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Autore: Signorina Granger    05/11/2023    6 recensioni
INTERATTIVA || Iscrizioni Chiuse
Chiunque abbia mai messo piede a Beauxbatons ha sentito parlare della sua celebre società studentesca, anche se c’è chi dice che non esista più ormai da decenni. Ogni anno, invece, 10 studenti le cui identità restano ignote ai più vengono scelti per entrare a farne parte, ritrovandosi la strada spianata per occupare un giorno posizioni di prestigio all’interno della società magica. Se qualcuno potrebbe azzardare ad indovinare i nomi dei membri della società lo stesso non si può dire delle loro pratiche, tutt’ora ignote, che sono da sempre oggetto di curiosità e teorie più disparate da parte del resto della scuola: c’è chi pensa che durante le riunioni prendano vita rituali di natura esoterica, chi sostiene che il gruppo lasci frequentemente i confini della scuola per darsi ad opere di vandalismo, chi che questi studenti non siano altro che un gruppo di ricchi snob. Alcuni sostengono che il più grande segreto della società potrebbe essere che i suoi segreti in realtà sono essenzialmente banali, ma nessuno può sapere con certezza quale teoria corrisponda al vero. Eccetto, naturalmente, per i dieci studenti che ogni anno vengono scelti per entrare a farne parte.
Genere: Introspettivo, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Capitolo VI
 

 
Lunedì 31 ottobre
 
 

Nerea varcò la soglia della sala da pranzo gremita di studenti impegnati a fare colazione discutendo con Leticia a proposito della riunione di quella sera e della possibilità di dover scegliere personalmente gli studenti del VI anno da far potenzialmente entrare all’interno della Brigade, zittendosi quando si trovò pericolosamente a portata d’orecchi altrui e il rumoroso vociare di tantissimi studenti riuniti nella stessa stanza la investì.
A Beauxbatons era sempre piuttosto semplice riconoscere il lunedì mattina rispetto a tutti gli altri giorni della settimana: di lunedì sembrava che tutti fossero un po’ più spenti rispetto alle altre mattine, chi ancora assonnato, chi pentito di essersi alzato dal letto, chi rimpiangendo il weekend o chi ancora impegnato a ripassare o a finire di portare a termine dei compiti in vista della prima giornata di lezioni di una lunga settimana. Tuttavia se gran parte dei presenti non si sarebbe potuta definire di ottimo umore quella con cui Nerea e Leticia si scontrarono una volta raggiunto il tavolo occupato da alcuni dei loro compagni era quasi vera e propria disperazione: Milad, Icaro e Gisèle sedevano in religioso silenzio, tutti e tre chini su quaderni e pesanti quanto ingombranti dizionari aperti sul tavolo, quasi ignorando la colazione e circondati da cumoli di penne, matite, fogli strappati e accartocciati, post-it annotati e abbandonati a loro stessi e, nel caso di Gisèle, fazzolettini e una scatola di kleenex.
“Ciao ragazzi! State traducendo?”
Nerea andò ad occupare la sedia libera accanto ad Icaro con un sorriso allegro che nessuno dei presenti ricambiò: tutto ciò che l’italiana ottenne fu una sorta di mugugno d’assenso collettivo mentre Milad si massaggiava le tempie tenendo gli occhi chiusi, forse cercando di isolarsi mentalmente e di cercare un po’ di calma per non farsi risucchiare dalla disperazione, Icaro si teneva la fronte fissando con sguardo spento la traduzione monca che aveva trascritto sul quaderno di latino e Gisèle si soffiava rumorosamente il naso con l’ennesimo fazzolettino: ne aveva già consumati un numero indefinito da che si era tolta il piumino di dosso e alzata dal letto un’ora prima.
“Gisèle, sei malata?”, domandò Nerea guardando dispiaciuta l’amica mentre Leticia, come lei felicemente esonerata dai compiti di latino, sedeva accanto a Milad lasciando che una delle brocche incantante le riempisse la tazza di caffè aromatizzato al caramello fumante. La francese annuì, il naso arrossato e gli occhi grigi quasi lucidi mentre raddrizzava la sedia per tornare a concentrarsi sulla versione che stava facendo disperare lei, Milad e Icaro dalla mattina precedente.
“Ho il raffreddore.”
“Idea splendida andare a correre sotto la pioggia.”, commentò Icaro gettando una pigra occhiata di rimprovero in direzione della compagna, ben attento a non starle troppo vicino per paura di ammalarsi a sua volta. Le aveva detto la stessa cosa due giorni prima, quando aveva varcato la soglia della Salle Comune grondando acqua sul pavimento, e come due giorni prima la francese lo zittò immediatamente con voce nasale condita da un’occhiata truce:
“Orsini, stai zitto o ti mitraglio con i miei fazzolettini.”
“Chi state traducendo?” Leticia, di ottimo umore rispetto alle tre vittime della traduzione, tagliò un croissant aprendolo a metà per spalmarci una generosa dose di burro all’interno mentre Nerea versava del latte nel caffè e i primi stormi di gufi iniziavano ad entrare nella sala attraverso le finestre aperte, planando sopra le teste dei presenti alla ricerca dei destinatari dei pacchi o delle lettere che portavano con sé.
“Tacito.” Milad, Gisèle e Icaro risposero insieme e con lo stesso tono lugubre, tutti e tre con gli sguardi miseramente chini sui dizionari mentre Nerea addentava un croissant alla nocciola sentendosi felice più che mai di aver abbandonato il corso di lingue ben prima dell’ultimo anno: l’idea di affrontare una versione ai M.A.G.O. la spaventava più un’Acromantula. Al sentir pronunciare quel nome la pena che le due Bellefuille provavano nei confronti dei compagni non poté che aumentare a dismisura, e Nerea gettò un’occhiata mesta alla compagna prima di mormorare qualcosa che nessuno dei tre diretti interessati udì, tutti con la mente altrove:
Poverini.”
 
“Non è possibile. Non è possibile che io non riesca a finire una stramaledetta versione!” Icaro, vicinissimo a gettare per aria dizionario, quaderno e tavolo, cancellò l’ultima riga che aveva scritto con tanto nervosismo da quasi strappare la pagina mentre Milad, davanti a lui, si strofinava gli occhi mormorando che la versione non aveva senso e che doveva per forza esserci stato un qualche errore di stampa nel manuale. O forse, azzardò mentre tornava a guardare quanto scritto fino a quel momento, frutto di ore di lavoro, lacrime e discussioni con Icaro e Gisèle, Publio Cornelio Tacito aveva ben pensato di darsi al fumo di oppiacei mentre scriveva le righe che avevano davanti.
“Certo che Nerone poteva anche risparmiarsi di ammazzare sua madre, così ora non avremmo questa roba da tradurre!”, sbottò infastidita Gisèle con voce nasale appena prima di fare per starnutire un’altra volta, portando Icaro ad affrettarsi a ritrarre allarmato il suo quaderno mentre Milad, impassibile, si limitava a spostarsi leggermente sulla sedia in modo da allontanarsi di qualche centimetro dalla compagna restando in educato silenzio:
“Non sul quaderno!”
Dopo sei anni Nerea era ormai perfettamente abituata ai rumorosissimi starnuti della sua migliore amica, e continuò a sorseggiare il suo caffè senza batter ciglio mentre alcuni studenti seduti dietro di lei trasalivano spaventati. Gisèle, che mal sopportava il suo modo di starnutire – da sempre fonte di derisione da parte di suo cugino – senza però poter fare niente a riguardo, si accasciò esasperata sullo schienale della sedia bianca afferrando la scatola di kleenex che aveva lasciato sul tavolo, sospirando e mormorando qualcosa a proposito di quanto detestasse il lunedì mattina.

“Forse ci sono.”
“Davvero?!”  Icaro sollevò il capo guardando Milad con occhi pieni di stupore e meraviglia, quasi pronto ad alzarsi e fare il giro del tavolo per baciarlo tanta era la gioia che le sue parole gli trasmisero. Tutta la felicità provata si rivelò tuttavia solo una misera e momentanea illusione quando il belga, gli occhi scuri chini sulle pagine del dizionario aperto, aggrottò le sopracciglia e scosse la testa, rassegnato:
“… No. Scherzavo. Non regge il dativo.”
Icaro era ormai sul punto di strapparsi i bulbi oculari quando Gisèle, tirando su col naso, sollevò il proprio quaderno a spirale mentre osservava sconsolata le ultime righe che aveva scritto:
“Non mi sembra che la mia abbia molto senso… “Aniceto circondò gli uomini con un cordone, quindi sfondata la villa fece trascinare via tutte le porte che gli si facevano incontro finchè giunse davanti al letto della porta della stanza…”…”
“Ma in che lingua hai tradotto?!”
Ma io che ne so, non capisco niente, voglio dormire!” Gisèle gemette affranta mentre gettava malamente il quaderno sul tavolo, esasperata e stanca di verbi e casi latini mentre Milad, alla sua destra, fissava accigliato quanto aveva scritto:
“Credo che sia “Aniceto circondò la villa con un cordone di uomini…”
Ma esiste un cordone di uomini?”
“Chiedilo a Tacito Gisèle, io mi sono rotto.”
Nerea aveva cambiato sedia in modo da trovarsi accanto a Leticia mentre seguiva l’acceso scambio di battute in corso tra i tre Ombrelune, e smise di scrutarli pensosa per rivolgersi all’amica e chiederle a bassa voce se stesse capendo qualcosa di quanto si stavano dicendo. La spagnola si limitò ad un laconico quanto esaustivo cenno di diniego col capo e Nerea si sentì un po’ più rincuorata e meno sola.
 
“Certo che Tacito un hobby se lo poteva anche trovare…” Borbottò Milad mentre scriveva talmente in fretta da non essere del tutto sicuro di poter usare la mano destra per tutta la prima ora di lezione, gli occhi incollati alle righe del quaderno mentre Icaro, davanti a lui, riprendeva a dettare parlando a macchinetta:
“Ci mancano due righe e abbiamo dieci minuti, forza. I sicari circondarono il letto e il trierarca…”
“Ma esiste almeno questa parola?” Gisèle sollevò brevemente il capo per gettare un’occhiata perplessa ad Icaro, che annuì e continuò a scrivere a raffica, talmente male a causa della fretta che più tardi avrebbe faticato a decifrare la sua stessa grafia, deciso a non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di dover sfogliare ancora una volta il dizionario in cerca di una diversa traduzione.
“Lo decido io che esiste.”
“Icaro, Phoenix non è con te?”
Quando udì una voce fin troppo familiare rivolgergli la parola Icaro fu costretto a smettere di scrivere per alzare lo sguardo e voltarsi, ritrovandosi ad osservare i lineamenti dolci e il viso pallido di una delle sue due sorelle minori, che lo stava guardando in attesa di una risposta e visibilmente dispiaciuta per l’assenza del suo migliore amico.
“Clelia, sto litigando con Tacito e ho otto minuti per finire la versione più merdosa della mia vita, non ho tempo per i tuoi amoretti adolescenziali.” Icaro tornò rapidamente a dare le spalle alla sorella e a scrivere dopo averle rivolto un rapido cenno scocciato con la mano sinistra, come a volerla invitare a lasciarlo in pace mentre la quindicenne, offesa, non tardava a replicare scocciata in italiano:
“Scusa, tu quanti hai, quaranta? Bene, vado a sedermi con Diego, stronzetto che non sei altro.”
Dopo aver gettato un’ultima occhiata torva al fratello maggiore – che nemmeno si degnò di risponderle – Clelia girò sui tacchi e si allontanò in cerca del cugino, per affetto e per la quasi assoluta probabilità di trovarlo in compagnia di Phoenix: di norma era in compagnia di Diego che lo si poteva trovare se non lo si vedeva insieme a suo fratello.
Nerea, che a differenza di Milad, Gisèle e Leticia aveva potuto seguire il breve scambio di battute comprendendone ogni parola, guardò la Papillonlisse allontanarsi in mezzo ai tavoli e alle sedie prima di gettare un’occhiata di sbieco ad Icaro, un sopracciglio inarcato a conferire un’aria di rimprovero al suo bel viso:
“Certo che non sei stato molto carino con tua sorella.”
Traduci Tacito e poi ne riparliamo. Allora, tra una riga Agrippina muore e abbiamo finito.”
Le parole di Icaro rincuorarono Gisèle e le strapparono il primo sorriso della giornata: la francese esultò mentre Milad scrutava critico e quasi schifato lo stato penoso in cui versava la sua tradizione, piena di cancellature e scarabocchi: non aveva mai presentato un lavoro tanto impreciso agli occhi di un insegnante in tutta la sua vita, tanto che si ripromise di strappare la pagina e ricopiarla al cambio dell’ora.
“Mi dispiace per lei, ma era ora!”

