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Autore: _the_unforgiven_    01/10/2023    2 recensioni
Micro raccolta di due racconti AU, accomunati dall'elemento soprannaturale e da una certa qual deriva thirsty.

I. Breve Racconto Arcadico
(Dicono che un dio tenga corte sul monte Citerone.)
Dionysos!Aziraphale, Pentheus!Crowley

II. Breve Racconto Gotico
(Spesso, una vecchia casa non è niente di più che una vecchia casa.
E poi, e poi ci sono case come questa.)
Priest!Aziraphale, Ghost!Crowley
Genere: Erotico, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Breve racconto gotico

 

 

Questa prigione che mi ha tolto gli anni, che mi ha tolto gli occhi, le mani, la lingua e i denti; questa lunga notte di falangi ficcate nella carne, di costole gelate contro i muri, questa notte marcia di pianto e rabbiosa di pioggia; questa prigione io abito, qui riverso la mia amarezza come sangue, qui il rancore mio percorre i corridoi come un animale in gabbia.

L'ho odiata, centimetro per centimetro, ne ho roso ogni palmo consumandola come un tarlo; sono diventato carne di questa carne di calcinacci e vetri rotti, i miei singhiozzi sono nei gradini spezzati, il mio respiro nelle mattonelle in briciole negli angoli vuoti; la polvere che impasta le ragnatele e il chiaro di luna è fatta dei miei pensieri, sono mie le parole che non riescono a uscire dal buio del caminetto.

Adesso che non distinguo più le mie mani dal brancolare dei ragni, la mia voce dal gemere delle serrature guaste, adesso mi è più che mai cara; la cella che mi ha infradiciato l'anima con l'acqua ferma nella grondaia, che mi ha schiacciato il petto dietro le persiane luride; adesso io sono lei e lei è me, le sue viscere sono le mie, i miei occhi sono nelle orbite vuote delle sue finestre.

Qui sono e qui sono rimasto, qui resterò, sempre, per sempre, insieme al disfacimento solenne delle tende, alla cieca voracità dei topi, a divorare ed essere divorato, eterno cannibale di me stesso, a strapparmi la carne delle braccia e l'ultimo filo di voce.
 


Prendo il Libro dalla tasca del mio abito, lo pongo davanti a me sul tavolino; prendo anche il rosario, la bottiglia con il tappo d'argento, il mio fedele taccuino con il mozzicone di matita.
Li poso in bell'ordine uno accanto all'altro, un piccolo plotone schierato. Sono il mio baluardo.

"Padre, è certo che non ci sia altro che posso fare per lei?"

Sollevo lo sguardo; è ferma sulla porta, già quasi oltre la soglia, come se i piedi la volessero suo malgrado condurre via.

"Sarà sufficiente che stasera mi ricordi nelle tue preghiere, figliola."
Sembra già essersi pentita, forse pensa che questa vecchia casa non valga tanta pena.
Esita, tormenta la cinghia della borsa; quando è venuta a cercarmi indugiava nello stesso gesto, con nervosismo a malapena celato.
Poi stringe le labbra. "Sarò di nuovo qui domattina." ripete, per la terza volta. "Ma se avesse qualunque necessità, padre, per qualsiasi cosa..."

"C'è un telefono al piano di sotto."

Annuisce, gli occhi rivolti al pavimento.
Ha esaurito le scuse per rimanere qui; stringe le dita attorno alla cinghia e raddrizza la schiena, preparandosi a prendere congedo.
Lo spettro di un dubbio le attraversa il viso.

"...lei mi crede, padre. Vero..?"

Non posso impedirmi di sorridere, mentre prendo posto nella vecchia poltrona con il rosario fra le dita.
"Ti credo, figlia mia. Per questo ti chiedo di pregare anche per me."

Spesso, la cosa più difficile è semplicemente restare svegli.

Siedo nella decrepita stanza da letto da quando la mia committente si è allontanata; sprofondato nella vecchia bergére che quasi mostra le molle, sgrano il rosario, e aspetto.
Spesso c'è qualcuno con cui scambiare qualche parola, con me. La persona che mi ha affidato il lavoro; un familiare scettico; qualche volta perfino un dilettante entusiasta con strumenti di misurazione elettronici, thermos di caffè e molta parlantina.
Spesso ci si addormenta ben prima che spunti l'alba.

Spesso, l'unica infestazione di cui la casa è vittima sono gli scarafaggi, e non c'è un vero motivo per coinvolgere un esorcista.

