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Autore: drisinil    16/11/2023    2 recensioni
[KageHina]
«Hai mai fatto una partita sotto la neve?» chiede Shoyo, senza smettere di fissare il cielo. I fiocchi gli colpiscono gli zigomi, la fronte, le labbra e si sciolgono a contatto col suo calore, lasciando tracce umide, che rifletttono la luce.
Tobio chiude gli occhi. «Ma quanto sei stupido? No! Ti pare possibile giocare a pallavolo in esterno con la neve?»
«Facciamolo!» esclama Shoyo, per tutta risposta, rosso in viso, eccitato.
Le fiamme gli danzano negli occhi, tutto in lui è sorriso.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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***
Questo capitolo è dedicato a GiorgiBi

con tutto l’affetto del mondo, 

per i suoi nuovi 16 anni 

***



Per un attimo c’è solo una stanza vuota, una lama di luce accecante domata da veneziane bianche, un letto in disordine, un grande zaino aperto, un tappetino da yoga verde mela arrotolato e fermato da un elastico, una mikasa che rotola piano lungo una pendenza invisibile.
Poi compaiono i capelli in fiamme, il viso, le mani più grandi e più inquiete, le spalle che si sono fatte più larghe.
Si siede per terra, la schiena appoggiata al bordo del letto, le gambe incrociate, le braccia scolpite che escono da una maglietta larga con il logo BB.
Per ultimo, alza lo sguardo. Gli occhi sono ancora quelli di un tempo: liquidi, ardenti, forse un po’ più scuri, come se la luce rappresa sul fondo crescendo si fosse sporcata. Si schiarisce la voce, si passa una mano fra i capelli in un gesto che sembra più che altro autoconforto.

 

«Ohi Kags, non so bene che sto facendo. Ma visto che non mi rispondi al telefono, che non apri le mie mail, che non c’è verso di parlarti in nessun modo, ho pensato che forse questo video ci riesco a fartelo arrivare. Non so ancora come. Pensavo di darlo a Yamaguchi-kun, che saprebbe come rifilarlo a Tsukishima, così arriva a Kuroo-san, e lui mi sa che lo vedi spesso. Oppure lo do a Tooru-san, che può girarlo direttamente a Japan, anche se forse Japan è il tipo che si fa troppo i fatti suoi per mettersi in mezzo in una cosa così… ma ci voglio provare lo stesso: è importante, Kags. Sul serio, è importante che almeno mi ascolti. Ti prego, guardalo tutto, fino in fondo. Poi se mi vuoi cancellare, va bene. Però guardalo. Okay?»

Non sembra convinto, oscilla il ginocchio destro seguendo il ritmo del nervosismo, gratta con l’unghia la traccia di un adesivo scollato sulla valigia rigida.

«Comunque, domani torno. Ho il volo alle otto del mattino e ecco, forse non te lo ricordi, o non te ne frega niente, ma domani sono esattamente due anni da che sono partito, che è quello che ti avevo promesso. Quel giorno, nel magazzino della palestra del Karasuno, quando si sono rovesciati gli scatoloni con il polistirolo… due anni, non un giorno di più, te lo ricordi, almeno, quel giorno?
Sembra passata una vita. Hai notato che qualche volta il tempo passa in un attimo, tipo il nostro terzo anno di liceo, e qualche volta invece ogni secondo è lentissimo, come quando sei al servizio in un matchpoint e tra che prendi in mano la palla e senti il fischio, ogni secondo dura un secolo?
Per esempio, mi sembra passato un attimo dall’anno scorso, quando sei venuto qui a luglio. E poi però, fra il momento in cui vedo i lustrini appiccicati alla suola delle tue scarpe mentre te ne vai, e adesso, che fisso lo schermo del telefono facendo finta di parlare con te (che non mi vuoi parlare), mi accorgo che si sono accatastati mille anni polverosi, in cui mi pare di aver solo pedalato, sudato e giocato, mangiato, dormito.»

Si gratta il collo, che è robusto quasi il doppio di quando era un ragazzino smilzo, il sole che filtra dalle persiane gli arriva addosso di traverso, colpendo una ciocca di capelli, un occhio fiammeggiante, l’angolo delle labbra, una spalla; per qualche motivo le efelidi brillano sulla pelle dorata, anziché confondersi con l’abbronzatura. Non sorride, curva appena le labbra e poi abbassa lo sguardo.

