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Autore: Nina Ninetta    15/10/2023    4 recensioni
Anita è una studentessa di 16 anni che vive un profondo disagio sociale e se ne sta fin troppo spesso per conto proprio. Completamente sola, all’inizio del terzo anno, si trasforma nella vittima perfetta di un gruppetto di bulli che la vessa con dispetti e insulti di ogni genere. Il peggiore fra tutti, secondo Anita, è Stefano: un ragazzo scaltro e intelligente che sa usare fin troppo bene le parole, cosa in cui anche lei è brava! Qualsiasi altra persona, al posto di Anita, si sarebbe lasciata avvilire da questa situazione, ma non lei, poiché non si sente affatto sola, c’è il suo migliore amico a darle man forte: ȾhunderWhite! Un ragazzo con cui chatta ormai da tempo e che ha conosciuto in rete, su un sito per giovani scrittori come lo sono loro! Sebbene vivano nella stessa città, Torino, non si sono mai incontrati di persona, fin quando ȾhunderWhite non sente il desiderio di vederla dal vivo...
Questa storia partecipava alla challenge “Gruppo di scrittura!” indetta da Severa Crouch sul forum “Writing Games - Ferisce più la penna” - aggiornamenti ogni 15 giorni.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ȼapitolo Տette

“Ғarsi Ɓelli”
 


 
Fabio Morini si sporcò il palmo della mano con una noce di gel che con accuratezza chirurgica si distribuì sulla punta dei capelli, più lunghi sulla testa e rasati ai lati. Si osservò allo specchio, mentre lavava le mani appiccicose, poi, soddisfatto del risultato, schioccò le labbra.
Quella sera era la sua sera! Avrebbe trovato l’anima gemella, se lo sentiva. O, quanto meno, ci sarebbe scappato un bacetto.
Si augurava…
I capelli apparivano ancora più aranciati sotto la luce gialla. Anche le lentiggini erano messe in risalto dall’abbigliamento scuro che indossava. Inconsciamente, si sfiorò uno zigomo e il sorriso spavaldo scemò. Quanto li odiava quei puntini rossi! Se solo fosse esistito un modo per cancellarli dal volto, non ci avrebbe pensato due volte a farlo. Invece, sembrava non esistesse nessuna cura (quasi si trattasse di una malattia). Una volta, aveva chiesto alla mamma di Stefano, la quale era una stimata dottoressa, se per caso conoscesse un metodo per togliere le lentiggini, ma la donna gli aveva risposto che non c’era nulla al mondo che fosse in grado di esaudire il suo desiderio. Con l’età sarebbero sbiadite un po’, forse…
Fabio, per anni, era stato preso in giro dai suoi coetanei, prima all’asilo, poi alle scuole elementari, sia per il colore sgargiante dei suoi capelli, sia per le decine di efelidi che gli riempivano la faccia. Aveva subito quelle vessazioni per mesi e mesi, fin quando un bel giorno, durante la quinta elementare, non aveva minacciato un compagno di classe con la punta di una matita temperata a dovere per l’occasione. Era stato punito dalla maestra, com’è ovvio che fosse, ma da quel giorno nessuno aveva più osato prenderlo in giro. Anzi, era diventato lui il carnefice e gli altri le vittime…
«Esci da lì dentro o ti sei buttato nel cesso, finalmente?» La voce di suo fratello che tuonava dall’altra parte della stanza lo riportò con la mente al presente.
«Esco! Idiota!» Fabio spalancò la porta e si ritrovò il fratello maggiore che lo guardava con un mezzo sorriso sghembo.