E' scomodo passare la notte in vecchi edifici umidi, ad ascoltare l'andirivieni dei ratti sotto le assi del pavimento, assediati da un odore di muffa talmente forte da dare il mal di testa.
Ma anche rasserenare le persone angosciate è opera del Signore; spesso non hanno bisogno di altro che di rassicurazioni, della conferma che nessun rancore, nessuna invincibile tristezza avvelenano le fondamenta del posto dove vivono, della casa che hanno ereditato, o che vorrebbero acquistare.
Spesso ci si saluta affabilmente il mattino dopo, davanti a una tazza di caffè; e già nella prima luce del sole la casa assume un altro aspetto.

Spesso, una vecchia casa non è niente di più che una vecchia casa.

E poi, e poi ci sono case come questa.



 

L'attesa mangia; l'attesa corrode.

Mi sono consumato aspettando, come una candela che si strugge; ma la mia forma non è più una che il tempo possa opprimere. Si spande come olio, fluttua come fumo, si scioglie in un presente sfuggente come acqua.

Della stessa materia sgusciante di cui è fatto il fondo dell'acquitrino, scivolo, senza tensione, senza direzione, perché nulla più può essere, perché sono nell'attimo prima di ogni cosa, per sempre nell'annullarsi della gravità all'estrema oscillazione del pendolo.



Forse mi sono assopito.
E' difficile capirlo quando si è soli in una stanza silenziosa; seduti, abbiamo il rosario ancora fra le dita, ma il nostro bisbigliare si è fatto incoerente, ci accorgiamo che la mente vaga.

La lampada sul comò è accesa; fortunatamente, la casa non è priva di elettricità.
Nella fioca luce gialla vedo i mobili dalle volute incise, il letto a baldacchino con le sue tende mangiate dalle tarme.

Eppure per qualche momento ho avuto l'impressione di trovarmi altrove; ho avvertito l'odore umido di tappeti di viole, il profumo livido di gigli e mughetti; nell'aria un sentore di limo, e di pietra muschiosa, e di foglie morte.

E poi su questo odore freddo e vegetale una nota estranea, calda e improvvisa come uno schizzo di sangue: un odore acre come carne e sudore, come fiato caldo sul viso, così vicino che è quasi un contatto tumido e caldo. Ed è qui che mi sono accorto di avere gli occhi chiusi, perché li ho riaperti di colpo e mi sono trovato nella vecchia casa, con il capo ciondoloni e le mani abbandonate in grembo.

Ho raccolto il rosario e mi sono rimesso a pregare.



Un prigioniero divenuto la propria prigione, é ancora prigioniero? Cosa nasce quando la porta della vergine di ferro si chiude su di noi?

Ouroboros.

Il serpente divora se stesso. Via via più fiocamente, vertigine fa eco a vertigine; la ruota diventa sempre più pesante, affaticata e lenta - finché non si ferma, in oblio e silenzio, finché la polvere finalmente posa.

Allora posso dormire.

Ma basta un passo - una vibrazione di vita sulle corde della ragnatela - e la fame cieca spalanca le fauci, il vuoto urlante risucchia ogni cosa e mi acceca di sangue, mutilato, straziato - finché non è di nuovo stasi, e silenzio, e sonno.



Sfoglio il libro di preghiere.
So che per restare svegli sarebbe meglio altro; magari un racconto, un romanzo. Qualcosa di frivolo, che desti la mia attenzione e faccia scorrere le ore più veloci.
Ma questa notte non devo distrarmi. Non devo lasciare cadere l'attenzione; devo invece rinverdire la mia fede infiacchita, rafforzarla nella possibilità di una prova.
Sfoglio le pagine e cerco di restare vigile. Leggo a mezza voce. Sono brani che conosco a memoria, ed è quasi un conforto, quasi come leggere in coro con me stesso.

"Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?"

Proprio così... Anche se in questa casa è buio e freddo, fuori certamente brilla una notte stellata. E chissà, forse gli odori di poco fa vengono da un pascolo sotto la luna...

"Nella destra teneva sette stelle, dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio e il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza."

Le stelle nelle mani, il sole nel volto e una spada a doppio taglio... Come la bellezza sublime è sempre mescolata al pericolo mortale.

"In quei giorni gli uomini cercheranno la morte, ma non la troveranno; desidereranno morire, ma la morte sfuggirà loro."

Mi coglie un moto di confusione; perché sto leggendo questo versetto?
Cerco con gli occhi sulla pagina; non è questo il passo che ho davanti.
Forse sono stanco; mi stropiccio gli occhi gonfi di sonno.

Alle mie spalle risuona un colpo.

Attutito, come giunto attraverso la parete.
Sono già balzato a voltarmi, prima ancora di rendermene conto; ma non c'è nulla dietro di me...
Naturalmente.