 
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Scorgere Phoenix seduto da solo ad un tavolo e con un libro aperto davanti non fu certo una sorpresa per Diego, che non appena ebbe individuato l’amico dopo aver varcato la soglia della sala da pranzo – impresa che ormai gli risultava semplicissima, gli bastava solcare la sala cercando un ragazzo con folti capelli scuri, la cravatta annodata male e quasi sicura seduto da solo, o al massimo vicino a suo cugino – non esitò a raggiungerlo per occupare la sedia accanto alla sua.
“Ciao Nick.” Diego non aveva più bisogno di chiedere a Phoenix il permesso di sederglisi accanto, pertanto strinse lo schienale della sedia per spostarla e mettersi seduto non appena si fu fermato davanti al tavolo, cosa che probabilmente la maggior parte dei loro compagni non si sarebbe neanche sognato di fare.
“Ciao Diego. È appena passata tua cugina, mi è sembrata poco contenta di non trovarti.”
“Clelia?”
Phoenix annuì mentre Diego si metteva comodo sulla sedia, strappando un sorrisino quasi impercettibile sulle labbra dell’italiano: era piuttosto certo che sua cugina si fosse rammaricata di non trovarlo seduto al tavolo solo per non aver avuto la scusa perfetta per potersi sedere insieme a lui e al suo amico, ma si guardò bene dal fare commenti per evitare di tradire la cugina e si affrettò a cambiare argomento:
“Cosa stai leggendo?”
Phoenix non rispose, limitandosi a sollevare il libro dalla tovaglia candida per ruotarlo sempre tenendo il segno con l’indice, mostrando brevemente la copertina dell’edizione inglese di La valle dell’Eden all’amico prima di tornare a leggere, una tazza di caffè nero vuota davanti e nessuna traccia di residui di cibo in grado di suggerire che avesse effettivamente mangiato qualcosa.
“Io dovrei andare avanti con lo Zibaldone, ma mi viene voglia di trafiggermi con la forchetta non appena lo apro.” Diego scosse la testa sconsolato mentre si riempiva a sua volta la tazza di caffè mantenuto caldo dalle brocche incantate disposte su ogni tavolo, sorridendo quando sentì l’amico dichiarare che avrebbe preferito  fare il cameriere personale di Icaro per una settimana piuttosto che leggere “le seghe mentali di Leopardi”.
“A proposito, dov’è Icaro?”
“Come puoi appurare dall’assenza di un acceso aroma di vanità e supponenza nell’aria non è qui. Se ne sta da qualche parte con Gisèle e Milad a sbattere la testa contro il latino. In poche parole perde tempo inutilmente.”
“In famiglia la pensano diversamente.” Un sorriso mite incurvò le labbra di Diego mentre il ragazzo si serviva un caldo e profumato croissant al miele sul piatto, riuscendo quasi ad immaginare visivamente i tic nervosi che avrebbero colpito un’elevatissima percentuale della famiglia sua e di Icaro all’udire simili parole. Che Phoenix e la sua naturale propensione a dire sempre ciò che pensava senza veli non brillassero di simpatia agli occhi dei familiari non aveva sorpreso lui tanto quanto non aveva mai sorpreso Icaro.
“Io penso che se una lingua è defunta un motivo ci dev’essere. Invece ci fanno studiare quella ma non degli americani morti solo qualche decennio fa che hanno segnato la storia letteraria recente, mi sembra logico.”
Sotto una certa luce il ragionamento di Phoenix non faceva una grinza, e sapendo bene quanto elevato fosse il risentimento provato dall’amico nei confronti del programma di letteratura, che escludeva tutti i suoi autori prediletti, da Melville fino ad Hemingway, Salinger e Steinbeck, Diego si guardò bene dal controbattere. Venne invece preso in contropiede da un suono improvviso che lo fece voltare sulla sedia, gli occhi azzurri pronti a sorvolare la sala alla ricerca della fonte e la fronte aggrottata dalla perplessità:
“Cos’è stato?”
“Gisèle Delacroix che starnutisce.”
Nonostante fosse lunedì mattina e nonostante andasse molto fiero del suo celebre quanto perenne cattivo umore persino Phoenix si concesse un quasi impercettibile accenno di sorriso mentre tornava a dedicarsi alla lettura, memore delle numerose occasioni in cui quegli starnuti avevano turbato la sua quiete a lezione dandogli la perfetta scusa per sfottere la compagna di classe.

 
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Lucinda e Daphné avevano lasciato la sala da pranzo in anticipo rispetto alla maggior parte dei loro compagni per tornare nel loro dormitorio e portare a Maëlle, che quel mattino era rimasta a letto con la febbre, caffè e croissant. Dopo aver appurato che la sua amica non stava poi così male – aveva trovato la forza necessaria per portarsi il computer sul letto e dedicarsi al binge watching insieme a Joey, il suo gatto – Daphné aveva recuperato la custodia del suo flauto lasciata sul letto, promettendole di tornare a farle visita appena terminata la lezione mentre Lucinda ne approfittava per lasciare qualche dolce carezza sul lucente piumaggio nero che ricopriva la testa di Pavarotti.
“Non ho mai visto qualcuno con la febbre avere così fame.”, ammise Lucinda divertita e un po’ stranita al contempo mentre si chiudeva la porta d’ingresso lilla della Salle Comune alle spalle, diretta insieme a Daphné verso una delle quattro torri del castello per la loro prima lezione della settimana, nonché la prediletta di entrambe.
“Maëlle quando non mangia sì che diventa difficile da trattare, meglio provvedere a portarle qualcosa di frequente. Dopo lezione tornerò a vedere come sta, poverina.”
Daphné, che ormai molto tempo prima aveva imparato a non lasciare mai che la sua migliore amica restasse senza mangiare per un lasso di tempo eccessivamente lungo, scosse il capo mentre s’incamminava lungo il corridoio deserto e pieno di luce grazie alle alte finestre ad arco che si affacciavano sul lago. I passi suoi e di Lucinda echeggiarono sul pavimento di marmo, talmente lucido che avrebbero potuto usarlo per specchiarsi, mischiandosi col vociare lontano proveniente dalla sala da pranzo ancora piena mentre si dirigevano verso le scale vuote, la prima munita della custodia del suo flauto traverso e di un fascio di spartiti molto spesso e la seconda impegnata a tormentarsi i lacci della camicia azzurra che avrebbe dovuto tenere legati in un fiocco che, a differenza dell’amica, le usciva grazioso molto di rado.
“Che cosa pensi che ci farà preparare oggi Corradi?”
“Spero non l’ouverture di Guillaume Tell(1).”, ammise la francese esalando un sospiro mentre insieme iniziavano a salire le scale “Non mi riesce ancora granché bene.”
 
Daphné e Lucinda erano state le prime ad arrivare in cima alla torre, e mentre la prima sistemava gli spartiti sul leggio davanti alla sedia che occupava tutte le settimane la seconda ne aveva approfittato per sedersi momentaneamente vicino a lei in attesa che insegnante e compagni si presentassero.
 Corradi era arrivato poco dopo, e aveva rapidamente gettato Daphné in un vortice di sconforto quando aveva annunciato che avrebbero iniziato esattamente dal brano sul quale si sentiva meno sicura di tutto il repertorio del mese. Lucinda, mentre l’amica sfogliava disperata gli spartiti alla ricerca di quello giusto, aveva invece gongolato sulla sedia al sentir pronunciare, tra ciò che avrebbero provato quel giorno, dei brani di una delle sue opere predilette, il Barbiere di Siviglia.
“Lo sapevo che avremmo iniziato da questo, dovevo ripassarlo meglio ieri!” gemette la francese mentre raddrizzava lo spartito pieno di annotazioni e segni a matita e l’amica faceva dondolare debolmente la gamba sinistra accavallata sulla destra allargando le labbra in un sorrisetto divertito nel sporgersi in avanti per indicare il foglio di carta:
“Ma come, non sei contenta? Strano, non hai neanche disegnato cuoricini sullo spartito!” Lucinda sfiorò il titolo dell’opera con l’indice, ridacchiando quando l’amica le scacciò la mano gettandole un’occhiata torva, le guance che le si imporporavano rapidamente: non che il pensiero non l’avesse minimamente sfiorata, ma l’aveva ritenuto un comportamento poco saggio trattandosi di un nome non propriamente diffuso all’interno della scuola e di un foglio di carta che sarebbe potuto finire facilmente sotto gli occhi degli altri componenti dell’orchestra. O peggio ancora dell’insegnante.
Piantala. Il titolo di disegnatrice di cuoricini lo lascio volentieri a te, il tuo annuario è pieno.”
Amo l’amore.”
“Io amo solo due cose, la musica e Duchess. Beh, anche la cancelleria. E gli éclair(2).”
“Beh son già quattro, facciamo cinque e aggiungiamo Guillaume?”
“Parla piano, qui c’è un’acustica ottima!”


Dante aveva capito molto rapidamente di detestare la calca che si creava sulle scale in prossimità dell’inizio dell’orario delle lezioni, in particolare quando si trattava di salire quella lunghissima, ricurva e stretta che conduceva in cima alla torre. Aveva imparato in fretta a lasciare la sala da pranzo con qualche minuto in anticipo in vista della prima lezione della giornata, e ogni settimana varcava la soglia della sala circolare dove si tenevano le prove trovandola ancora quasi deserta.
Quel giorno non fece eccezione, e quando spalancò la pesante porta di legno ricca di intarsi floreali sui bordi e i suoi occhi scuri attraversarono la sala il suo sguardo indugiò solamente sulle esili silhouette di due sue compagne di Casa, già sedute e impegnate a chiacchierare.
“Guarda, c’è la tua nuova cotta.” Alla vista di Dante in piedi sulla soglia – la porta era vecchia e non molto alta, e ci passava per un soffio senza andare a sbattere – Daphné si stampò un sorriso gentile sulle labbra e levò una mano per indirizzargli un lieve cenno di saluto, parlando quasi senza muovere le labbra e procurandosi un’occhiata di sbieco da parte dell’amica:
“Che ne sai che mi piace?”
“Ti conosco da sei anni, furbona!”
“Taci che viene verso di noi!” Anche Lucinda si stampò un sorriso sulle labbra e sferrò un lieve calcio sulla gamba dell’amica mentre dopo essersi chiuso la porta alle spalle e aver salutato l’insegnante Dante puntava dritto verso di loro per la prima volta da quando era entrato a far parte dell’orchestra: di solito andava dritto a sedersi al suo posto senza rivolgere la parola a nessuno.
Si era appena fermato insieme al suo sassofono accanto alla fila di sedie davanti a quelle dei fluati occupate da Daphné e Lucinda, destinate alle viole quando la sala si sarebbe riempita, quando le due levarono le voci parlando all’unisono:
“Ciao Dante!”
Il ragazzo indugiò accanto alle sedie vuote rivolte verso il leggio di Corradi e le finestre dalle quali si potevano scorgere il roseto della scuola e il labirinto, disposte in modo da creare un enorme ventaglio sulle mattonelle di pietra. Il saluto sincrono delle due compagne lo stranì un poco, portandolo a guardarle di rimando inarcando perplesso un sopracciglio prima di decidere di soprassedere e ricambiare:
“… Ciao. Che cosa si suona oggi, lo ha già detto?”
Guillaume Tell.”, mormorò Daphné con tono lacrimoso chinando lo sguardo sullo spartito mentre Lucinda, al contrario, sorrideva allegra stringendosi il ginocchio con entrambe le mani:
“E il Barbiere di Siviglia. Di solito se c’è tempo alla fine ci fa fare anche qualcosa di più moderno.”
“Lo spero.” Ammise il ragazzo abbozzando un accenno di sorriso speranzoso con gli angoli delle labbra: era pronto a dare personalmente il tormento all’insegnante fino a quando non gli avrebbe fatto suonare Duke Ellington e Charlie Parker.
“Vado a chiedergli su quale atto si vuole concentrare oggi, così mi studio i brani di Rosina mentre voi suonate.” Lucinda si alzò e senza perdere il suo sorriso allegro superò Dante per raggiungere la cattedra di Corradi e sfoderare tutta la ruffianaggine di cui era capace per potersi esibire nei suoi brani preferiti. Il ragazzo invece rimase in piedi davanti a Daphné, indicando lo spartito mentre la ragazza tratteneva faticosamente l’impulso di iniziare a mordicchiarsi le unghie dipinte con un delicato rosa antico.