«Ti sei fatta bella, principessina?» Lo schernì. Fabio neanche rispose, incassando il colpo come faceva sempre con lui. Ecco una situazione che non era riuscito a capovolgere a proprio vantaggio: suo fratello era l’opposto di lui e se ne prendeva gioco da quando erano piccoli. Il maggiore dei due era alto, ben piazzato, capelli chiari e occhi verdi, andava bene a scuola e sapeva perfettamente cosa avrebbe fatto nella vita (il pompiere). Fabio, al contrario, era molto magro, senza una parvenza di muscolo manco a pagarlo, non troppo alto, con i capelli e il viso che sembravano un cartone animato degli anni ’80. E, ovviamente, era una frana a scuola e non aveva la benché minima idea di quello che avrebbe fatto da grande.
«Ti vogliono al telefono, principessina»
«A me? Chi è?»
«La tua amichetta del cuore»
Fabio comprese subito che stesse parlando di Stefano, perciò corse per il corridoio fino in cucina, dove sua madre stava già preparando il pranzo per il giorno dopo.
«Pronto?!»
«Fabio, sono Stefano.»
«Ohi, Ste’, dimmi!» Il cuore di Fabio prese a battere un po’ più velocemente. Se lo chiamava a quell’ora, quando mancavano appena 40 minuti all’appuntamento, qualcosa era accaduto.
«Non vengo più alla festa.»
«Non vieni più?! Ma come non vieni?! E a me chi mi passa a prendere?!» La voce del rosso era diventata petulante.
«Mi dispiace, ma i miei sono entrambi a casa stasera e hanno organizzato una cena in famiglia. Te lo immagini che palle!»
«Ma tu gliel’hai detto che si tratta della festa di fine anno?»
«Sì, ma non hanno voluto sentire scuse.» Stefano si prese qualche secondo, in modo che l’amico potesse metabolizzare la notizia. «Li conosci, sai come sono…»
«Sì, sì… Non riesci a passare neanche sul tardi?»
«No, non credo…» Più che altro, Stefano se lo augurava. Se la serata fosse andata come sperava lui, non avrebbe avuto né tempo né voglia di andare a quella stupida festa scolastica che ogni anno le classi quinte organizzavano per salutare i docenti e l’istituto. Una vecchia tradizione, insomma…
I due amici si salutarono, con umori completamente differenti.
Fabio riagganciò e con un’espressione torva chiese alla madre a che ora sarebbe rientrato suo padre dal lavoro.
«Oggi ha il doppio turno in fabbrica, è venerdì» rispose la donna, adesso seduta al tavolo della cucina a sfogliare una rivista settimanale. «Se hai bisogno di un passaggio puoi chiedere a tuo fratello.»
«Chiedere a me? Cosa?» Proprio in quell’istante il primogenito entrò nella stanza.
«Fabio avrebbe bisogno di un passaggio.» La donna voltò pagina, apparentemente presa da ciò che stava leggendo.
«L’amica del cuore ti ha dato buca?»
«Lascia stare, prendo il bus» fece Fabio, addentrandosi nel corridoio, più incazzato che mai.
 
Stefano riagganciò la telefonata e rimase qualche minuto con la mano stretta intorno alla cornetta. Aveva fatto uno sgarbo al suo migliore amico, lo sapeva benissimo, ma non poteva fare altrimenti. Fabio Morini non era al corrente di nulla, sebbene fossero amici da tempo e si dicevano ogni cosa. O meglio, il rosso tendeva a confidarsi con lui, a Stefano non piaceva spifferare in giro i fatti personali, preferiva tenerli per sé.
«Che elegencia!» La dolce voce di Carmen distolse Stefano dai suoi sensi di colpa. Si girò a sorriderle e mostrarle l’abbigliamento.
«Sto bene per un appuntamento?»
«Un appuntamento?!» Ripeté la donna, prendendo le mani del ragazzo nelle sue e spalancandogli le braccia per osservarlo meglio. «Sei bellissimo, Stefanito» quindi gli accarezzò una guancia e proseguì dritta in camera da pranzo, dove stava apparecchiando per la cena. Lui la seguì a ruota, osservando il suo lavoro lento e meticoloso.
«Stasera si degneranno di cenare insieme?»