Mio malgrado, un brivido gelido mi percorre la schiena.

Nessun altro suono, dopo il primo; un solo colpo, isolato, sordo, dalla stanza vicina.

Potrebbe essere stato un topo. Potrebbe essere stato un topo ad aver fatto cadere il libro che stava rosicchiando.
O forse è stato il vento a far sbattere una vecchia imposta.
Potrebbe anche essersi introdotto in casa qualcuno, un ladro, o un senzatetto in cerca di riparo.
Potrebbe essere una qualsiasi di queste cose.

Decido di non andare a scoprirlo.
Con la bocca improvvisamente asciutta, riprendo a recitare una preghiera.

Ma ecco, sono sicuro di udire, sotto la mia voce e appena percettibile attraverso la parete, un'altra voce che non è la mia.
Se mi fermo, tace.

Riprendo meccanicamente a pregare, mentre con tutte le mie forze cerco di carpire le parole soffocate che fanno eco alle mie; ma per quanto tenda l'orecchio, per quanto tenti disperatamente di escludere il suono della mia preghiera, non riesco a distinguerne neppure una.
Solo l'inflessione dolente, quasi di pianto, di qualcuno che sembra supplicare da dietro la porta.

Rinuncio ad ascoltare, perché alle voci, la mia e quella che mia non è, si sovrappone adesso a tonfi grossi il battito del mio cuore.
"Kíríe eleison, Signore Dio nostro, sovrano dei secoli, onnipotente e onnipossente..."

Questa volta il suono giunge da dentro la stanza.
E' un riso delicato, un educato risolino a bocca chiusa.

Trattengo il fiato.

La risatina si esaurisce in un sospiro divertito.
Qualunque cosa sia, si è fatta più vicina.

"...tu che a Babilonia hai trasformato in rugiada la fiamma della fornace..."

Come trema la mia voce! Nessuna meraviglia, mi trovo a pensare pazzamente, che susciti riso anziché timore.

Ma non ho tempo di abbandonarmi a questi pensieri, perché ecco un fruscio e un rumore di passi - alle mie spalle, sempre felpati alle mie spalle; e vicino, vicinissimo al mio orecchio, sento ora singhiozzare - lo stesso pianto che poco fa risuonava al di là della parete; un pianto terribilmente solitario, come acqua che goccia a goccia cada da una gronda.

Resto immobile. Per il terrore, i peli sul collo si sono rizzati come la criniera di un animale; ma non oso voltare la testa. Continuo con un resto di voce la mia preghiera, spasmodicamente in ascolto.
Ascolto finché il pianto non si esaurisce, finché non resta che un lungo sospiro doloroso, freddo e sepolcrale, così vicino al mio orecchio che posso avvertire lo spostamento d'aria.

Un sospiro; dopo un poco, ne segue un altro.
E poi ancora un terzo. Ed un quarto; ciascuno appena più molle del precedente.
Dietro di me, proprio vicino alla mia spalla, i sospiri diventano pian piano più lievi, quasi languidi.

Finché nel mio orecchio si versa un ansito effuso di calore, da una gola che palpita vicina, vicinissima alla mia, e che bisbiglia qualcosa che suona in modo seducente come il mio nome.

Sussulto riscuotendomi d'improvviso, mi strappo dalla bergére facendo un mezzo giro su me stesso; inutile, perché non c'è nessuno oltre a me nella stanza deserta.

Con il cuore in tumulto mi faccio il segno della croce, afferro l'acqua benedetta e cado in ginocchio a pregare ad alta voce.



Quanto feroce odio per la mia prigione, quanto orrore per il corpo che mi teneva legato ad essa!
Gli ho strappato le unghie con i denti, mi sono morso la lingua per dissanguarlo, l'ho piegato con la sete e con la fame.

Ho udito ogni genere di lodi rivolte a quel corpo miserabile; la sua giovinezza non è servita ad altro che a prolungare la mia reclusione, la sua tenacia a rendermi più ardua la fine.
Ma la sua bellezza, quella l'ho odiata al di sopra di ogni altra cosa.

Sfavillante come la cappa degli ipocriti della sesta bolgia, e altrettanto pesante; impugnata come una condanna da chi mi ha calpestato, umiliato, imprigionato, eppure inutile per trattenere chi mi ha abbandonato.

La mia prigione ha cominciato a essermi cara quando ho iniziato ad assomigliarle, nella scabra geometria delle mie ossa, nel pallore marmoreo della mia carne, nell'insensato ripetersi e intrecciarsi dei corridoi e delle anticamere e delle scalinate come pensieri ciechi e senza finestre.