“Come mai ti spaventa così tanto questo… Guillaume Tell?
“Guillaume.” Daphné lo corresse sulla pronuncia del nome quasi senza volerlo, pentendosene un poco quando vide chiaramente lo sguardo del compagno di Casa rabbuiarsi:
“Sì, questo. È un nome difficile.”
“Immagino.” Daphné gli sorrise comprensiva e Dante provò un sincero moto di gratitudine nei suoi confronti per non averlo deriso o non aver palesato il minimo cenno di scherno anche solo con lo sguardo. La ragazza si limitò a prendere lo spartito e a capovolgerlo mentre glielo porgeva, mostrandogli le interminabili file di pentagrammi pieni di scarabocchi – forse anche precedentemente bagnati da qualche lacrima –.
“Ah. Capisco. Arriva il momento in cui ti senti come se avessi corso la maratona ad alta quota, vero?”  Dante restituì lo spartito a Daphné e lo sguardo cristallino della ragazza si illuminò visibilmente all’udire le sue parole, riprendendo il foglio mentre annuiva sorridendo al compagno come se fosse entusiasta di aver trovato qualcuno in grado di capire il suo punto di vista:
“Sì! Nessuna delle mie amiche suona a fiato, nessuno capisce mai le mie lamentele.”
“Gli strumenti a fiato sono più difficili.” Dante fece spallucce, infilandosi le mani in tasca mentre Lucinda, alle sue spalle, procedeva nella sua opera di arruffianamento implorando e assumendo la stessa aria da cucciolo bastonato che sfoderava quando i suoi genitori la rimproveravano.
“Sono d’accordo. Ma non dirlo mai a Maëlle.” Daphné sorrise mentre riposizionava lo spartito sul leggio e Dante annuì, certo di doverle dare ascolto anche da quel poco che aveva potuto apprendere sulla compagna di Casa.
“Non lo farò.”
“Ha funzionato!” Lucinda fece ritorno dai due compagni mentre la porta della sala si apriva e altri studenti fluivano all’interno della sala insieme ad un lieve chiacchiericcio, sorridendo compiaciuta mentre si esibiva in una piroetta che fece ondeggiare la gonna azzurra della divisa come una ruota.
“Suoniamo la cavatina(3) di Rosina del primo atto.”
Mentre Dante annuiva fingendo di sapere di cosa si stesse parlando e Lucinda incrociava le braccia esili al petto con aria soddisfatta Daphné guardò l’amica riprendendo a sfogliare i suoi spartiti alla ricerca del brano in questione scuotendo debolmente il capo, incredula:
“Insegnami come fai.”


 
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Quando il suono della campanella – magicamente amplificata in quell’area del castello per sovrastare quello degli strumenti e di conseguenza resa quasi assordante – aveva segnato il termine dell’ora di lezione di musica Lucinda e Daphnè avevano lasciato la Torre Nord insieme, salutandosi e separandosi momentaneamente una volta giunte alla base della lunga scala ricurva che conduceva alla sala dove provavano tutte le settimane mentre attorno a loro i compagni si disperdevano in un fitto chiacchiericcio, ciascuno diretto in angoli diversi del castello in base al proprio orario.
“Vado in Biblioteca a studiare, ci vediamo a pranzo o mi raggiungi quando hai finito?”
Alla domanda dell’amica, che le sorrise mentre si sistemava la custodia del suo flauto sottobraccio, Lucinda annuì con un tiepido sospiro, poco entusiasta all’idea di doversi recare alla lezione successiva da sola, senza la consueta compagnia di Maëlle:
“Ti raggiungo, devo ancora finire i compiti per stasera di Astronomie.”
“Allora ti tengo un posto, a dopo.”  Daphnè salutò l’amica scoccandole un bacio poggiandosi quattro dita unite della mano destra sulle labbra prima di voltarsi e dirigersi in direzione opposta rispetto a quella di Lucinda, che dopo aver ricambiato il saluto girò sui tacchi per imboccare lo stretto arco che si apriva nella parete esattamente al di sotto delle scale che conducevano alla torre e che permetteva di accedere ad una seconda rampa di scale a chiocciola che tuttavia scendeva verso i piani inferiori, stretta e scomoda quanto rapida per raggiungere le aule senza patire la calca che al cambio dell’ora si creava per i corridoi e per le scale principali del castello. Ormai perfettamente abituata a quei ripidi gradini di pietra che tutte le settimane scendeva chiacchierando insieme a Maëlle Lucinda li scese rapida uno ad uno canticchiando a mezza voce mentre la borsa le dondolava contro il fianco ad ogni passo e i tacchi delle scarpe producevano un discreto baccano all’interno della galleria altrimenti silenziosissima e che si faceva sempre più buia man mano che si scendeva in profondità.
Sceso l’ultimo gradino Lucinda si trovò di fronte ad una porta alta e stretta illuminata dalla luce bluastra delle fiamme che ardevano su una torcia appesa alla parete di pietra accanto, e la ragazza non tardò ad aprirla dopo averne abbassato la fredda maniglia di bronzo, irrompendo così nel pieno di uno degli ampi corridoi del primo piano in quel momento gremito di studenti in movimento. Nel spalancare un dipinto ad altezza naturale la cui pesante e spessa cornice dorata dava l’impressione di essere semplicemente appoggiata al muro Lucinda quasi rischiò di colpire in pieno viso un inconsapevole studente del primo anno, che trasalì e si scostò appena in tempo per evitare di trascorrere il resto della mattinata in Infermeria e con il naso sanguinante.
Lucinda al contrario mise piede fuori dalla galleria con tutta la nonchalance del mondo, richiudendosi il dipinto alle spalle mentre rivolgeva al ragazzino che la guardava allibito un sorriso allegro:
“Oh, ti chiedo scusa. Ti consiglio di stare lontano dai quadri appoggiati per terra da queste parti. Ciao Jeanne(4)!”
Dopo aver salutato vivacemente la donna in armatura ritratta nel dipinto, che ricambiò agitando l’asta della bandiera che teneva in spalla, Lucinda si diresse in tutta calma verso l’aula di Défense contre les forces du Mal, appurando con una certa soddisfazione di essere stata la prima ad arrivare quando giunta a destinazione si affacciò in una stanza ancora completamente deserta.
La giovane strega aveva già preso posto da un paio di minuti – felice di poter scegliere il suo banco con la massima libertà e puntando dritta alla penultima fila, per nulla intenzionata a sedersi dritta davanti all’insegnante – e stava sfogliando la sua agenda viola controllando tetra la quantità di compiti che l’aspettavano nel pomeriggio quando Dante raggiunse la porta spalancata dell’aula, gettandovi una rapida occhiata all’interno e strabuzzando leggermente gli occhi a mandorla quando individuò la portoghese: come aveva fatto ad arrivare così in anticipo se fino a poco prima si trovava, come lui, in cima alla Torre Nord?
“Ma… Quando sei arrivata? Eri di sopra come me cinque minuti fa.”
“Scorciatoia.” Lucinda gli sorrise ricordando a Dante di non aver ancora mai chiesto a Nerea di dargli una lezione sui vari passaggi segreti all’interno della scuola, e si ripromise di rimediare al più presto mentre indicava il banco rimasto vuoto accanto alla compagna:
“Posso sedermi qui se Maëlle non viene?”
Lucinda annuì senza che il suo sorriso vacillasse, felice di avere un compagno di banco e di non dover restare da sola per tutta la durata della lezione successiva.
Finì tuttavia col pentirsi parzialmente della decisione presa più o meno mezz’ora dopo, quando si vide costretta ad esercitarsi con gli incantesimi non verbali insieme a Dante, che si rivelò essere nettamente più abile di lei in quella pratica e che quindi contribuì a rendere ancora più penose le sue difficoltà.
“Non ci riesco! Perché non ci riesco?!”, gemette aspramente la giovane strega mentre si tratteneva dal picchiettare infastidita la bacchetta contro il banco e rischiare così di incenerirlo con un eccesso di scintille involontarie e il compagno di esercizi le stava in piedi davanti in placida attesa da ormai diversi minuti.
“Ti devi solo concentrare.” Dante, che aveva già avuto modo di imparare l’anno prima a Mahoutokoro, si strinse debolmente nelle spalle mentre teneva la bacchetta sollevata molto meno del dovuto e puntata pigramente contro Lucinda, pronto a difendersi da una fattura che però stava stentando a venirgli lanciata contro dalla compagna di classe. La portoghese per tutta risposta gettò un’occhiata torva al compagno mentre agitava infastidita la bacchetta particolarmente scura, realizzata con l’ebano, sbottando seccata mentre l’insegnante riprendeva aspramente i compagni che baravano mormoravano le formule degli incantesimi a bassa voce:
“Ma davvero? Tu pensa, e io che stavo contando le pecore!”
“Se ci riesco io che devo tradurre gli incantesimi dal cinese al latino nella mia testa durante ogni lezione di ogni giornata puoi farlo anche tu.”
“Voi non li dite in latino?”
“No, mia madre mi ha costretto a impararmi le formule occidentali prima dell’inizio dell’anno, in Italia. Quindi se per caso dovessi confondermi e trasformarti in una presina invece di pietrificarti, o per colpa del mio accento non proprio ottimo, saprai perché.”
Di nuovo Dante fece spallucce come se l’avesse appena informata di un’inezia insignificante, ma Lucinda non si trovò dello stesso avviso e spalancò inorridita gli occhi verdi, per nulla intenzionata a diventare un complemento d’arredo o un utensile da cucina anche solo per una manciata di minuti.
“Ora sì che sono rincuorata. Per altro, dovresti davvero lavorarci, sull’accento.”
Questa volta fu suo il turno di sorridere, divertita, e di Dante quello di rabbuiarsi e guardarla torvo prima di sollevare la bacchetta e lanciarle in silenzio un incantesimo che fortunatamente Lucinda ebbe la prontezza di riflessi di parare.
“Ehi! Certo che sei davvero permaloso… Mi stavo per trasformare in una teiera?”
Lucinda abbassò la bacchetta solo di un paio di centimetri, decisa a non farsi prendere in contropiede, mentre Dante allargava appena appena le labbra in un sorriso compiaciuto:
“È questo il bello degli incantesimi non verbali. Non lo puoi sapere.”
Non appena sarebbe stata finalmente in grado di padroneggiare a dovere quegli incantesimi, si disse Lucinda mentre cercava di riprovarci, avrebbe fatto diventare interamente viola la divisa di Dante. E si ripromise di farlo nel momento e nel luogo meno opportuni e più affollati possibile, così da impedirgli di poter addossare la colpa a lei.