«I signori sono molto impegnati» rispose la donna, canticchiando un motivetto del suo paese.
«No, i signori sono molto separati, ma fingono che tutto vada bene.»
Carmen “Carmensita” Viñales smise di fare ciò che stava facendo per alzare lo sguardo e osservare Stefano. Provava sempre una gran pena per quel ragazzo, anche ora che aveva quasi 17 anni e si era messo in tiro per un appuntamento romantico. Adagiò sul tavolo il vassoio che teneva in mano e gli si avvicinò, fingendo di aggiustargli il colletto della camicia a mezze maniche e che, invece, era perfettamente piegato, poi gli diede un paio di colpi al centro del petto. Stefano la guardò dall’alto in basso, li separavano almeno venti centimetri e diversi anni d’età.
«Lo so cosa stai per dirmi, Carmensita» sospirò lui. «Che sono brave persone, che salvano vite, che stanno insieme per me.»
Carmen Viñales annuì con lenti cenni del capo a ognuna di quelle bugie ripetute da lei stessa negli anni.
«Beh, sai una cosa? Loro non mi conoscono affatto, non sanno niente di me. Hanno sprecato una vita ad aiutare degli estranei, ma non sono mai stati in grado di aiutare se stessi. O me, quando ne ho avuto bisogno.»
«Non sprecato, non dire così…» La donna gli prese il viso con entrambe le mani, i polpastrelli erano ruvidi al tatto, ma il tocco dolce e gentile. L’unico che Stefano conoscesse, a dire la verità. «E tu sei troppo giovane e bello per capirlo adesso. Vai al tuo appuntamento e divertiti, StefanitoCarmensita tornò sui suoi passi.
«E cosa dirai ai miei genitori sul fatto che sono uscito?»
«Quello che ho detto a te: sei troppo giovane e bello per restare a casa in una serata di giugno.»
Stefano Parisi sorrise, adorava quella piccola donna che sembrava uscita da una soap opera sudamericana che le piacevano tanto. Afferrò al volo le chiavi dello scooter appese all’ingresso e se le fece sobbalzare al centro del palmo un paio di volte, riafferrandole al volo.
Si sentiva bene, in pace con sé. La scuola era finita da una quindicina di giorni, la pagella era stata migliore del previsto e lui stava andando a un appuntamento plasmato nei minimi dettagli, così come lo desiderava. Aveva mentito? Preso in giro? Forse un po’, ma a fin di bene in fondo...
Salì cavalcioni sul sellino del veicolo, mise in moto e sfrecciò lungo la discesa della sua abitazione, oltre il cancello automatico. L’aria dolce di giugno gli solleticava il viso, il cielo cominciava appena a imbrunire e le stelle a brillare nel rossore del crepuscolo.
Stefano Parisi sorrideva senza neanche rendersene conto, fiducioso dell’immediato futuro…
 
Anita si guardò allo specchio per l’ennesima volta e si trovò ridicola.
Cosa ci faceva con addosso un abitino giallo e i fiori blu? E quel mascara intorno alle ciglia? Cielo, somigliava a un panda più che alla fotomodella sulla confezione della trousse che aveva comprato in profumeria qualche giorno fa. Chi pensava di far innamorare così conciata? Avrebbe riso di lei, sicuro! Sarebbe diventata lo zimbello del paese!
«Basta, non ci vado!» Si disse per l’ennesima volta e di nuovo pensò che non poteva fargli quel torto. Già sarebbe stato difficile giustificarsi per avergli mentito in tutti quei mesi (gli aveva detto che aveva vent’anni e lavorava in un bar nel fine settimana).
E se non si fosse presentato all’appuntamento? Se fosse stato lui a darle buca? Cosa avrebbe fatto? Come avrebbe reagito?