Inginocchiato, ad occhi chiusi, prego.
Mi aggrappo al pavimento freddo e duro sotto le ginocchia, alla gravità che pesa sul mio povero corpo dolorante.
Cerco di concentrarmi su quella sensazione, di placare il tumulto del cuore; ma so che sono prossimo a sentirmi mancare.

Il pensiero è un nastro buio che si avvolge e si tende trascinandomi con sé - scivolo, incespico, non so dove mi porta; mi copre gli occhi e mi soggioga come una bestia condotta via.

Precipito, febbrile, forse sono malato, forse è febbre - febbre, febbre, accelerazione battito irregolare - un fiume di associazioni senza connessione apparente - i gigli - febbre febbre frullio d'ali, vertigine - l'orgasmo di quella voce come uno spandersi di latte e miele, febbre, febbre, mi sento bruciare come se sotto di me si fosse spalancata la bocca dell'inferno; brucio, brucio e sono scosso da brividi -

- un tocco leggero al centro del labbro inferiore, fresco e lieve come il petalo di un fiore.

Riverbera in tutto il mio corpo, come una singola goccia su uno specchio d'acqua ferma.

Rabbrividendo, mi trovo pieno di stupore a trattenere il respiro.
Non è mai accaduto.
Rumori, voci, anche visioni mi si sono presentati in passato; e ormai so riconoscere i luoghi in cui me li posso aspettare.
Ma questo, questo è nuovo.

La pressione sul mio labbro cresce impercettibile, abbastanza da sfiorarmi gli incisivi, e il tocco è gelido al punto da farmi dolere i denti fino alla radice.

Ma poi qualcosa come la vampata di una fornace mi avvolge, mi afferra serrandomi in una stretta che mi preclude ogni movimento.

E so che non c'è nessun altro nella stanza, lo so, eppure potrei giurare che un corpo sia stretto al mio con un calore di brace, si aggrappi alle mie scapole premendomi sul viso un petto greve di sospiri, scosso da un cuore in subbuglio quanto il mio .
Le membra legate, senza essere neppure più padrone della mia lingua, cerco invano di dire qualcosa; una preghiera, un'invocazione, le semplici parole "chi sei?"

...ma chiunque sia, io so che è la voce singhiozzante di prima, lo so dallo spasimo con cui si afferra a me, dalla pressione di lunghe dita trascinate fra i miei capelli, sul mio viso.
Che sia viva, non lo posso dubitare, per il bruciante calore e il battito pesante del cuore che avverto quasi sulle guance, sulle labbra.

Sento fremere nelle mani il desiderio di afferrare il corpo che è così vicino al mio, di scoprirne il volto, ma nel mio cuore resta gelata una lama di paura, come un pugno di ghiaccio gettato nel fuoco.
Le mani che si aggrappano così disperatamente alle mie spalle e ai miei capelli, lo fanno per essere tratte in salvo o per trascinarmi con loro?

 


Non sono certo di quanto tempo ho trascorso prostrato a terra, di quanto è durato il misterioso rapimento; ma ora si è dissolto, improvvisamente come si dissolve un sogno.
Sento mordere sotto le ginocchia il pavimento gelato, sento un velo di sudore raffreddarsi sotto gli abiti e sopra la pelle; vedo la stanza, vedo le mie mani, anche se nel frattempo la luce si è spenta e solo i raggi di luna entrano dalle finestre impolverate.

Mi sento in petto il languore largo che segue le lunghe corse, che segue il pianto; e comincio a credere che trovarmi qui questa notte sia un grave errore, un pericolo troppo grave che non ho saputo prevedere.

Dio mio, non abbandonarmi, sussurro fra le labbra screpolate, ma è proprio in quel momento che la vedo.

Dove la luce delle finestre si raccoglie ai piedi del letto, si erge una figura fatta della stessa diafana materia del chiaro di luna.
Ha una veste fatta di tele di ragno e mussola corrosa, ha le spalle nude che nella luce azzurra paiono alabastro. Ha i capelli rossi come il peccato e il volto immerso nelle ombre; ma non dubito neppure un istante che stia guardando me.

"Dio mio, dio mio," riesco appena a sussurrare, e sento che i miei occhi si stanno colmando di lacrime; mi si offusca la vista, e un attimo dopo è così vicino, mi sfiora il viso, lunghe dita come stalattiti di ghiaccio, mi solleva il mento e ora vedo, vedo occhi giallo zolfo e labbra rosse su denti affilati, vedo un sorriso atroce e uno spasmo di dolore sulla fronte bianca, e sono pazzo di terrore e dell'impeto con cui spalanco le mie braccia-

- e del sapore di quel bacio, testimoni sono solo gli angeli caduti.


 

 

   
 
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