 
divisore

 
Phoenix Anastasakis avrebbe preferito trascorrere il tempo che intercorreva tra il pranzo e la sua lezione successiva del pomeriggio sprofondando nella lettura, magari isolandosi nella sua stanza o in un angolo della Salle Comune, a quell’ora spesso poco frequentata. Con suo gran disappunto era stato invece sì trascinato nella sala racchiusa dalle ormai familiari pareti celesti arricchite da dipinti ad olio ed eleganti specchi dalle pesanti cornici d’oro, ma anziché potersi dedicare ad uno dei suoi libri Phoenix sedeva davanti ad un tavolino quadrato un poco traballante con il libro di storia e uno dei suoi quaderni a spirale, tutti con la stessa copertina nera, aperti davanti a sé. Mentre riempiva la penultima riga della pagina fatta di carta riciclata sbuffando sommessamente e una matita nera stretta nella mano sinistra Icaro, che gli sedeva di fronte tamburellando impaziente le dita sul tavolo, gli gettò un’occhiata scettica:
“E allora, quanto ci vuole? Stai scrivendo una nuova novella del Decameron?”
“Ti prego, ricordami esattamente il momento in cui ti ho chiesto di aiutarmi con i compiti, così posso prendere il muro a testate.” Phoenix posò la matita sul tavolo, che si mosse un po’ più del necessario mentre il greco ruotava il quaderno per porlo in direzione dell’amico e spingerlo verso di lui, per nulla interessato al suo giudizio ma deciso a porre fine a quella tortura il più rapidamente possibile.
“Non me l’hai mai chiesto, mi sono autoproclamato tuo tutor per impedirti di cazzeggiare troppo. Vediamo che hai scritto.” Icaro appoggiò tutte e cinque le dita della mano destra sulla pagina aperta per trascinare verso di sé il quaderno, apprestandosi a decifrare la penosa grafia di Phoenix con una destrezza conferitagli da sei lunghi anni di esperienza mentre qualche ribelle ciocca di capelli scuri gli scivolava davanti al viso pallido e chino in avanti. Nick incrociò invece le braccia al petto come a volersi mettere sulla difensiva e si appoggiò allo schienale della sedia scrutando torvo il volto dell’amico, osservando le sopracciglia corvine dell’italiano aggrottarsi sempre di più fino a quando, giunto più o meno a metà della prima delle due pagine riempite, non smise di leggere per tornare a rivolgerglisi seccato:
“Ma che è sto schifo?! Avrei scritto di meglio a sei anni. Rifallo, ti concedo giusto di tenere le prime due righe.”  Icaro spinse di nuovo il quaderno aperto verso Phoenix, che tuttavia non diede segno di voler riprendere in mano la matita – salvo usarla per lanciarla in mezzo alla chioma di Icaro, gettare l’amico preda di un esaurimento e filarsela – e anzi scosse il capo con veemenza sempre tenendo le braccia strette al petto, i brillanti occhi azzurri fiammeggianti e visibilmente infastiditi:
“Senti, sottospecie di Leopardi, mi hai rotto le palle. Non me ne frega niente di prendere un bel volto per questo dannatissimo tema, non so se ti è chiaro.”
“Innanzitutto si vede che sei una capra perché se stessi studiando sapresti che Leopardi era brutto e incapace di parlare con la tizia che gli piaceva, vale a dire qualcosa che non mi riguarda per niente…”
“Non cominciare con quella dannata Silvia, non ne posso più!” Era dall’inizio dell’anno scolastico che non faceva altro che sentir parlare delle elucubrazioni mentali dell’autore ad ogni lezione di letteratura, e Phoenix scosse la testa piegando le labbra in una smorfia schifata mentre Icaro, davanti a lui, lo guardava di rimando scuotendo il capo e cercando in tutti i modi di contenere l’impulso di sbattere qualche testa sul tavolo, indeciso se la sua o quella dell’amico.
“Teresa, ignorante!”
“Chi cazzo è Teresa adesso?!”, domandò il greco sgranando gli occhi inorridito: ci mancava solo che ne spuntasse un’altra, di tizia pronta ad ammorbargli l’esistenza con intere opere a lei dedicate.
“Teresa è Silvia.”
“E chiamarla con il suo nome era troppo difficile?! Perché sono tutti così disagiati questi scrittori?!”
“È una citazione all’Aminta.” Icaro gemette portandosi esasperato le mani pallide davanti al viso per strofinarsi gli occhi, certo di quel passo che entro la fine dell’anno gli si sarebbero ingrigiti tutti i suoi amati capelli. “E comunque lei era già morta quando ha scritto il sonetto, perché rappresenta la morte delle illusioni. Qualcosa che di sicuro dovresti sapere. Forza, rimettiti a scrivere, voglio controllare la brutta copia prima di andare a lezione.”
Mentre Phoenix voltava pagina per cercarne una ancora intonsa – i suoi quaderni erano dei disordinati ammassi di appunti e compiti estrapolati da materie diverse tutti raggruppati, qualcosa che procurava degli accenni di tic nervosi al suo migliore amico – chiedendosi se ci fosse una spiegazione scientifica dietro alle frequenti morti premature degli interessi romantici dei poeti e lamentando l’eccessiva pignoleria di Icaro Gisèle, a qualche metro di distanza, se ne stava distesa su un divano avvolta da una copertina a quadri bianchi e beige crogiolandosi nella sua sofferenza in mezzo a pile di fazzolettini usati e abbracciando il suo gatto per consolarsi.
“Vaclav, sto malissimo. E non mi posso neanche allenare!”, piagnucolò la giovane strega – già rabbrividiva immaginando lo stato pietoso in cui avrebbero versato i suoi poveri arti una volta ripreso gli allenamenti dopo qualche giorno di pausa – accarezzando il soffice pancino candido del gatto, che la lasciava fare pur sembrando un tantino esasperato. Incurante del fatto che il micio non potesse sentire nulla di ciò che usciva dalla sua bocca in quanto quasi del tutto sordo Gisèle continuò a lamentarsi della sua sfortuna e a soffiarsi ripetutamente il naso sempre più arrossato fino a quando, con suo gran disappunto, dalla porta del dormitorio maschile fece capolino la persona a lei più sgradita in tutto il castello.
“Cavolo cugina… hai proprio un aspetto orribile.”, constatò Guillaume dopo essersi brevemente fermato dinanzi al divano, le mani in tasca e un sorrisino stampato sul viso affilato che esprimeva tutto tranne cordoglio.
“Sicuramente comunque migliore del tuo.”, ribatté Gisèle fulminandolo con lo sguardo e con tutta l’altezzosità che una voce resa nasale dal raffreddore poteva sfoggiare.
“Dici? Perché io non sembro improvvisamente imparentato con una delle renne di Babbo Natale…” 
“Vattene, maleducato, o ti trasformo in un fermacarte!”  Guillaume si scansò pigramente evitando la scatola di kleenex che la cugina gli aveva lanciato contro mirando alla faccia senza nemmeno sfilarsi le mani dalle tasche degli eleganti pantaloni blu della divisa, e il suo sorriso non vacillò di un millimetro mentre occhi azzurri quasi del tutto identici ai suoi solcavano divertiti il viso più pallido del solito di Gisèle:
“No, ti prego, con la voce che ti ritrovi chissà che formula bislacca tireresti fuori.”
Pentita di aver adottato un innocuo gattino sordo e non un mastino napoletano trancia-cugini Gisèle infilò una mano sotto la copertina per cercare la bacchetta e fare una prova mentre la voce infastidita di Phoenix si levava dalla finestra davanti alla quale lui e Icaro erano seduti chiedendo con tono visibilmente seccato a Guillaume di zittirsi e di levarsi di torno. Per i due cugini lo stupore fu tale da riuscire nell’eccezionale impresa di zittirli entrambi – loro e anche Icaro, che smise di rimproverare l’amico per la sua brutta grafia e lo guardò meravigliato –, e Guillaume, che evidentemente non aveva nessuna voglia di discutere con Phoenix, si limitò a gettare un’occhiata stranita e seccata al contempo al compagno di Casa prima di allontanarsi dalla cugina dopo avergli suggerito di farsi gli affari propri.
Quando il cugino ebbe lasciato il suo campo visivo Gisèle, incredula dal fatto che Phoenix si fosse reso utile per la prima volta da quando lo conosceva, tornò invece a mettersi comoda sul divano dicendo a Vaclav che di certo l’indomani una pioggia di Pluffe infuocate si sarebbe abbattuta sulla scuola seminando panico e terrore. Il ragazzo invece tornò a scribacchiare sbuffando e borbottando torvo di non aver bisogno di ulteriori rotture mentre già era costretto a fare i compiti subito dopo pranzo da quella palla al piede del suo migliore amico, che dopo aver udito le sue parole rivolte a Guillaume e avergli gettato un’occhiata stranita di conseguenza stava invece fantasticando soddisfatto sul momento in cui Phoenix avrebbe preso un bel voto e lui avrebbe potuto prendersi il merito di quell’ardua impresa. Era proprio fortunato ad averlo come amico!
Rimasta sola senza la sgradita presenza del cugino Gisèle si rimise comoda contro lo schienale del divano continuando ad accarezzare il sofficissimo pelo bianco di Vaclav, sentendolo fare le fusa e godendosi la pace in cui era stata gettata la Salle Comune – fatta eccezione per qualche sporadico battibecco tra Icaro e Phoenix, impegnato controvoglia nella riscrittura del suo tema – fino a quando una delle due ante della porta d’ingresso celeste non venne spalancata consentendo al suo migliore amico di varcarne la soglia tenendo qualcosa di vetro in mano.
“Gisèle, sono andato in Infermeria e ho chiesto un po’ di Pozione Piperita… con questa dovrebbe passarti tutto entro domani.”
Fu con un sorriso gentile che Antoine raggiunse il divano che l’amica aveva occupato stringendo una fialetta tenuta sigillata da un tappo di sughero e piena di pozione scarlatta, parole che riempirono di speranza gli occhi azzurri di Gisèle resi lucidi dal raffreddore e che restituirono un sorriso sollevato sulle labbra della strega.
“Grazie Antoine, sei la mia salvezza.” Gisèle lasciò Vaclav libero di andare a gironzolare per la Salle Comune e si raddrizzò contro lo schienale facendo scivolare le gambe dal divano per consentire all’amico di sedersi accanto a lei e porgerle la fialetta, affrettandosi a stapparla e a sorseggiarne il contenuto caldo e dal sapore fortissimo mentre la voce sinceramente sollevata di Icaro si levava da qualche parte dietro di lei:
“Sì, grazie Antoine. Questo posto rischiava di diventare un lazzaretto.”
Bevuta metà dose della pozione Gisèle ruotò il busto per voltarsi e gettargli un’occhiata torva, asserendo che ormai non vi fosse alcun rispetto per i malati prima di vuotare la fialetta, la gola in fiamme e le orecchie improvvisamente scarlatte e bollenti.
 

 
divisore
 
 
Serre
 
 
“Non vedo l’ora che la lezione finisca, comincio a non poterne più di questa giornata.”
Un lieve sbuffo si levò dalle labbra di Daphné Blanchard mentre la ragazza si spolverava debolmente le mani coperte da un paio di spessi guanti marroni sul grembiule che indossava sopra alla divisa e che impediva alla sua deliziosa camicia color carta da zucchero di riempirsi di terra. Appena terminato di invasare l’ennesima pianta, Daphnè si sfilò i guanti per appoggiarli brevemente sul lunghissimo tavolo rettangolare di legno dove lei e gran parte della classe stavano lavorando e aprire il quaderno – la cui copertina era rigorosamente verde bosco, data la mania della giovane strega di abbinare tutte le materie ad un colore diverso – per trascrivere i compiti che aveva lasciato scritti sulla lavagna mobile.
“Peccato che non sia l’ultima, abbiamo ancora Astronomie…” Lucinda tornò al suo posto accanto all’amica reggendo una pesante cassetta di legno piena di piante che sistemò con sollievo sugli unici centimetri di tavolo rimasti liberi davanti a loro, visione che gettò Daphné nel più totale sconforto mentre terminava di scrivere stando ben attenta ad impedire al suo quaderno di toccare il tavolo e di conseguenza di riempirsi di terra.
“Quante altre piante abbiamo?”
“Troppe. Forse per quando finiremo avrò i capelli lunghi fino alle ginocchia e mi potrò calare da una torre, chissà. Posso fare una foto ai compiti da te, dopo?” 
“Certo.” Daphné annuì con un sospiro mesto mentre rimetteva quaderno e penna al sicuro nella borsa a cartella color crema abbandonata sullo sgabello inutilizzato, tornando ad infilare i guanti mentre Lucinda disponeva i vasi sul tavolo togliendoli uno ad uno dalla cassetta cercando di tenersi i corti capelli corvini lontani dal viso senza toccarli con i guanti sporchi ma limitandosi a scuotere il capo infastidita:
“Forse farli crescere non sarebbe male. Beata te che puoi legarli.”
“Però stai molto bene così.” Mentre si rimetteva al lavoro – dopo aver lanciato una rapida occhiata al suo orologio da polso col cinturino di pelle bianco agognando il momento in cui la lancetta delle ore avrebbe finalmente segnato le 16 e la loro conseguente libertà fino all’ora di cena – Daphné gettò uno sguardo all’amica e ai suoi bei capelli scuri, guardandola sbuffare debolmente nel tentativo di non sporcarli prima di cambiare argomento: forse la quasi totale libertà che avevano di chiacchierare mentre lavoravano era l’aspetto che maggiormente aspettava delle lezioni che avevano luogo all’interno delle serre.
“Come è andata a Défense contre les forces du Mal?”
Una lieve smorfia incurvò le labbra di Lucinda verso il basso mentre ripensava all’argomento di studio contro cui stava sbattendo la testa da ormai un mese, finendo col riversare forse troppa enfasi nel cambiare vaso alla pianta di dittamo e spargendo una dose eccessiva di terra sul tavolo.
“Benino. Gli incantesimi non verbali sono uno schifo, è difficilissimo!”
“Vedrai che ci riuscirai, se ci riescono gli altri puoi farlo anche tu. Con chi ti sei esercitata?”
“Con Dante. Lui ci riesce, pare che a Mahoutokoro siano più avanti di noi con il programma e che abbia iniziato ad esercitarsi già l’anno scorso.”
“Ah, con Dante… Beh, puoi sempre chiedergli di aiutarti.”
Daphné sorrise mentre sfiorava una foglia di dittamo tenendola tra indice e pollice, ridendo quando Lucinda, per tutta risposta, le picchiettò la sua paletta di legno sulla spalla fingendosi infastidita e facendole il verso in falsetto:
“Pensa alle tue piantine. O vuoi che chiami Guillaume per aiutarti?”
Daphné arrossì e le intimò di abbassare la voce con una lieve gomitata, zittendosi e chinando il capo sul suo lavoro quando la professoressa le riprese gentilmente per il loro eccessivo chiacchiericcio mentre Lucinda, la testa china a sua volta e i capelli neri parzialmente davanti al viso, cercava di non ridere.