Come sempre, in fondo era abituata a sentirsi rifiutata…
Udì la voce della mamma che chiedeva a sua sorella se fosse pronta, il papà sarebbe stato lì tra venti minuti circa. Alessia rispose che aveva quasi fatto. Lei sarebbe andata alla festa della scuola, ovviamente. Adorava quegli eventi ed erano gli unici ai quali i genitori le permettevano di partecipare, poiché sapevano che ci sarebbe stata la supervisione dei docenti.
Anita si guardò ancora una volta allo specchio. No, così combinata non si sarebbe palesata neanche a una festa di carnevale. Prese il coraggio a due mani e uscì dalla stanza per raggiungere sua sorella in quella accanto.
«Ale» la chiamò con un filo di voce. Mentre l’altra si pettinava i lunghi capelli biondi, osservò la sua immagine riflessa allo specchio. Era così bella che a volte ne restava incantata lei stessa, chiedendosi come fosse possibile che condividessero i medesimi geni. Gli occhi erano di un azzurro trasparente, le ciglia parevano disegnate e gli zigomi messi in risalto dal fard color pesca. Aveva indossato un abito corto, di finta pelle scura, mentre ai piedi calzava anfibi dello stesso colore.
I loro sguardi si incrociarono attraverso il riflesso dello specchio e Alessia a stento trattenne una risata (lo fece solo perché percepì l’angoscia della sorella maggiore):
«Cazzo, Ani! Ma che ti sei messa?»  
«Puoi aiutarmi almeno con il trucco?»
Alessia lasciò perdere i propri capelli e le si avvicinò, chiudendo la porta alle sue spalle, per evitare che la madre le sentisse.
«Avevo capito che non saresti venuta alla festa di fine anno» disse.
«Ho un appuntamento con Ⱦhunder» ammise Anita, mentre Alessia cominciava a pulirle il viso con un fazzoletto imbevuto di struccante.
«Con chi?»
«Ⱦhunder, il mio amico di chat!»
«Ah sì, il tuo fidanzatino immaginario» la prese in giro la più piccola di casa.
«Non è immaginario! Esiste! E stasera lo incontrerò. Forse…»
Alessia cominciò a stenderle del fondotinta con le mani.
«Non dirlo a mamma e papà» la pregò Anita.
«Non lo so, Ani. E se fosse un maniaco?»
«Impossibile» l’espressione di Anita si addolcì. No, Ⱦhunder non poteva essere un maniaco, lei lo conosceva bene ed era una persona a modo. Anzi, probabilmente sarebbe stato lui a rimanere deluso dalla sua compagna di chat…
«Dov’è il luogo dell’appuntamento?» Alessia ora era passata alla matita per gli occhi. Aveva una mano leggera e un tocco delicato. Il make-up era da sempre la sua passione, per questo motivo desiderava tanto studiare in una scuola di trucco, ma per adesso avrebbe dovuto finire le superiori, poi, se dopo il diploma sarebbe stato ancora il suo sogno, i genitori avevano promesso che le avrebbero pagato un corso per estetista.
«Al parco del Valentino.»
«Ai lampioni innamorati, immagino…» Alessia abbozzò un sorrisetto. «Che fantasia!»
«Non sapevamo do-»
«Zitta, non parlare e tieni le labbra morbide» le ordinò la più giovane, mentre illuminava la bocca della sorella con un lucidalabbra trasparente. Tornò quindi in posizione eretta per guardare il suo operato e ne fu molto soddisfatta, ma quando Anita fece per alzarsi le intimò di non muoversi: adesso avrebbero dovuto acconciare quei cazzo di capelli! Mise a riscaldare l’arricciacapelli e nel frattempo cercò nell’armadio qualcosa da farle indossare. Le mostrò un paio di abitini corti, scuri e aderenti che ovviamente la maggiore rifiutò categoricamente di mettere.