«Quando sei venuto qui a Rio, è andato un po’ tutto a cazzo, Kags, mi sa che l’ho capito tardi. Non è che ti ho detto bugie, o cosa, è che… io…  dai, ma quanto sei baka a farmi dire cose come queste chiuso in una stanza e parlando allo schermo del mio telefono?»

Abbassa le palpebre, prende un respiro, riflette. Piega le gambe, blocca gli avambracci contro le ginocchia, intreccia le dita, poi torna a fissare la videocamera. La fissa con sfida e con coraggio e con una specie di tristezza, che gli fa inclinare un po’ la testa dal lato del cuore, come se pesassero troppo entrambi.

«È che non ero pronto, Kags. Per niente. Non ero pronto a vederti, a parlarti, a cercare di capire come stavano le cose fra noi. Non lo sapevo come volevo che stessero. Ho detto tre frasi del cazzo, perchè le cose serie non sapevo come dirtele senza sembrare un coglione. Non ci ero arrivato che non potevo evitarla la figura del coglione. 
La verità, Kags, è che è stata dura. È stata un sacco dura, qui. E intendo tutto. Tutto, compresa la pallavolo, che era la cosa che contava di più. E non mi illudevo che sarebbe stato facile, ma pensavo che sarebbe stato… felice. Che stupido, nè Kags? È che la pallavolo è sempre stata felice, per me, una cosa che ti mette il fuoco dentro, che ti fa volare, anche se sei da solo nel campetto delle medie, anche se al torneo arrivi ultimo, perché pensi che crescerai, che le cose cambieranno, che diventerai un grandissimo figo di quelli che vincono e restano in campo. E poi al liceo era successo veramente. E quando sono arrivato qui, avevo solo un’idea vaga di quello che dovevo fare su me stesso, di quello che volevo fare con il beach. È pazzo il beach, ti smonta e ti rimonta, e sai che ti dico? Ti piacerebbe un casino.
Ma all’inizio, sembrava che tutto quello che toccavo diventasse merda. Ed è durato tantissimo e c’era solo merda ovunque. 
Merda del tipo che mi spaccavo le gambe sei ore al giorno in bici e comunque non ero sicuro di arrivare a fine mese, che se non ci fossero stati i soldi di Kenma, avrei dovuto tornarmene a casa con la coda fra le gambe. Merda che non riuscivo nemmeno a saltare, sulla sabbia. Che non avevo mai alzato una palla e non sapevo da dove cominciare. Tutto di merda, Kags, hai presente? Tipo la nostra pagella, e in più anche Tsukishima che ci prende per il culo. Ecco: di merda.»

Sorride, un sorriso cauto disegnato dalla nostalgia, vagamente imbarazzato. Si tocca la faccia, si strofina il mento, come se gli prudesse.

«Il guaio è che no, tu non ce l’hai presente com’è quando le cose vanno di merda. E il problema forse è questo. Perché della pagella non ti fregava niente (come a me), e dopo la scuola tutto il resto, alla fin fine, ti è venuto gratis.»

Si blocca, scuote la testa, tamburella con le dita contro il ginocchio, storce le labbra.

«No. Ho detto una cazzata: gratis no. Perché tu il culo te lo fai cento volte più degli altri e non sgarri mai e nessuno lo sa meglio di me. Ma il fatto è che dopo esserti fatto il culo, poi le cose vanno tutte al posto giusto, quasi da sole: il provino, i soldi, la squadra, la nazionale. Gli amici, Kags, che tu forse non ci fai troppo caso o pensi che non te ne freghi, perché sei sempre un grandissimo baka, ma lì è pieno di gente che ti vuole bene e a te ci tiene. E se ci pensi bene, lo sai che invece te ne frega. Te lo ricordi com’era alle medie, no? Ci sono cose che solo quando non le hai, capisci che avercele è importante.
Ecco: io qui mi facevo il culo e tutto quello che ci guadagnavo era mangiare sabbia, perdere tutte le partite, passare le serate solo come un cane rintanato sotto le coperte, a ripensare a tutte le cose di prima. A te, baka, che eri un po’ il riassunto tutte le cose di prima, e io non le avevo più. E lo sapevo benissimo che mi fregava di averle, mi  fregava tantissimo. Ma non ne avevo più neanche una, e nemmeno potevo volerle, perché bastava tanto così per farmi mangiare vivo dalla tentazione di fare marcia indietro e mollare tutto come uno sfigato. E faceva male, così tanto male che a un certo punto o mi buttavo di sotto o smettevo di pensarci e tiravo avanti. 
Capito? Dovevo smettere di pensarci.
Davvero Kags, io non lo so se puoi capirmi. Vorrei che ci riuscissi, vorrei cavarmela meglio a parole per spiegarti. Ma come si fa a far capire a te che significa quando tutte le cose che vuoi anziché avvicinarsi diventano lontanissime? 
Tu le cose che vuoi ce le hai sempre di fronte, ti impegni da matti e le afferri mentre corri in avanti, come i personaggi dei giochi di Kenma, le afferri nell’ordine giusto, tutte sempre e comunque a portata di mano, e ognuna che tocchi si trasforma in stelline colorate (sai con quel motivetto stupido di quando vinci nei videogiochi?): denaro, podi, contratti. E non è che non va bene, baka, te lo meriti. Sei un mostro, hai il talento che ti esce dal culo (come dice Tooru-san), sei disciplinato, sei tipo… nato atleta, con la medaglia al collo. È giusto così. Ma non vale per me.»