 
divisore

 
Icaro non stava più ascoltando neanche una parola da almeno un paio di minuti, gli occhi scuri puntati fissi sull’orologio appeso alla parete alle spalle della cattedra, al di sopra della lavagna piena di rune, e la mano sinistra che picchiettava a ripetizione una penna nera sulla cerniera aperta dell’astuccio. La voce e il marcato accento bretone dell’insegnante di Étude des runes, Jacqueline Bonnet, erano diventati solo un eco che risuonava lontano dai pensieri del ragazzo mentre le lancette dell’orologio si spostavano facendosi sempre più inesorabilmente vicine a segnare la fine della lezione incrementando progressivamente il nervosismo di Icaro, combattuto tra il desiderare la fine di quell’agonia o di nascondersi in qualche angolo del castello per evitare la lezione immediatamente successiva.
Anche Milad, accanto a lui, sedeva immobile sulla sua sedia con il banco in perfetto e meticoloso ordine come suo solito: il quaderno aperto e perfettamente dritto sul banco, il dizionario già chiuso e nello zaino, le penne tutte infilate nell’astuccio. Come Icaro Milad non attendeva altro che la fine della lezione gettando continue occhiate all’orologio, il volto impassibile e la mascella serrata mentre il ginocchio destro tradiva il suo nervosismo tremando leggermente fuori dal controllo del ragazzo.
Quando la campanella finalmente suonò entrambi scattarono quasi come molle, affrettando ad infilare tutti i loro averi rimasti sui banchi nei rispettivi zaini prima di sfrecciare fuori dall’aula salutando l’insegnante senza fermarsi – Milad tuttavia, incapace fin proprio nel midollo di essere anche solo vagamente scortese con un docente, si premurò di rallentare il passo e di rivolgere anche un cenno educato del capo alla donna prima di correre fuori dalla stanza dietro ad Icaro – e precedendo tutti i loro compagni di classe evitando così di restare incastrati nella calca che era solita crearsi nei corridoi al termine delle lezioni.
“Che ore sono?! La D’Angelo è più puntuale di un orologiaio svizzero!”  Determinato ad occupare il banco più lontano dalla cattedra per avere qualche chance di mimetizzarsi con la tappezzeria Icaro quasi tramortì una minuscola ragazzina del primo anno che sbucò dal nulla uscendo dall’aula di Métamorphose, prolungandosi in una lunga sfilza di scuse senza però fermarsi mentre Milad gettava un’occhiata preoccupata al suo orologio da polso senza smettere di correre:
“Le 15. Anzi, adesso sono le 15.01.”
Giunti in fondo al corridoio i due inchiodarono davanti alla porta chiusa dell’aula dove avrebbe avuto luogo la lezione successiva, e dopo essersi brevemente ricomposto dandosi una rapida ravvivata ai lunghi capelli scuri Icaro bussò per assicurarsi che fosse deserta. Non udendo alcun suono aprì la porta quel tanto che bastava per gettare un’occhiata all’interno dell’aula, sospirando di sollievo quando appurò di essere riuscito ad arrivare prima della loro temuta insegnante di lingue.
“Ok, non c’è nessuno, possiamo sederci in fondo.”
“Gisèle dov’è? Lei aveva l’ora buca, dovrebbe essere già qui!”  Di norma Gisèle li aspettava proprio lì, davanti alla porta, a volte rimproverandoli per aver avuto l’ardire di farla attendere, e Milad si guardò attorno accigliato e stranito da quell’inusuale assenza – che Guillaume l’avesse chiusa in uno scantinato? – appena prima che l’inconfondibile e lontano suono di uno starnuto giungesse alle loro orecchie.
“Eccola, sta arrivando.”, asserì Icaro accennando pigramente verso il fondo del corridoio, prendendo a picchiettare impaziente il piede sinistro sul pavimento di marmo prima che l’arrivo della compagna venisse anticipato dall’echeggiare tra le pareti di un disperato scalpitio di tacchi: un attimo dopo Gisèle svoltò l’angolo, correndo trafelata verso di loro con la borsa in spalla e una scatola di kleenex che doveva aver avuto troppa fretta per riporre in mano.
“Eccomi, eccomi, eccomi! Scusate stavo ordinando i miei maglioni in ordine cromatico e mi sono scordata di guardare l’ora… Bene, adesso entriamo, ci sediamo in fondo e preghiamo di passare inosservati.” Gisèle inchiodò davanti ai due, che si ritrassero leggermente senza battere ciglio mentre la strega starnutiva una seconda volta – non sobbalzarono grazie all’abitudine, ma lo stesso non si potè dire della stessa ragazzina del primo anno di poco prima, che quel giorno decise di starsene alla larga da quelli del settimo fino alle vacanze di Natale –
“Se continui a starnutire come se volessi buttare giù il castello la vedo difficile. E per me sarà molto arduo in ogni caso.”  Icaro scosse il capo con fare tragico mentre sospirava seguendo Milad all’interno dell’aula – di norma il belga da buon studente modello non sedeva mai in fondo alla classe, ma quel giorno persino lui temeva talmente tanto la possibilità di essere scelto come vittima sacrificale che decise di fare un’eccezione straordinaria – e Gisèle, dopo essersi soffiata il naso, gli camminava accanto in mezzo ai banchi guardandolo stranita:
“Perché?”
Pensi forse sia facile essere belli come me e passare inosservati?!”
Gisèle decise che quel commento era talmente stupido da non meritare nemmeno una sua sillaba, e si limitò ad alzare gli occhi al cielo mentre scivolava sulla sedia accanto a Milad, prendendo posto in ultima fila tra lui e Icaro. Mentre il belga si affrettava a tirare fuori dizionario di latino, libro e quaderno per darsi ad un disperato ripasso e Icaro si interrogava tra la possibilità di pregare, nascondersi o imitarlo Gisèle sembrò avere le idee molto chiare sul da farsi: piazzò i kleenex su un angolo del banco, che le sarebbero serviti sia per il raffreddore sia per le lacrime che avrebbe versato se avesse sentito pronunciare il suo nome dall’insegnante, e una volta aperta la borsa tirò fuori una fotografia che appoggiò sul suo astuccio di tela beige pieno di spillette a forma di scarpine da ballo e una minuscola fialetta di vetro con tanto di contagocce. Mentre nella mente di Milad prendevano vita scenari catastrofici in cui si vedeva assegnare il primo brutto voto della sua vita e si vedeva costretto ad informare i suoi genitori sentendo di dar loro una delusione e Gisèle svitava rapida la boccettina Icaro non poté fare a meno di gettare un’occhiata al soggetto della foto, ritrovandosi a sollevare entrambe le sopracciglia quando, contro ogni sua aspettativa, lo riconobbe all’istante:
Perché hai una foto di Roberto Bolle?”
“Qualcuno dovrò pregare!”
Gisèle reclinò leggermente la testa mentre si versava stoicamente delle gocce di liquido trasparente su entrambi gli occhi, prendendo poi a sbattere ripetutamente le palpebre per alleviare il fastidio mentre richiudeva la boccetta e la riponeva nella sua borsa sotto lo sguardo sempre più perplesso dell’italiano: forse con la malattia era diventata più strana del solito.
“… Perché il collutorio?”
“Già sembro malata, se sembra che io abbia pianto fiumi e fiumi di lacrime la D’Angelo non potrà interrogarmi senza sentirsi una persona orribile.”
Gisèle, che quel mattino si era ben guardata dal truccarsi per avere il peggior aspetto possibile, fece spallucce mentre estraeva il pesantissimo dizionario di latino dalla borsa, facendolo cadere sul banco con un lieve tonfo mentre Milad si dedicava con la massima concentrazione alla rilettura dei suoi perfetti appunti. Dopo una brevissima riflessione Icaro dovette riconoscere che l’idea della compagna non fosse affatto male, e si affrettò ad estrarre il telefono dallo zaino per darsi una controllata con la fotocamera interna: forse Gisèle a furia di starnutire gli aveva attaccato qualcosa e anche lui avrebbe potuto giocarsi la carta della malattia.
Con suo gran rammarico Icaro finì invece con lo scontrarsi con la dura realtà: era bello come sempre, e sospirò affranto mentre scuoteva il capo sconsolato, costretto ad arrendersi al suo triste destino.
“No, sono bellissimo, non penserà mai che io sia malato!”

 
divisore
 
 
Biblioteca
 

“Avanti, riprova.”  Diego gli sedeva di fronte, il viso spigoloso e gli occhi azzurri illuminati dalla luce calda che entrava dall’alta finestra cui Dante dava le spalle; lo guardava serio e in attesa, i gomiti puntati sui libri e sui quaderni aperti per sorreggere le braccia sollevate e le dita lunghe e ricche di calli intrecciate. Dante esitò, annuendo prima di ripetere stancamente lo stesso nome per l’ennesima volta, talmente tante da aver perso il conto.
Guillaume.”
Ghi. Guillaume.” Quando Diego lo corresse, sempre senza battere ciglio e armato di una pazienza zen che Dante stava iniziando a perdere di vista, il Papillonlisse trattenne l’impulso di gettare all’aria tutto ciò che aveva davanti sul tavolo, sbuffando esasperato prima di cercare di capire cosa differenziasse la sua versione e quella del compagno: per quanto Diego potesse ripetere quel nome a lui suonava sempre identico a ciò che usciva dalle sue labbra.
“E io che cosa ho detto?!”
“La “u” non si pronuncia, devi dire una specie di “o”.
“L’ho detta!”
“La dici male.”
Diego si strinse nelle spalle con nonchalance mentre Dante malediceva a mezza voce i francesi e i loro nomi impronunciabili. Fortunatamente in compagnia di Diego poteva parlare in italiano, ma gli sguardi straniti che riceveva di tanto in tanto per la sua pronuncia cominciavano a dargli fastidio più di quanto non fosse disposto ad ammettere.
“Puoi sempre dire Guglielmo.”  Diego si strinse nelle spalle mentre frugava all’interno del suo astuccio di tela nero pieno di spillette di Doctor Who e a forma di vinili e videocassette alla ricerca di una matita, ignorando l’occhiata torva che il compagno gli lanciò dall’altro lato del tavolo:
“Certo, perché i francesi adorano quando gli storpi i nomi. Sono proprio famosi per quanto sono carini e bendisposti verso chi parla male la loro lingua.”
“Io lo faccio. Li chiamo all’italiana.” Diego aprì il libro di Étude des runes e con la matita nera che aveva appena estratto dall’astuccio iniziò a leggere e a sottolineare pigramente il capitolo che avrebbe dovuto studiare per la lezione successiva, il tutto sotto lo sguardo stranito di Dante:
“E non si offendono?”
“Beh immagino di sì, ma non è un problema mio. A me fa rabbrividire come pronunciano il mio, di nome.”
“Interessante punto di vista. Quindi cosa devo dire, “Ehy Gugliemo Dellacroce” se lo vedo in corridoio?”
Provaci.”
 