«Con quel prendisole da bambina deficiente non ci andrai di sicuro.» Con le dita sfiorò l’arricciacapelli e lo staccò dalla corrente: si era riscaldato a sufficienza. Le si accostò di nuovo, arrotolando una ciocca di capelli intorno al ferro rovente. «Metti un jeans largo, se strappato meglio ancora, con un cinturone bianco…»
«Non ce l’ho il cinturone. Ehi, non è che mi bruci i capelli con quest’affare?»
«No, stai tranquilla…» Alessia rilasciò il ciuffo che ricadde in un morbido boccolo fin oltre la mascella, a sfiorare la clavicola. Continuò così per il resto della testa. «Allora te lo presto io. E ti presto anche quella maglia azzurra che mi comprai l’anno scorso in Puglia.»
«Quella ad incrocio? Ma è scollata!»
«Sei piatta, che vuoi che si veda?!»
Anita la guardò male, mentre Alessia sorrideva divertita e felice: era come se un suo piccolo sogno si fosse avverato, ossia trasformare la sorella da brutto anatroccolo in un bellissimo cigno. L’aiutò a vestirsi – temendo più che altro che Anita non seguisse i suoi consigli di moda – e quasi si commosse.
«Ⱦhunder uscirà pazzo vedendoti!»
«Dici?!» Anita si studiò meglio allo specchio e quasi non si riconobbe.
 
Giovanna Dell’Arco alzò lo sguardo sulle lucine colorate che pendevano davanti all’ingresso posteriore della palestra dell’istituto Ferraris. Quell’anno gli organizzatori avevano fatto le cose in grande e se ne compiacque. Provava sempre una profonda tenerezza per gli studenti che si sarebbero diplomati. Nonostante l’età, infatti, se scavava nel profondo, poteva ancora sentire l’ebbrezza dell’essere una diciottenne con il futuro nelle proprie mani.
Entrò e subito una sua alunna le corse incontro con un vassoio in mano e al centro tre calici infrangibili pieni a metà. Giovanna ne prese uno, ricordandole che l’alcool era vietato. La ragazza le rispose che poteva stare tranquilla, si trattava di un aperitivo analcolico. La docente la ringraziò e raggiunse il gruppetto di colleghe pochi metri più in là, guardandosi intorno curiosa. La palestra quasi non si riconosceva senza la rete di pallavolo e i vari attrezzi per allenarsi. Un lungo tavolo era imbandito di rustici e pizzette da un lato, bibite varie dall’altro. In fondo, la pista da ballo era illuminata da palle giganti che emanavano lucine colorate e vorticavano su loro stesse, creando giochi di luce alternata. Una band, composta da tre studenti del quarto anno, stava suonando un brano rock. Uno di loro, il batterista precisamente, la vide e alzò la bacchetta per salutarla e solo allora Giovanna si rese conto che si trattava di Elia Morales, l’insegnante di spagnolo. Lei rispose al saluto, sorridendo divertita: quel giovane uomo era pieno di risorse. E sorprese.
Dopo la prima partita di pallavolo ce ne erano state altre e l’esperimento sembrava aver alleggerito la convivenza in quella classe. Gli scherzi di cattivo gusto nei confronti di Anita Lentini erano proseguiti, ma di rado e meno offensivi. Capitava che Fabio Morini la prendesse in giro se inciampava nei piedi di un banco – sì, era una ragazza abbastanza goffa – o quando veniva interrogata alla cattedra e le faceva smorfie per distrarla. Adesso, però, la Lentini aveva trovato una specie di amica, Barbara Scala, la quale pareva aver capito la lezione della foto hard e stava facendo di tutto per rimediare all’errore.
Un giorno, Barbie prese le difese della compagna come ormai faceva spesso quando la vedeva in particolare difficoltà, e Fabio le aveva proposto un accordo:
«Se ti metti con me, giuro che la lascio in pace».
Proprio in quel momento era entrata la professoressa Dell’Arco che aveva assistito alla scena e mollato un buffetto sulla testa dell’alunno.
«Mi sa che dobbiamo fare un corso accelerato di galanteria, eh Morini?»
