Jabura si voltò verso la compagna. «COME SAREBBE A DIRE "IL MIO TESTIMONE"? »

«È il mio testimone.» ripeté semplicemente Lili, dietro Lucci che era seduto, posandogli le mani sulle spalle. «Grazie per aver accettato, boss. Posso abbracciarla?»

«No.» rispose Lucci atonico. Hattori era indignato.

Non potendo abbracciarlo, Lilian continuò a tenergli le mani sulle spalle con aria affezionata. «Fa parte della mia famiglia, perché non dovrei?»

«Perché è uno stronzo.»

«Rilassati Jabura, non ti sto di nuovo soffiando la fidanzata.» parlò Lucci, posando lo sguardo sul rivale. «Piuttosto, sono qui perché Hattori vorrebbe "quella cosa" in anticipo. Vuole esercitarsi a portarla.»

Lili sorrise e guardò il colombino. «Ma certo, tesoro! Vado a prendertela!»

Salì al piano di sopra e poi, ridiscesa, consegnò ad Hattori un morbido sacchetto portagioie di tessuto rosso scuro con dei ricami in oro. Lo mostrò al piccione, e poi fu Lucci a prendere con precauzione l'oggetto e a riporlo in tasca. Nel farlo, risuonò dolcemente qualcosa di metallo all'interno.

Dopo qualche minuto, Rob Lucci si congedò.  

Il pomeriggio arrivò pigro, come fa sempre nei giorni d’estate. La calura abbacinante del mezzogiorno fece lentamente strada a un pomeriggio fresco, dove il sole si era lentamente abbassato tra gli alberi e si intravedeva tra le foglie verdi che stormivano al vento.

Arrivarono, facendosi strada sul sentiero, alcuni operai per montare i tavoli per la cena e le panche che erano rimaste accantonate vicino alla casa; tirarono giù dai carretti delle lunghe scale, e  sistemarono tra i rami più bassi dei lunghi teli grezzi che avrebbero riparato gli ospiti a tavola dall’umido della sera.

Intanto, dentro casa, un grande calderone venne poggiato sul fuoco del camino, le pentole più grosse vennero tirate fuori dagli stipi, e presto un sottile filo di odore di spezie, di sfoglia, di carni arrosto e di dolci cominciò a spandersi nella radura.

Nel ruscello che rumoreggiava contento vennero varate decine di piccole barchette con delle candeline accese, che vennero ormeggiate tra i sassi perché la corrente non se le portasse via fino al mare; quando il sole tramontò, le fiammelle rilucevano tra i piccoli flutti giocando tra gli zampillii.

Si accesero nei cespugli i puntini di luce delle lucciole, lontane dalla confusione, aggiungendo il loro microscopico linguaggio a quello delle ultime cicale che frinivano al tramonto, sempre più silenziose.

Due operaie, rapide, srotolarono diversi morbidi tappeti nello spazio erboso tra due alberi, e usarono i due alberi per tendere una fila di lucine bianche a circa tre metri dal suolo; le estremità dei fili penzolavano verso terra, dando l’impressione di una cornice nel bel mezzo del bosco; e quel che rimaneva del fusto di un albero abbattuto lì accanto venne coperto da un drappo e avvolto da un’altra fila di lucine e reso il leggìo dove Kumadori avrebbe letto le promesse.

E finalmente, mentre la sposa si chiudeva nel segreto della sua camera, la notte avvolse la radura incantata, e infine, ad uno ad uno, si accesero i lampioncini, che ondeggiando nel vento tenue dipingevano, per terra e sui tronchi, un acquerello danzante di luci, mentre gli ospiti, lentamente, cominciavano ad arrivare. 

 

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Ci siamo. È arrivato quel momento di spuntare la casella "Storia completa". 

Grazie innanzitutto a tutti i lettori. Tutti coloro che l'hanno aperta, hanno deciso di darle una possibilità, e che sono arrivati fino a qui, o che arriveranno fin qui. Grazie a tutti i recensori, grazie per le vostre parole, grazie per tutti i momenti insieme. Tra i recensori, grazie a John Spangler, le cui recensioni erano ben più puntuali dei miei stessi capitoli. 

Grazie a Lady R Of Rage, che in una conversazione di ormai quattro anni fa mi disse: "oh ma lo sai che ho trovato un articolo sui collari per schiavi ai tempi dell'antica Roma?", e da cui è innocentemente scaturito tutto questo. 

Grazie a mlegasy che da anni si sorbisce le mie paturnie, le mie trame orribilmente bucate, i miei vuoti cosmici, i miei svarioni sul Cp9/0. Una pazienza sto ragazzo che voi non potete immaginare. Grazie tesoro. ♥

E adesso?

E adesso tanto per cominciare non scriverò una long per un bel po' XD questa storia ho cominciato a scriverla nel 2019, ma alcuni pezzi erano anche precedenti. Comunque posso affermare che il "futuro alternativo" di questa storia finisce qui. I prossimi progetti non seguiranno questo filone narrativo, che preferisco lasciare così, con l'immagine di un matrimonio sotto gli alberi. 

Ho qualche storia in mente sia del Cp9 che dei Nakamas, ma fa troppo caldo per scriverla. Voi da che parte della Punk Hazard nazionale siete adesso? io nella zona Akainu.

Spero che vi sia piaciuta ♥ spero che possiate perdonare tutti i ritardi nella pubblicazione, le lungaggini, i miei ritardi nelle risposte. Vi ringrazio tantissimo ancora per essere arrivati fino a qua.

Buona estate e bevete tanto ♥

Un abbraccio fresco,

Yellow Canadair 

  
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