Milad aveva cercato di leggere e studiare nella sua Salle Comune al termine delle lezioni, ma racimolare anche una piccola dose di concentrazione gli era risultato impossibile a causa di un torneo di Gobbiglie in corso e di un rumorosissimo gruppo di studenti del terzo anno, tutti fattori che l’avevano spinto a recuperare le sue cose e a decidere di spostarsi in Biblioteca senza pensarci due volte.
Si stava aggirando tra le alte librerie bianche piene di volumi più o meno antichi e polverosi della sezione dedicata allo studio delle rune, alla ricerca di un angolo isolato dove sedersi, quando sentì una voce chiamare il suo nome e voltandosi incrociò lo sguardo di Dante Wang, che lo stava guardando con aria talmente implorante da portarlo ad avvicinarsi al tavolo senza indugi.
“Ciao. Ti serve qualcosa? Ciao Diego.”
Dopo essersi fermato davanti al tavolo il belga chinò brevemente lo sguardo sull’italiano per salutarlo, e il ragazzo ricambiò senza alzare il proprio dal libro aperto che aveva davanti mentre Dante continuava a guardarlo speranzoso:
“Milad, tu sei madrelingua, forse mi puoi aiutare meglio di Diego.”
Ingrato.”, borbottò il diretto interessato in italiano senza neanche alzare la testa dal libro, ma Dante non ci fece caso e continuò imperterrito a rivolgersi a Milad:
“Mi insegni a pronunciare qualche nome astruso di certa gente che vive qui? Se sento qualche altra correzione sulla pronuncia mi muro vivo in una parete.”
Prima di rispondere Milad chinò lo sguardo sulla scacchiera pieghevole che teneva sottobraccio e che aveva portato con sé per esercitarsi, ma dopo una rapida riflessione stabilì di poter perdere qualche minuto per dare una mano a Dante e annuì, comprensivo, prima di sedersi accanto a Diego e poggiare sul tavolo zaino di pelle e scacchiera.
“Volevo esercitarmi, ma può aspettare. Qual è il problema?”
“Guillaume.”
Guillaume il nome o Guillaume Delacroix?” Milad guardò l’italiano inarcando un sopracciglio, restando impassibile senza lasciar trasparire neanche una traccia della personalissima antipatia che provava nei confronti del compagno di Casa. Dante però scosse il capo, liquidando il discorso con un pigro cenno della mano mentre la bibliotecaria, una donna svizzera molto alta dai lineamenti spigolosi che esercitava soggezione persino su di lui, si aggirava tra gli scaffali per assicurarsi che nessuno facesse troppo chiasso, costringendolo ad abbassare la voce di un’ottava:
“Il nome, con Guillaume Delacroix non ho mai parlato, so solo che è il cugino di Gisèle e che lei lo detesta.”
Mi asterrò dal fare commenti di sorta. Guillaume.”  Milad parlò brandendo una naturalezza e un accento perfetto che Dante era sicuro che non avrebbe mai potuto padroneggiare, gettandolo nello sconforto mentre scuoteva il capo, incapace di capire dove stesse sbagliando:
“A me sembra di dirlo come lo dici tu.”
“Non lo dice così, lo dice male. Se me ne accorgo io tu da belga non puoi non accorgertene.” Diego sollevò la testa per gettare una rapida occhiata a Milad, che brandì un debole sorriso mentre Dante scoccava un’occhiataccia in direzione del compagno di classe.
“In realtà ho imparato a parlare in arabo, i miei genitori sono libanesi. Comunque è obbiettivo che la pronuncia francese corretta sia difficile, mia madre fa ancora fatica con certe parole dopo decenni da quando si è trasferita a Charleroi.”
Mi sento un po’ meno idiota. E la vostra grammatica è una merda, lasciatelo dire.”
Milad sorrise, assicurandogli che non si sarebbe offeso mentre Diego, accanto a lui, agitava sbuffando piano la matita in direzione di Dante, domandandosi perché non volesse dargli ascolto e adottare la sua strategia di fregarsene dell’altrui opinione e pronunciare i nomi in italiano. Fortunatamente aveva una soluzione geniale a disposizione dell’amico:
“So io cosa devi fare, non parlare mai con o di Guillaume Delacroix. Per te non esiste.”
“Che idea del cazzo Die’. Se mi chiedono qualcosa che dico, lo chiamo “Tu-Sai-Chi”?”
“Certo che sei una lagna, non ti va bene niente!”

 
divisore

 
Visto dall’esterno il serraglio aveva le sembianze di un suggestivo padiglione di forma ottagonale in stile coloniale fatto interamente di vetro e ferro bianco, una sorta di immenso giardino d’inverno collocato a circa mezzo chilometro di distanza dalle enormi serre della scuola. Quando ci aveva posato lo sguardo per la prima volta Dante non aveva potuto esimersi dal chiedersi come fosse possibile che la struttura, dalla quale non si udivano mai provenire suoni di sorta, ospitasse un gran numero di Creature Magiche, in certi casi nemmeno propriamente innocue, ma aveva finito col ricredersi quando ci aveva messo in compagnia della sua migliore amica, che tutte le settimane trascorreva lì dentro una buona parte del suo tempo libero.
Le piante che Dante aveva scorso dall’esterno e che sembravano popolare il serraglio, rendendolo in tutto e per tutto simile ad un giardino botanico, si erano rivelate solo frutto di un incantesimo che dall’esterno impediva di scorgere tutte le creature che popolavano la struttura, divise in gabbie e recinzioni di diversa grandezza in base alle dimensioni degli animali e distribuite all’interno di quattro sezioni in mezzo alle quali ci si muoveva percorrendo due ampi corridoi che s’incrociavano al centro della costruzione formando una croce.  
Seduto su un’alta recinzione Dante stava accarezzando la testa coperta dal piumaggio argentato di un Ippogrifo particolarmente docile che sembrava averlo preso in simpatia fin dalla sua primissima visita e che ora quasi gli trottava incontro non appena lo scorgeva avvicinarsi in compagnia di Nerea. La sua amica si trovava all’interno della gabbia immediatamente di fronte, impegnata a pulirla e a sfamarne i residenti dopo aver provveduto ad occuparsi di quella degli Ippogrifi, che ora sonnecchiavano pacifici standosene rannicchiati sul terriccio.
“Sicura che vada tutto bene?”, domandò Dante gettando un’occhiata dubbiosa alla recinzione di legno reso ignifugo dalla magia che aveva di fronte e che celava alla sua vita quanto stava accadendo all’interno, consentendogli di udire solo dei lamenti poco felici e i rimproveri infastiditi che la sua amica stava rivolgendo agli abitanti della gabbia. Con gran sollievo del ragazzo Nerea spalancò il cancello di accesso un attimo dopo, consentendogli di scorgere brevemente la sagoma di un Fiammagranchio che si allontanava zampettando torvo sul terriccio. La strega si affrettò a chiudersi il cancello alle spalle abbassando il catenaccio prima di sfilarsi gli spessi guanti di pelle di drago che indossava, sbuffando infastidita mentre si strofinava via dalla pelle la cenere che le aveva sporcato la guancia destra:
“Sì, Claude è un capriccioso del cavolo, ma ce l’ho fatta. Ogni settimana non mi lascia pulire perché deve farmi vedere che fa le capriole.”
“Chi ha chiamato un Fiammagranchio “Claude”?”, domandò Dante inarcando scettico un sopracciglio mentre l’Ippogrifo che aveva accanto, il cui nome riportato su una targhetta placcata d’oro (“Gingembre(5)”) appesa al collo aveva destato le medesime perplessità, si lasciava accarezzare felice la testa.
“L’hanno recuperato l’anno scorso insieme ai suoi fratelli quando era un tenero, piccolo e indifeso granchietto, gli stava bene! Allora, come è andata oggi alle prove?”
“Bene. Credo che il mio francese stia migliorando. Milad mi dà una mano.” Dante scrollò debolmente le spalle mentre guardava l’amica consultare i dettagli del suo turno dal telefono, controllando di quante e quali altre Creature dovesse occuparsi per poi poter tornare a scuola per cenare a sua volta. Appurato di doversi ancora occupare di Kneazle e Demiguise la strega si rifece scivolare il telefono nella tasca dei jeans logori che usava per i suoi turni nel serraglio per tornare a rivolgersi all’amico con un sorriso allegro ad illuminarle lo sguardo:
“Mi fa piacere! Può non dare questa impressione perché è sempre serio, ma Milad è molto gentile con chi gli sta simpatico. Evidentemente non ti trova insopportabile.”
“Chi mi trova insopportabile?”
Dante saltò giù dalla recinzione per salutare Gingembre e seguire Nerea, che doveva proseguire il giro e andare a servire la cena all’allevamento di Kneazle della scuola. La ragazza si sistemò dietro l’orecchio una ciocca di lunghi capelli castani scivolata fuori dalla treccia in cui li aveva legati donandogli un sorriso amabile, stringendosi nelle spalle prima di sollevare e ficcargli tra le braccia un pesante sacco pieno di croccantini al salmone per “Gatti magici in salute”.
“Io, certe mattine.”
 

 
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Ogni lunedì alle 21.30 per gli studenti del VI anno aveva inizio la prima lezione di Astronomia nella settimana, pertanto come ogni lunedì Daphné Blanchard e Lucinda Pais dopo aver finito di cenare anziché tornare nella loro Salle Comune si erano chiuse in Biblioteca per studiare, o per meglio dire studiare e chiacchierare per la metà del tempi. Dopo circa un’ora le due avevano lasciato la Biblioteca ormai deserta, talmente silenziosa da rendere quasi spettrale l’eco dei loro passi sul pavimento di marmo, per trascinarsi svogliatamente in direzione di una delle quattro torri del castello, entrambe più desiderose di tornare nella propria camera invece di prendere parte all’ennesima lezione della giornata.
“Ma possibile che facciamo queste scale da un mese e mezzo e ancora mi sembrano così faticose? Non finiscono mai…” Daphnè sospirò mentre procedeva nella salita sempre più faticosamente, la borsa a cartella color crema che le dondolava fastidiosamente a fianco picchiettandole continuamente la gamba destra mentre Lucinda, alle sue spalle, sbuffava piano:
“Guarda il lato positivo, le scale fanno bene ai muscoli… anche se un ascensore non sarebbe male.”
Lucinda si fermò per prendere fiato sul gradino subito dietro quello dell’amica, che non tardò ad imitarla, e appoggiandosi all’elegante corrimano, agognando più che mai il momento in cui avrebbe potuto infilarsi il pigiama e raggomitolarsi sotto il suo soffice e confortevole piumone.
“Pensa quanto bello sarebbe fare lezione in giardino.” Gli occhi verdi di Daphnè si fecero luccicanti quando la strega, sorridendo sognante, immaginò di fare lezione di Astronomia senza quel faticoso supplizio. Senza contare il numero imbarazzante di volte in cui lei e Lucinda, in prossimità delle primissime lezioni del corso, si erano perse ed erano arrivate in ritardo.
“Senza scale.”, sospirò Lucinda mentre picchiettava le dita sul corrimano prima di far cenno all’amica di riprendere la salita, decisa a non arrivare in ritardo. Daphnè annuì mentre tornava a darle le spalle, riprendendo a salire i gradini sbattendo rumorosamente le francesine azzurre e blu della divisa sull’elegante pietra levigata.
“E pensare che ce la siamo scelta noi, questa tortura…”, borbottò Lucinda dietro di lei gettando un’occhiataccia alle scarpe col tacco basso che indossava e che di certo non rendevano più agevole salire tutte quelle scale, scarpe che detestava con tutta se stessa dal primo giorno del primo anno e che ogni mattina si allacciava ai piedi agognando il momento in cui avrebbe potuto sfilarsele per sostituirle con delle soffici pantofole coperte da un ricamo di minuscoli manici di scopa.
“Ma le lezioni mi piacciono, il problema è l’orario!”
“E le scale.”
“Beh, quello è scontato. Chissà che cosa stanno facendo adesso quelli che non hanno lezione.”
“Spero quello che non facciamo noi, che si stiano rilassando.”