L’intera classe aveva riso, eccetto Barbara che di sottecchi aveva guardato Stefano. “Ah, l’amour”, si ritrovò a pensare Giovanna in quel frangente, sentendosi improvvisamente fuori luogo e vecchia per quelle sciocchezze.…    
«Ehi!» la voce di Elia la distolse dai ricordi.
«Ciao! Allestimento spettacolare, vero?! Quest’anno hanno fatto le cose per bene» disse Giovanna.
«Non lo so, gli altri anni non c’ero. Però sì, è bello» confermò l’altro. Si osservarono per qualche secondo negli occhi, senza dire nulla.
«Professori…» la voce di Fabio Morini risvegliò entrambi da quella specie di torpore.
«C-ciao» balbettò lei, seguendo con lo sguardo l’alunno dai capelli rossi, completamente vestito di nero.
«Ehilà, Morini! E Stefano dove l’hai lasciato?» Gli chiese Elia, meravigliato che non fossero insieme come di routine.
«Non viene, ha avuto un contrattempo» spiegò velocemente Fabio, sembrava scontroso, nervoso.
Elia e Giovanna si guardarono perplessi e lei alzò le spalle: ne sapeva quanto lui.
Proprio in quel momento li oltrepassò un gruppetto di giovanissime studentesse, sicuramente di primo superiore. Avevano l’aria di essere così piccole e indifese. Ingenue, se paragonate alle classi più grandi. Tra queste giovani, la professoressa di letteratura italiana notò Alessia Lentini, la sorella minore di Anita, e la chiamò. La ragazza trotterellò fino a lei, era di una bellezza disarmante, sembrava uscita da uno spot pubblicitario.
«Tua sorella non c’è?»
«No» cinguettò Alessia, sporgendosi in avanti e coprendosi la bocca mentre le parlava direttamente all’orecchio. «Aveva un appuntamento galante» ridacchiò.
«Ah, però! Incrociamo le dita per lei, allora» Giovanna mise il dito medio sull’indice e Alessia la imitò, congedandosi con un leggero inchino e un sorriso al professore di spagnolo. La docente non poté non notare come lo aveva guardato. «È innamorata di te» bevve un piccolo sorso dal bicchiere che ancora teneva in mano.
«Hanno fondato un fan club, non lo sapevi?»
«Davvero?»
«Sì, il Morale’s Fan Club Official» lui allargò il sorriso.
«Mi stai prendendo in giro?!»
«Ti sto prendendo in giro!» Ammise lo spagnolo e risero insieme, muovendosi poi verso il tavolo degli stuzzichini, dal quale egli addentò una pizzetta. «Non ti sembra strano?»
«Cosa?» Chiese Giovanna, mangiando a sua volta una tartina al tonno.
«Stefano Parisi manca e anche Anita Lentini, la quale ha un appuntamento galante…»
«Dici che…?» La professoressa spalancò gli occhi, incredula. «No, quelli come Parisi non escono con le “Anita Lentini”.»
«Ah, no? E con chi escono quelli come Parisi?»
«Con le “Barbara Scala”» così dicendo Giovanna gli indicò la ragazza che ballava al centro della pista, accerchiata da amiche e altrettanti ragazzi che la seguivano rapiti. «Tu sei uno “Stefano Parisi”, ad esempio» continuò l’insegnante di italiano.
«Io sarei uno “Stefano”? Sei incredibile! E sentiamo, perché mai io sarei uno “Stefano”?» Elia abbozzò un sorrisetto indolente.
«Sei giovane, attraente, intelligente e single. Stai aspettando la tua “Barbara”, è evidente!»
