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Autore: AncientDust    29/10/2023    5 recensioni
"Per iniziare, ogni partita necessita che i pezzi vengano disposti sulla scacchiera. I bianchi da un lato, i neri dall’altro. I bianchi muovono per primi."
.
"Spesso si dice che le cose vanno come devono andare. Che seguono un'immateriale volontà superiore. Eppure questa è solo una parte della verità. Una pennellata, un ritocco sporadico nel complesso dipinto dell'universo; un piccolo aggiustamento strategico sulla scacchiera del mondo."
.
Crowley e Aziraphale fanno i conti con le loro scelte, mentre il mondo si prepara al Secondo Avvento.
Tentativo parecchio personale, e decisamente più drammatico, di proseguire la storia da dove si è interrotta, immaginando la trama di un'eventuale terza stagione.
[spoiler seconda stagione / tematiche delicate]
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Aziraphale/Azraphel, Crowley, Nuovo personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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GOOD OMENS

- TERZO ATTO -

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Prima del Principio

- Caduta -

 

Fiamme.

Pozze di fuoco nell’oscurità. Aria incendiata innalzata in colonne.

Un rogo senza fine.

La creatura si trascina. Ali spezzate, piume candide che bruciano.

Una sensazione sconosciuta. Ingiusta.

Dolore.

La creatura si contorce, si allunga, muta.

Prega, senza essere udita.

Ali annerite si ritraggono, lucide squame si tracciano al loro posto. Denti ricurvi crescono fra fauci dilatate in grida impossibili, che si perdono fra molte altre.

La creatura spasima, si avvolge su sé stessa. Muore e rinasce.

Dimentica il suo nome.

Silenzio.

La vista si abitua al buio, rivelando l’Abisso.

Meteore precipitano nel cielo vuoto e rovinano al suolo. Resti dilaniati giacciono nella polvere e da quella si risollevano.

La creatura striscia, avanza fra braci e pietre coperte dalla cenere.

Senza meta. Disperandone una.

Mancanza.

Qualcosa di importante è perduto. Gli è stato portato via.

La creatura lo rivuole indietro, ma non sa cosa cerca. Non sa dove.

Non è rimasto niente.

Caos.

Una furia riemerge dalle profondità, terribile nella sua luce.

Splende, eppure non rischiara. Immense ali pallide spalancate nell’ombra e una corona nera.

Impone la sua autorità. Richiama a sé.

La creatura è accecata. Si ritrae.

Cerca un rifugio che non può trovare.

Paura.

La Luce predica con parole di collera. La terra trema alla sua voce.

Spettri miserabili si riuniscono al suo cospetto.

Venite. Venite a me.

un nuovo Regno è da costruire.

La creatura avvilisce.

Nel pensiero, il suo nuovo nome prende forma. Battesimo dell’Inferno.

Crawly.

 

 

***

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Prologo

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Per iniziare, ogni partita necessita che i pezzi vengano disposti sulla scacchiera. I bianchi da un lato, i neri dall’altro. I bianchi muovono per primi.

Niente di strano fin qui, persino i bambini sanno come funziona.

I pezzi vengono messi in posizione, ognuno nella propria casella, ignari di quello che gli accadrà. Se la mossa successiva sarà buona o meno, se mangeranno o verranno mangiati; tutto ciò che distinguono è il loro piccolo mondo a scacchi e quello che vi succede sopra.

La realtà funziona più o meno allo stesso modo.

Un equilibrio di opposti, in contrasto perpetuo sulla scacchiera del mondo. Condizione necessaria, per quanto spiacevole, per motivi fin troppo complessi per poter essere ben descritti e compresi da chiunque.

Ineffabile, lo descriverebbe qualcuno; con un termine tutto sommato corretto, anche se forse un po’ semplicistico.

La partita in questione, tuttavia, non susciterebbe lo stesso sorprendente effetto senza una curiosa variabile, decisamente non presente nella sua più monotona controparte da tavolo: il libero arbitrio.

È così che tutto prende vita, che il gioco diventa davvero interessante. Che la stasi si anima, permettendo sviluppi inaspettati. Una piccola ingegnosa variabile, che sovverte ogni altra regola e ne crea sempre di nuove. Ancora e ancora.

E così può succedere che i pezzi bianchi e quelli neri si mescolino, che non si schierino nel modo prestabilito, o che non lo facciano affatto. Si può assistere a movimenti normalmente non consentiti, spesso non privi anche di una certa apprezzabile creatività.

A volte spuntano pezzi del tutto nuovi, non previsti, e altri invece cambiano strada facendo. Potrebbe verificarsi qualunque cosa, nel bene o nel male, fuori o dentro le direttive iniziali.

Difficile dire quanto potrebbe durare una partita così. Ore? Millenni? Forse anche in eterno.

Magari con qualche piccolo aiuto.

Certo, tutto questo potrebbe sembrare disordinato, ad un occhio disattento; forse anche inutilmente complesso. In effetti, sarebbe molto più facile e adeguato tendere a un immobile ideale di perfezione formale; a un immutabile ordine universale.