Nerea sedeva sul pavimento della propria camera appoggiandosi al letto con la schiena, le gambe lunghe distese davanti a sé e le caviglie sottili incrociate. Terminato di cenare e salutato Gisèle, che aveva progressivamente quasi smesso di starnutire e far sobbalzare chiunque le stesse vicino, era tornata nella sua camera insieme a Leticia, si era fatta la doccia e aveva sostituito la divisa  – ogni sera arrivava il momento in cui non riusciva più a sopportarne le scarpe – con una tuta verde salvia abbinata a delle pantofole con un ricamo floreale ben più comode dei tacchi che era costretta a portare praticamente ogni giorno della settimana per nove mesi all’anno.
Ora lei e Leticia sedevano una accanto all’altra sul pavimento della loro camera, le mani strette attorno a delle tazze di ceramica piene di infuso fumante in attesa che si facesse l’ora di prepararsi per la loro uscita notturna dal castello. Nerea stava osservando pensosa la deliziosa carta da parati che ricopriva ogni angolo della stanza, bianca con motivi di fiori e foglie, identica ai copriletti, quando Leticia, dopo aver sorseggiato un po’ di infuso caldo, parlò aggrottando le folte sopracciglia brune:
“Forse non è stata una buona idea prepararci questa,” asserì pensosa la spagnola gettando un’occhiata incerta al liquido ambrato e bollente con cui lei e l’amica si stavano scaldando. Nerea smise di pensare alla riunione imminente – ancora non aveva ben chiaro se sperava o meno di dover contribuire a selezionare gli studenti del VI anno da inserire nella Brigade – per volgere lo sguardo sul volto pallido dell’amica, guardandola dispiaciuta:
“Perché? Non ti piace? Me l’ha mandato mia madre da Castelbosco.”
“No, figurati, è buonissimo, ma mi sta venendo sonno e tra tre ore dobbiamo uscire.”  Leticia sospirò scuotendo sconsolata il capo e le lunghe ciocce di capelli castani che, sfuggite alla coda di cavallo bassa in cui li aveva legati, le ondeggiarono ai lati del viso. E Nerea, a pensarci bene, si rese conto di doverle dare ragione.
“… Dici che era meglio un caffè? Potremmo sempre fare i compiti per tenere in funzione il cervello.”
“Gli altri cosa staranno facendo per passare il tempo?”
 
 
“Pesca quattro!” Icaro sorrise trionfante mentre gettava la sua carta in mezzo al mucchio confusionario di tessere colorate che si era andato a creare nel bel mezzo del tavolo che divideva il suo divano da quello di fronte, occupato da Antoine e da Gisèle. Quest’ultima, costretta di malavoglia a pescare di nuovo delle carte, sbuffò con amarezza mentre si allungava verso il mazzo per prelevarne quattro: ormai ne aveva talmente tante da non sapere più come disporsele a ventaglio tra le mani.
“Come si fa ad essere così sfacciatamente fortunati?!”
È un problema di noi bellissimi. Questo gioco Babbano mi piace un sacco!” Icaro, che al contrario aveva in mano solo tre carte, sorrise compiaciuto mentre tornava a mettersi comodo accanto al bracciolo e ad un cuscino dalla federa di raso color crema. Milad, che gli sedeva accanto impegnato a sistemare le sue carte in modo che avessero un senso, non poté fare a meno di chiedersi come fosse possibile che quei tre non avessero mai giocato ad UNO in tutta la loro vita prima di quella sera, quando avevano deciso di dover passare il tempo in qualche modo prima della riunione e Antoine lo aveva praticamente costretto ad unirsi a loro invece di starsene seduto in disparte a leggere in solitudine.
“Ti piace perché stai vincendo.”, osservò Gisèle gettando un’occhiata torva ad Icaro mentre cercava di sistemare la carte alla meno peggio.
“Che colore vuoi?”
“Verde.”
Gisèle, che naturalmente non aveva neanche una carta di quel colore in mano, gemette mentre Vaclav sonnecchiava in mezzo alle sue gambe incrociate sul divano e avvolte dalla medesima copertina bianca e beige di quel pomeriggio. Se non altro la pozione aveva fatto effetto e ormai non starnutiva quasi più.
Trenta carte in mano e di verde neanche mezza. Milad, tocca a te.”
“Blocco Antoine, blocco Icaro, cambio giro.”
Milad gettò una carta dietro l’altra del mucchio per poi guardare Gisèle con un sopracciglio inarcato in un muto invito a usare il suo turno, e la strega, di nuovo costretta a pescare una carta non avendo nulla da poter calare in mano, sospirò mentre si allungava verso il tavolo:
“Ma questo gioco l’ha inventato Guillaume? Queste carte mi detestano.”
“Dai Gisèle, muoviti, che tra poco vinco e poi voglio fare un’altra partita.” Icaro agitò spazientito le sue carte in direzione della francese, che lo scrutò impassibile per una breve manciata di istanti prima di rivolgersi ad Antoine e chiedere all’amico se per caso non potesse far pescare qualche carta anche a lui.
Dopo aver brevemente controllato quelle che aveva in mano Antoine dovette scuotere il capo, limitandosi a gettare nel mucchio una comunissima carta verde mentre Icaro, di fronte a lui, sghignazzava divertito:
“No Gisèle, quelle che fanno pescare le abbiamo usate tutte per te.”
Ovviamente. Dopo propongo un altro gioco.”
“Tipo?”, domandò Milad mentre Icaro protestava (non aveva nessuna intenzione di cambiare gioco dopo aver già vinto ben due partite di fila), deciso a non insegnargli niente che avrebbe potuto facilmente sfociare in una rissa – era una fortuna che Guillaume e Abel non avessero deciso di unirsi a loro, o di certo sarebbe finita male –. Gisèle, dopo aver averci riflettuto brevemente sistemandosi come meglio poteva la coperta sulla tuta color cioccolato che indossava nonostante tutte le carte che aveva in mano, sfoderò un sorriso amabile:
Tipo chi fa meglio la spaccata.”
“Quello non è un gioco.” Icaro scosse il capo guardando pieno di stizza la compagna di Casa, che tuttavia non battè ciglio e si strinse debolmente nelle spalle mentre annuiva con nonchalance:
“Sì che lo è. Si chiama Gisèle vince sempre.”
 
 
Tre ore dopo la Salle Comune si era completamente svuotata e tutte le luci erano state spente, fatta eccezione per i piccoli fuocherelli azzurri che ardevano ininterrottamente, senza mai estinguersi, in alcune piccole lanterne bianche appese alle pareti. L’altra fonte di luce presente nell’enorme sala deserta era la torcia del telefono di Milad Sarkis, che si stava dirigendo verso l’uscita insieme ad Icaro e ad Antoine, tutti e tre vestiti e pronti per uscire.
“Dov’è Gisèle?!”, domandò in un sussurro il belga quando si ritrovò dinanzi alla doppia porta celeste.
“Sarà già uscita come Guillaume e Abel. O magari sta ancora contando le sue carte.” Un sorrisino increspò le labbra di Icaro nella semioscurità mentre Antoine, in piedi accanto a lui, si sfilava accigliato il telefono dalla tasca dei pantaloni per sbloccarlo e controllare di non avere messaggi, poco propenso a credere che l’amica si fosse avviata senza di lui:
“Strano, se dobbiamo andare da qualche parte insieme mi aspetta sempre, o mi avvisa.”
“Magari è uscita prima, ha preceduto Guillaume e Abel per costruire una trappola per orsi per Guillaume. Non è così improbabile.”
 
 
Stanca di perdere a quel ridicolo gioco di carte fondato solo sulla fortuna Gisèle si era ritirata nella sua stanza, sistemandosi sul proprio letto per riposarsi un po’ a seguito di una notte insonne dovuta al latino e al raffreddore che l’aveva colpita. Doveva ancora prepararsi per la riunione, ma mancava ancora così tanto che la ragazza non se ne curò mentre fissava pensosa il baldacchino sopra di lei: si sarebbe solo rilassata un po’ e poi sarebbe stata rapidamente pronta per uscire.
Gisèle si addormentò, senza sapere bene come, e quando le sue palpebre pesanti si risollevarono i suoi occhi azzurri dovettero abituarsi ad un’oscurità ben diversa da quella che aveva avvolto il castello quando si era distesa sul materasso. Dopo un breve attimo di confusione la consapevolezza di che giorno fosse e di quale impegno avesse la investirono di colpo, portandola a mettersi a sedere di scatto sul letto per afferrare il telefono abbandonato sul comodino.
“Merda!”
Quando appurò di come mancasse meno di mezz’ora all’inizio della riunione Gisèle trasalì, gettando le gambe giù dal letto per correre ad aprire il baule e cercare qualcosa di decente da indossare cercando di non far rumore, poiché le sue compagne di stanza erano già tutte profondamente addormentate: lei non arrivava mai, mai in ritardo. E anche se di quell’impegno non le importava poi granché non aveva nemmeno intenzione di sorbirsi le lamentele dei suoi compagni.


 
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Nerea era piuttosto soddisfatta di se stessa: si era vestita e preparata per tempo, riuscendo a ritrovarsi pronta per lasciare il Dormitorio persino in anticipo rispetto all’orario stabilito per l’incontro, riuscendo così a fare in modo che anche Leticia ed Etienne fossero pronti e a trascinarli attraverso la Salle Comune buia e ormai deserta data l’ora tarda in perfetto orario.
Certo, il fatto che Gisèle non avesse risposto ai suoi messaggi dopo più di mezz’ora la straniva non poco, ma Nerea si convinse che di certo l’amica era impegnata a prepararsi per uscire mentre insieme ai due amici e compagni di Casa percorreva in silenzio le scale di marmo deserte e semibuie del castello, la bacchetta accesa e sollevata davanti a sé mentre scendeva rapida i gradini di marmo sfiorando la superficie fredda e liscia del corrimano di legno con le dita lunghe e affusolate.
La sua migliore amica non era mai in ritardo, di certo un’abitudine frutto di anni e anni trascorsi in Accademia circondata da severissimi maestri di ballo, e quando Nerea, seguita da Leticia ed Etienne, varcò la soglia del giardino d’inverno dopo aver snocciolato la parola d’ordine ad Abel si aspettava per certo di trovarla lì, in attesa di iniziare. Se la immaginava seduta su una sedia, un piede che dondolava mentre si sorreggeva il capo inclinato con un gomito piantato sul tavolo, l’aria annoiata e impaziente di iniziare al tempo stesso per potersela sbrigare in fretta e andare a dormire, e invece quando fu entrata lo sgaurdo di Nerea indugiù solamente su Icaro, Antoine e Milad, tutti e tre in piedi in un angolo mentre Annika tirava i pesanti tendaggi neri per coprire le finestre e Guillaume sgombrava la lunga sala interna della piccola sera con la magia, facendo in modo che solo un ampio tavolo circolare rimanesse ad occupare il centro dello spazio avvolto dalla semi-oscurità.
“Dov’è Gisèle?!” Nerea inarcò un sopracciglio mentre si sbottonava la giacca color castagna facendo rimbalzare lo sguardo da Antoine, Icaro e Milad – che ricambiarono straniti tanto quanto lei, come se avessero dato per scontato che avrebbe saputo rispondere al posto loro – fino ad Abel, che chiuse la porta alle spalle di Etienne osservandola con i penetranti occhi color ghiaccio pregni di perplessità:
“Credevamo stesse arrivando insieme a te.”, osservò secco il ragazzo con l’inconfondibile strascico di accento tedesco che non era mai riuscito ad abbandonare mentre le candele che brillavano sopra le loro teste galleggiando a mezz’aria illuminavano i suoi lisci capelli biondi donandogli un’aura quasi dorata. All’improvviso, guardandolo voltarsi verso Guillaume, Nerea rammentò per quale motivo avesse avuto una gigantesca cotta per lui l’anno prima.
“Guillaume, che le hai fatto?”, domandò Abel con una leggera nota di esasperazione nella voce mentre tutti i presenti all’improvviso si zittivano e Guillaume, voltandosi verso l’amico, si ritrovava con otto paia d’occhi puntati su di sé.
“Assolutamente niente.”
“Sei sicuro di non averla chiusa in un armadio a muro prima di venire qui?” Antoine parlò incrociando le braccia al petto e studiando torvo il compagno di Casa dall’alto del suo metro e novanta, pronto a smettere di essere il dolce e gentile ragazzo di sempre per recuperare la sua mazza da Battitore dal baule.
“Io e Abel siamo arrivati insieme, di certo in caso mi avrebbe visto. Probabilmente non verrà, lo sapete come la pensa.” Guillaume tornò alla sua occupazione con una pigra stretta di spalle, poco interessato a sapere che fine avesse fatto sua cugina e per niente preoccupato a riguardo mentre Annika faceva silenziosamente il giro della stanza per raggiungere Leticia ed Etienne, accostando il capo a quello dell’amica per chiederle con un basso mormorio se non fosse il caso di controllare i Sotterranei per assicurarsi che il francese non avesse chiuso la cugina lì sotto.
“Secondo me in tal caso ce lo avrebbe detto, non si fa problemi a dire come la pensa.” Milad si strinse nelle spalle, poco propenso a credere che la compagna di classe avesse deciso di dar loro buca senza avvisare nemmeno i suoi due migliori amici, e Icaro annuì arricciando il naso stizzito:
“Già, a me una volta ha persino detto che non le piaceva la mia camicia. Assurdo.”
“Guillaume, ti avviso, se hai fatto sparire Gisèle ti aizzo contro i miei Fiammagranchi!”
Nerea gettò sul ragazzo un’occhiata fiammeggiante tanto quanto la sua minaccia, ma di nuovo Guillaume sospirò e scosse la testa, annoiato da quel mucchio di idiozie che gli toccava stare a sentire:
“Come se fosse possibile farla sparire, ci ho già provato quando andavamo all’asilo, cosa credete?!”
 