Il professore di spagnolo aprì la bocca per controbattere, ma tutto ciò che gli passava per la mente in quell’istante avrebbe compromesso inevitabilmente il rapporto che li legava, fatto di amicizia e rispetto, e non intendeva rovinarlo per una battuta sulla punta della lingua. Ingoiò il rospo e semplicemente la vide allontanarsi quando la chiamarono per la foto annuale con una delle quinte. Lui non era docente di quella classe, quindi rimase dov’era, con in mano il calice di plastica trasparente che Giovanna gli aveva chiesto di tenerle e quella risposta ancora a fior di labbra: “Io, la mia “Barbara” l’ho trovata. E tu?”
 
La panchina dei lampioni innamorati era quasi sempre occupata da qualche turista che si accomodava per scattare una foto ricordo. Per questo motivo, quando Anita Lentini giunse sul luogo dell’appuntamento, preferì mettersi dall’altro lato della famosa panchina e affacciarsi oltre la ringhiera per guardare il Po che scorreva sotto di essa. Il sole era ormai diventato una sfera aranciata che sfumava il cielo e i tetti delle case, così come l’acqua cheta del fiume. Nonostante ci fossero diversi gruppi di persone che passeggiavano per il parco, e numerose coppiette in fila per farsi fare una foto vicino ai lampioni, quasi non si udiva nulla. Anita adorava quel luogo, da bambina era la tappa fissa della domenica pomeriggio con i suoi genitori. Fin quando i turni del padre alla ferrovia non erano aumentati e loro due – Alessia e Anita – non si erano fatte abbastanza grandi da provare quel senso di vergogna a uscire con mamma e papà.
Consultò l’orologio al polso, mancavano ancora dieci minuti al fatidico orario, ossia le venti. Prima di uscire da casa, aveva mandato un messaggio nella chat di Ⱦhunder per dirgli com’era vestita, non era certa che l’avesse letto, benché il suo stato fosse impostato su Online, ma aveva preferito scendere in strada e fare una passeggiata per distendere i nervi e provare a rilassarsi. Soprattutto, temeva che avesse cambiato idea e rinviato l’appuntamento se fosse rimasta qualche minuto di troppo nella propria stanza. Anche se, doveva ammettere che sua sorella aveva fatto una specie di miracolo nell’acconciarla in quel modo. Almeno un pensiero se l’era tolto. Pensò fugacemente alla festa della scuola. Chissà come stava andando, se qualcuno aveva notato la sua assenza… di sicuro no.
Adesso era lì che aspettava da un quarto d’ora almeno, convinta sempre più che lui non si fosse presentato. E se l’avesse vista da lontano e fosse scappato? Forse aveva sbagliato a dirgli che lei sarebbe stata quella con la maglia azzurra e il cinturone bianco. Forse, sarebbe stato meglio non rendersi così riconoscibile. Ora, se a Ⱦhunder non fosse piaciuta, avrebbe fatto dietro front e lei non l’avrebbe mai saputo.
Non ne combinava una giusta, accidenti! Non avrebbe mai dovuto accettare di incontrarlo, ma lui era diventato così insistente nell’ultimo periodo! Avevano fatto anche una scommessa, e Ⱦhunder non era tipo da rimangiarsi la parola, no?
Guardò l’ora: cinque minuti alle otto.
Adesso ne era certa, non si sarebbe presentato, le avrebbe dato buca e lei avrebbe pianto tutte le lacrime che aveva in corpo. Si sarebbero scritti ancora oppure Ⱦhunder avrebbe bloccato il suo contatto in modo che non potesse più inviargli messaggi? E se, invece, lui era già…
«Storm?!»
Ad Anita mancò un battito, forse anche due. La sua voce, era la sua vera voce quella! Lentamente si staccò dal corrimano di ferro battuto per voltarsi indietro. Aveva caricato quel momento di così tanta aspettativa che adesso le pareva una cosa normale guardare Ⱦhunder negli occhi, parlargli, stringerli la mano per presentarsi…
«Ciao, Ⱦhund-» e le parole le si strozzarono in gola. «Ste-Stefano?»
C’era un errore, per forza.
 
 
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