Ma la verità è che nulla che sia veramente vivo può essere semplice e privo di cambiamento. Ogni elemento è indispensabile a questo fine, persino il peggiore, per quanto ciò possa sembrare crudele. E in favore del gioco della realtà, dell’esistenza stessa, tutto deve essere concesso.  

O quasi.

Perciò serve qualcuno che soprintenda la partita; che prepari la scacchiera, posizionando con cura i pezzi, perché dopotutto non può esserci gioco senza giocatore.

 

***

_________________________________

Parte I

 

- Settembre -

 

Crowley sedeva in un angolo del locale.

La tazza di caffè ormai freddo in una mano, lo sguardo perso al di là del vetro.

Osservava le ombre del tardo pomeriggio allungarsi sulla strada e sfumare i propri contorni, mentre le luminarie dei negozi iniziavano ad accendere Soho delle luci colorate della sera.

Gruppi di persone calpestavano l’asfalto avanti e indietro: stanche, allegre, prese dai propri affari, alcune irritate e bercianti al telefono, altre che portavano a passeggio il cane. Qualche auto scorreva pigramente fra i pedoni. Di fronte, all’interno della libreria, un angelo affaccendato sbucava ogni tanto da dietro le ampie finestre, spostando scatoloni e pile di libri nel tepore delle abat-jour.

Crowley ormai aveva imparato quella routine. Quella vita che scorreva tranquilla, con spietata indifferenza, come se niente fosse. Perché in effetti, niente era cambiato, se non per lui. Se non per il fatto che l’angelo nella libreria era quello sbagliato, e lui era l’unico per cui questo aveva importanza.

Si era seduto lì ad osservare, ad aspettare. Per giorni, forse settimane, non avrebbe saputo dirlo con certezza; il tempo ormai si confondeva. Si era appiattito, sospeso nel momento in cui le porte dell’ascensore si erano chiuse davanti ai suoi occhi, senza che potesse impedirlo.

All’inizio, dopo quella mattina infernale, aveva guidato. Era salito sulla Bentley e aveva schiacciato l’acceleratore; la destinazione non era importante. Aveva visto scorrere la città, la periferia, poi le campagne; e dopo, altre città, zone industriali, paesi, colline, boscaglie, scogliere.

Senza mai fermarsi, seguendo semplicemente la strada. Seguendo tutte le strade.

Ma per quanto volesse fuggire lontano, alla fine, senza rendersene conto, si era ritrovato di nuovo a Londra; davanti alla dannata libreria. Un centro di gravità implacabile che continuava a risucchiarlo verso di sé. Un fottuto, odioso, buco nero.

A quel punto aveva deciso di bere.

Era tornato nel suo appartamento a Mayfair, trovandolo abbandonato. A Shax non era mai piaciuto stare sulla terra, e ora non aveva certo più motivo per restare ad abitarci.

Crowley, invece, ne ricordava diversi di motivi, chiusi nel mobile-bar del suo salotto e altrettanti al fresco nella dispensa. E, come immaginava, li aveva ritrovati tutti al loro posto, come quando li aveva lasciati.

Quindi si era buttato su una poltrona e aveva bevuto, provando a non pensare a niente, a dimenticare. Ma non aveva funzionato. Probabilmente, nemmeno tutto l’alcol del pianeta sarebbe riuscito nell’intento.

Allora aveva ceduto alla rabbia. Forse perché era ubriaco, o magari perché non c’era molto altro che potesse fare. Aveva distrutto ogni cosa, una per una. Fino a che di quel maledetto posto, prima vanto del più assoluto ordine, non erano rimasti che pezzi in frantumi sul pavimento di marmo, e qualche stupida pianta a tremare in un angolo.

La vecchia del piano di sotto aveva chiamato la polizia. Per il frastuono avrà pensato ad un’incursione dei ladri, o chissà che altro, e due agenti erano venuti a bussare.

Crowley li aveva rimandati indietro, senza nemmeno aprire la porta d’ingresso. Nelle loro teste vuote, prese forma l’assoluta certezza di aver trovato solo innocui operai a lavoro per una ristrutturazione. Oltre che l’improvvisa e inspiegabile urgenza di tornare a casa, per lucidare con la lingua, e meticolosa attenzione, ogni singola fuga fra le piastrelle del pavimento del bagno.

Di nuovo indisturbato, per un po’ Crowley era rimasto lì, maceria fra le macerie, con la schiena appoggiata a un tramezzo. Una patetica parodia di essere umano e un’imbarazzante esempio di demone; l’avanzo risputato di sé stesso.

Poi quella necessità, quell’attrazione gravitazionale era tornata a catturarlo e aveva iniziato a tirare. Così, aveva infilato la porta dell’appartamento ed era uscito.

Camminando in preda alla persecuzione, senza però riuscire a contrastarla, le sue gambe lo avevano riportato a Soho, alla libreria. Sempre alla dannata libreria. E lì si era messo ad aspettare.

Non era entrato.