Dieci minuti dopo stavano tutti in piedi attorno al tavolo, con un posto vacante tra Nerea e Milad, e di comune accordo avevano deciso di attendere altri cinque minuti prima di iniziare. La Bellefuille stava in piedi spostando nervosamente il peso da un piede all’altro, le lunghe braccia strette al petto mentre continuava a gettare occhiate ansiose al suo orologio da polso, Milad si tormentava l’orecchino fissando pensoso il centro del tavolo e Icaro, in piedi tra lui ed Etienne, tratteneva sbadigli mentre l’amico non ci provava nemmeno, ormai piuttosto assonato.
Quando finalmente si udì bussare alla porta tutti sobbalzarono per la sorpresa, e mentre Guillaume si affrettava a far notare infastidito di aver sempre avuto ragione Antoine si allontanò rapido dal tavolo per andare verso la porta e assicurarsi speranzoso che al di fuori, in attesa e al buio, ci fosse proprio la sua amica. Gli otto restanti attesero in silenzio mentre la porta si apriva con un cigolio, udendo solo un indistinto mormorio prima che Antoine facesse ritorno con un sorriso sollevato sulle labbra:
“È arrivata.” 
Guillaume si astenne dal fare commenti solo perché erano già in ritardo, ma le occhiate torve che lanciò a tutti i presenti parlarono per lui mentre sua cugina, appesa la giacca a mantella blu notte con cui era arrivata, si affrettava a raggiungerli tenendo il capo leggermente chino sulle assi di legno del pavimento e senza ricambiare lo sguardo di nessuno, limitandosi a scusarsi per il ritardo con tono neutro prima di posizionarsi tra Milad e Nerea senza aggiungere altro.
Abel si astenne dal rimproverarla limitandosi a suggerire ai presenti di procedere scrivendo il proprio nome sui frammenti di pergamena che ciascuno aveva davanti sul tavolo, e per qualche istante gli unici rumori racchiusi tra le pareti di vetro del giardino d’inverno furono il fruscio delle punte delle penne sulla pergamena. Mentre scarabocchiava rapida il proprio nome Gisèle si domandò se scriverne uno falso rientrasse tra le sue possibilità, ma accantonò in fretta l’idea.
Quando tutti ebbero finito di tracciare i propri nomi con linee di inchiostro blu e ripiegato i foglietti su loro stessi Abel si chinò su qualcosa che aveva lasciato sul pavimento accanto a sé, sollevando una coppa di vetro che posizionò al centro del tavolo. Tutti stettero a guardare in silenzio il ragazzo estrarre la bacchetta e picchiettarne per tre volte la punta sul bordo della coppa, lanciando sull’oggetto un incantesimo non verbale che produsse delle lingue di fiamme celesti che presto lambirono la parte superiore della coppa.
Uno ad uno tutti e dieci si sporsero sul tavolo per gettare tra le fiamme azzurrine il biglietto con il proprio nome, osservando in silenzio la coppa ardere i frammenti di pergamena attendendo che l’oggetto facesse le sue scelte; l’ultima arrivata iniziò presto a tormentarsi le mani che teneva allacciate davanti a sé, poggiate sul tessuto scamosciato della gonna, fissando le fiamme con i grandi occhi chiari pregando che la coppa non scegliesse lei, ma quando le fiamme diventarono bianche una lingua di fuoco si sollevò fino a staccarsi dalle altre, andando a scomporsi e a formare, per un istante, l’immagine di una libellula che si librò brevemente in aria prima di dissolversi.
Tutti guardarono in silenzio il punto in cui la libellula era sparita e poi chinarono in silenzio gli sguardi sulla ritardataria, che strinse le labbra in una smorfia contrariata mentre sentiva il proprio stomaco contorcersi, preda di una morsa: la ragazza dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non imprecare e per la prima volta il suo sguardo indugiò sul resto dei presenti, tutti impegnati ad osservarla, chiedendosi se la coppa non avesse in qualche modo percepito il suo ritardo e la sua disapprovazione nei confronti di tutto ciò che in quella stanza la circondava e che rappresentava, finendo col punirla.
Abel, che di certo aveva immaginato quanto la compagna avesse sperato di non essere scelta, distese le labbra in un sorrisetto divertito che le fece venire voglia di schiaffeggiarlo e andarsene da lì, guardandola con un che di compiaciuto negli occhi chiari che riuscì solo ad incrementare il risentimento della strega:
Libellule. A quanto pare sei una dei fortunati eletti, quest’anno.”
Abel non si sforzò nemmeno di celare l’ironia con cui le si rivolse ma per una volta la diretta interessata non diede peso alle sue parole e non gli diede nemmeno la soddisfazione di mostrare alcun segno di amarezza. In fondo dopotutto era solo colpa sua, si disse lei con amarezza: avrebbe dovuto simulare un’influenza, assentarsi dalla serata. 
Mentre Gisèle malediceva mentalmente la sua incapacità di mentire e il suo spiccato senso del dovere, tutti elementi che l’avevano trascinata fin lì, le fiamme tornate azzurre si tinsero rapidamente di bianco una seconda volta, e un attimo dopo tutti e dieci stavano scrutando accigliati una lingua di fuoco staccarsi dalle altre e scomporsi andando a disegnare a mezz’aria una specie di radura, con tanto di alberi, piante e bassi arbusti.
“Credo che si riferisca a Nerea.”, mormorò dubbioso Antoine senza smettere di studiare accigliato la figura finchè quella si dissolse nell’aria in minuscoli ed intangibili granelli di polvere luminosa. Nerea al contrario di Gisèle sorrise, compiaciuta, e anche se sentiva di dover stare in silenzio chinò lo sguardo per gettare un’occhiata all’amica e darle una leggera gomitata incoraggiante che la francese incassò sforzandosi di sorridere, rincuorata dalla prospettiva di essere invischiata in quel compito sgradito in compagnia della sua migliore amica.
La coppa mostrò ai presenti la terza figura pochi istanti dopo, lasciando che delle fiamme si scomponessero in quello che tutti riconobbero rapidamente come un cavaliere a cavallo.
“Che caspita dovrebbe essere?”, domandò a voce alta Gisèle spezzando il rigoroso silenzio e fregandosene altamente della solennità che in teoria avrebbe dovuto aleggiare nella stanza. Icaro, offeso, indicò il cavaliere appena prima che l’immagine si dissolvesse, guardando la compagna come se la risposta fosse ovvia:
“Sono io! Le Prince Charmant, no?”
Gisèle non rispose, ma chinò il capo per guardarsi le punte delle francesine che portava ai piedi e non dare a vedere di star trattenendo faticosamente una risatina, divertita dallo sdegno di Icaro, mentre continuava a tormentarsi le dita dietro la schiena e il cugino le scoccava un’occhiata torva, intimandole silenziosamente di tenere la bocca chiusa fino alla fine.
 
“Manca una persona.”, annunciò Abel un paio di minuti dopo fissando inespressivo le fiamme appena tornate celesti a seguito di aver manifestato di aver scelto Milad, destando un raro sorriso sul volto del ragazzo. Il fuoco divenne bianco per l’ultima volta fino all’anno successivo mentre Gisèle scoccava un’occhiata in tralice in direzione del compagno di Casa, trattenendosi a fatica dal chiedergli per quale motivo lui potesse parlare e lei no.
“Etienne.”
Al vedere le nubi in tempesta fluttuare a mezz’aria sopra al tavolo Etienne sorrise e assestò una gomitata ad Icaro asserendo che di certo si sarebbero divertiti parecchio, pentendosi di aver parlato quando Abel lo guardò esasperato ricordandogli che divertirsi non sarebbe stato il loro obbiettivo per le settimane a venire.
Etienne si affrettò a farsi sparire il sorriso dalle labbra e una volta tornato serio annuì, anche se stava già pensando a come divertirsi alle spalle degli studenti del VI anno. Chissà, magari anche a discapito di sua sorella.
 
 
“Ma che fine avevi fatto? Pensavamo che Guillaume ti avesse rinchiusa in una torre!” Nerea lasciò il giardino d’inverno insieme a Gisèle, prendendo l’amica sottobraccio mentre Abel, dietro di loro, sigillava la porta con le chiavi che si era fatto consegnare dall’insegnante di Colture des Moldus il giorno prima.
“Figurati se quello può chiudermi da qualsiasi parte, stavo dormendo!”
“Cavolo, forse dovrei scusarmi con lui…”  Nerea prese a camminare accanto all’amica sul sentiero di ghiaia seguendo Icaro ed Etienne, che stavano già decidendo come tormentare gli studenti più piccoli, mordicchiandosi il labbro, sentendosi un poco in colpa – sentimento che non credeva avrebbe mai provato per Guillaume Delacroix – e indecisa sul da farsi mentre Gisèle la guardava sgranando gli occhi, quella sera azzurro scuro, inorridita:
“Sei impazzita? Con Guillaume non ci si scusa mai. Ti umilierebbe e te lo rinfaccerebbe per trent’anni, come minimo.”
“Quindi che faccio?”
“Fai finta di niente, pensa che presto farò comunque qualcosa che varrà le tue accuse.”
Quello dell’amica era un modo piuttosto bislacco di vedere la situazione, ma dopo un breve attimo di riflessione Nerea decise di non fare commenti e assecondarla, chiedendole invece con un sorriso se avesse già qualche idea a proposito del loro nuovo compito mentre la prendeva sottobraccio. Gisèle sembrò rifletterci per qualche istante, fissando pensosa Etienne ed Icaro precederle lungo la stradina che conduceva al castello prima di asserire accigliata di non detestare nessuno tanto da infliggergli la punizione di entrare nella Brigade, tolto suo cugino.
Possiamo farlo retrocedere e fargli rifare tutto da capo?”
“Francamente penso proprio di no.”
“Allora non ne ho idea.”
 
 
 
 
 

 
 
(1): Opera di Gioachino Rossini
(2): Pasticcino francese fatto con pasta choux
(3): Aria breve che chiude un recitativo
(4): Perdonate il mio black humor, la donna raffigurata è la ben nota presunta strega Giovanna d’Arco
(5): “Zenzero” in francese
 
 

 
 
 
………………………………………………………………………………..
Angolo Autrice
Buonasera mie care!
Sono molto felice di averci messo poco tempo per aggiornare, decisamente meno rispetto alla volta precedente. Questo capitolo finalmente si congiunge temporalmente con il prologo entrando nella seconda parte della storia, quindi da qui in avanti vedremo naturalmente i ragazzi del VII anno andare alla ricerca di qualche cavia da tormentare selezionare.
A presto,
Signorina Granger
 
   
 
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