Si morde le labbra, mentre sembra che cerchi una parola difficile, o forse un concetto più sfuggente. Guarda di lato, come se fosse scritto sul muro, la luce gli scorre addosso, fondendosi con i suoi colori, gettando ombre diverse da prima. Dal buio emerge l’angolo delle labbra, un tendine del collo, la linea definita del bicipite.

«Io penso che tu certe cose non ce la puoi fare a immaginartele, certe sensazioni.
Tipo quando un giorno sei stanco morto, alzi la testa dal traffico e vedi la faccia di quel baka del tuo alzatore su un maxischermo, con quell’espressione che fai dopo un ace, che è proprio tipica, con le labbra strette per tenersi dentro il sorriso e gli occhi che diventano neri dalla concentrazione, perché vorresti metterne a segno subito un altro. Quello è il momento di farti una battuta cretina, baka, ma in nazionale mi sa che non te le fa nessuno. 
Ma lo sai che ho pensato in quel momento, Kags? A parte l’impressione di vedere una scena del genere.
Quello che ho pensato è che io non ero nessuno e non mi ero meritato niente.

Cioè, io avevo avuto per tre anni il miglior alzatore del Giappone come partner e come la avevo sfruttata questa fortuna? Cosa avevo ottenuto? Le chiappe indolenzite dal sellino, il portafoglio sempre vuoto, una solitudine terrificante e un’infilata di sconfitte lunga quanto tutta Copacabana.
La capisci la sproporzione, Kags? È qualcosa più che frustrante. O doloroso. È una cosa che ti marcisce piano piano, ogni volta che ci ripensi.
Me lo aveva detto Tooru-san, che l’invidia e l’amore, se li mischi, diventano veleno e ti ci ammazzi da solo. E io l’ho capito in quel momento cosa voleva dire, davanti al maxischermo, a quella tua espressione di trionfo tenuto sotto controllo, che pensavo di conoscere solo io e invece la stava vedendo tutto il mondo. 
Quella sera ho buttato nel cesso il portachiavi con la maglia della nazionale numero nove. Non so se ce l’hai più, il dieci, forse no. Non mi ricordo nemmeno più bene da dove era venuto fuori. Ma io me lo conservavo. Ci tenevo di brutto. Ci dormivo insieme. E quella sera invece ho pensato che fossero tutte cazzate e l’ho buttato via. Poi ho tirato lo scarico. Poi mi sono messo a piangere come un deficiente e ho allagato il bagno per smontare il sifone.
E alla fine l’ho chiuso in un cassetto.»

Si infila la mano in tasca e tira fuori un pezzetto di metallo luccicante. È un po’ scolorito, ma si vede benissimo il 9 sullo sfondo rosso. Lo fa oscillare verso la videocamera, appeso all’indice, e poi lo stringe nel palmo. 