Ora che la potestà era cambiata, non avrebbe più potuto neanche volendo, almeno non senza prima essere invitato. Ma, nonostante quella stramba scrivana di ultima classe 1, che ora la presiedeva, fosse abbastanza tonta da poter essere raggirata con relativa semplicità, Crowley non aveva neanche provato a bussare.

Non avrebbe più messo piede lì dentro. No, non lo avrebbe sopportato.

Era entrato invece nel Caffè di fronte e si era seduto. Si era seduto e basta. E così il giorno dopo e quello dopo ancora. Scontento spettatore di un’insignificante spicchio di mondo.

Nel mentre, una speranza sleale gli scavava all’interno della testa, come un tarlo affamato.

Magari, prima o poi, l’angelo avrebbe avuto nostalgia dei suoi libri polverosi, o avrebbe avuto voglia di una crème brûlèe o di quel ristorantino giapponese che gli piaceva tanto, e lui lo avrebbe visto varcare di nuovo la soglia di quell’ascensore.

Lo avrebbe visto. E dopo?

Forse il tarlo doveva aver scavato un po’ troppo a fondo, perché Crowley non aveva alcuna idea di cosa avrebbe fatto se quella remota eventualità si fosse verificata. Probabilmente sarebbe solo rimasto a guardare, da lontano; proprio come aveva sempre fatto. Si erano osservati per seimila anni, lui e l’angelo, ma non si erano mai visti davvero. E ora che sapeva come stavano le cose, non sarebbe riuscito ad avvicinarlo di nuovo.

Per quanto dissimulare fosse sempre stata la sua specialità, qualcosa che da demone aveva dovuto imparare, lo squarcio che gli si era aperto dentro non faceva altro che allargarsi, giorno dopo giorno; doloroso e crudele. E lui cominciava a sentirsi stanco.

Forse avrebbe dovuto lasciar perdere.

Fuori si era quasi fatto buio. Materializzò una banconota da cinque sterline e la lasciò sul tavolino, accanto al caffè che non aveva bevuto. Scivolò fra le sedie ormai vuote del locale, grato del tacito accordo di reciproca reticenza – forse leggermente aiutato da un miracolo – che pareva mantenersi fra lui e la proprietaria. La quale si limitò a fissarlo di sottecchi per un momento, mentre ripuliva il ripiano del bancone, giusto poco prima che lui afferrasse la maniglia dell’ingresso e facesse tintinnare la campanella.

L’aria umida dell’esterno gli riempì il naso, mentre raggiungeva il punto del marciapiede in cui aveva parcheggiato la Bentley.

Dormire. Ecco cosa avrebbe fatto adesso.

Un sonno bello lungo era quello che gli ci voleva. Magari due, trecento anni. Puro, semplice, rilassante oblio; proprio come diceva quel tale, in un libro che aveva sfogliato una volta:

È il sonno, ozio delle anime, oblio dei mali. 2

Crowley sperò che fosse vero.

Guidò a radio spenta e a massima velocità, schiacciando la frustrazione insieme all’acceleratore, su per Regent Street, fino al lussuoso complesso che ospitava i resti del suo appartamento; il viale illuminato da freddi lampioni di design.

Prese le scale di asettico marmo grigio, certo di non incrociare nessuno, e raggiunse il piano. Quando varcò la soglia non si scomodò nemmeno ad accendere la luce. Attraversò il corridoio buio, sentendo cocci e frammenti scricchiolare sotto le suole.

Gli sarebbe bastato un banale miracolo demoniaco per risistemare tutto, ma non voleva farlo. In qualche modo quel caos lo faceva sentire a suo agio. Era la giusta tana in cui ritirarsi, in cui abbandonare i resti di sé stesso.

Miracolò invece una bottiglia di rosso, da un grumo di vetri che incrociò strada facendo, e la scolò tutta d’un fiato, senza sentirne il sapore. Poi sfilò gli occhiali e li lanciò da qualche parte alle sue spalle, entrando in camera.

Anche il letto era distrutto; le piume dei cuscini ricoprivano il pavimento e il materasso sfondato. Piccole parentesi bianche, sparse fra brandelli scuri di quelle che erano state lenzuola di seta.

Crowley strisciò stancamente nell’oscurità che gli apparteneva e cercò una nicchia. Si avviluppò su sé stesso, arrotolandosi fra piume così simili ad altre, ora troppo lontane, e si addormentò sperando nell’oblio.

 

***

_________________________________

 

1 Ho deciso di riferirmi a Muriel al femminile, per comodità e chiarezza di scrittura. Non me ne vogliate.

2 Questo passaggio è della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, canto VIII, reso in un italiano più moderno e  scorrevole per la lettura.

 

NOTE DELL'AUTRICE:

Un saluto e un ringraziamento a chi è giunto qui, e ha letto l’inizio di quello che sarà tendenzialmente un delirio personale.

L’attesa della terza stagione mi sta consumando, perciò ho deciso di cimentarmi anch’io a scriverne la mia versione, per provare a placare me stessa, e forse può far piacere anche a qualcun altro leggere.

So che questo incipit può sembrare caotico, ma giuro che non sarà sempre così.


 

   
 
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