«E insomma, eccolo qui. E forse non significa niente, di per sé. Ma quello che sto cercando di dire, Kags, è che quella sera ho capito che io dovevo staccarmi da te. Chiudere. Lasciare che l’infanzia finisse e cominciasse quello che veniva dopo. 
Tu lo avevi fatto, eri andato avanti, e infatti eri lì che segnavi un ace dopo l’altro con la nazionale. Io invece passavo le notti sveglio a guardare le foto di noi a scuola, noi ai tornei, noi in bici, noi in giro per Tokyo. Ed era sempre il passato che si mangiava a morsi il futuro.
La tua vita che brillava e la mia che non significava niente. E non è che uno possa evitare di farli, i confronti; non con la persona a cui pensi per prima cosa al mattino quando ti svegli, non con la persona da cui pensi di voler tornare per dimostrargli qualcosa. Non con il tuo rivale, con il tuo partner. I rivali servono apposta a fare i confronti, no? Ma io non potevo più farlo, o sarei rimasto lì, fermo, a guardarti le suole piene di lustrini e il numero sulla schiena. Sarei rimasto indietro per sempre, col fiatone e le gambe pesanti come macigni.
E mi sono reso conto che questo distacco era ancora tutto da fare. Perché anche se non ci vedevamo mai e ci sentivamo una volta al mese, la verità è che pensavo solo a far passare i giorni sul calendario e tornare, come se poi in Giappone avrei potuto ritrovare le cose di prima: la scuola, il campetto sulla statale, la palestra vuota mentre fuori nevica (te lo ricordi?), i baci alla fermata dell’autobus, dietro quel cartello con una pubblicità diversa tutte le settimane. E quello che facevamo chiusi a chiave in camera invece dei compiti, che un po’ spiega perché abbiamo studiato insieme due anni e i nostri voti sono peggiorati. Non è che siamo due geni, ma ci siamo impegnati per fare proprio schifo.
Sai che allora io del sesso non avevo capito niente. Penso neanche tu. Fossi stata una femmina, sarei stata una di quelle baka che si ritrovano incinte e nemmeno capiscono come è successo. Tipo che non ero nemmeno sicuro che quello fosse sesso. Pensavo di sì, ma non è che avessi chiesto a qualcuno o cercato da qualche parte, non me ne importava di cos’era, mi stava bene e basta. Mi piaceva un sacco. Perché eri tu, perché funzionava, perché faceva stare bene anche quando faceva male, perché si trattava di capirsi meglio, di stare vicini, di sentirsi… non lo so, interi, di comunicare, che a parole non ci siamo mai riusciti e con il corpo invece era facilissimo.
Ma staccarsi voleva dire anche questo, Kags.
Accettare che tu fossi cresciuto e dare a me stesso il permesso di crescere anch’io.  Di fare esperienze, di dare nomi alle cose, di farmi qualche domanda diversa, che non avesse Kageyama come risposta, tanto per cambiare.
Ti pare che io potevo credere che tu non avessi tutte le occasioni del mondo di conoscere gente, di farti piacere qualcuno cento volte meglio di me? Ti pare che io potevo credere che tu pensassi ancora a noi come eravamo quando avevamo quindici anni?
Quando sei venuto a Rio ho messo le mani avanti, ho cercato di dimostrarti che ero cresciuto, che potevi stare tranquillo, che potevo accettare che tu andassi avanti e che boh, anch’io stavo combinando qualcosa.
E non l’ho capita tanto, in quel momento, la tua reazione. Non ho pensato nemmeno per un secondo che tutte le sciocchezze che ci siamo detti da ragazzini tu le avessi prese per buone e ci credessi ancora. 
Io ci credevo? A quel punto, non lo sapevo più.
Di sicuro io non ero lo stesso e tu nemmeno.
E quindi le cose che le persone si dicono e si promettono valgono ancora anche se quelle stesse persone crescono e cambiano tanto? Tanto da non riconoscersi?»

Alza le spalle e sospira, gettando un lungo sguardo obliquo verso la videocamera. Degutisce, allunga la mano per afferrare la palla che si è fermata contro la zampa di un tavolino fuori dall'inquadratura e la fa roteare sul pavimento, seguendone le scie di colore. Alla fine la palla si ferma e lui scuote il capo, rassegnato o forse solo triste.

«Non la so la risposta, Kags. Se fosse un quiz a crocette lo sbaglierei, come sempre.»

Quando rialza lo sguardo, sembra cresciuto all'improvviso, è uno sguardo coraggioso, diretto, perfino un po' insolente. Le fiamme gli danzano negli occhi come riflessi del futuro

«Quello che so è che sono cambiato.
E ora lo posso dire: sono cambiato in un modo che forse mi piace, in cui mi riconosco. Che è valso lo sforzo e il culo grandissimo che c’è voluto. E in questo cambiamento ci sono il beach, il nuoto, la bici, lo yoga, chilometri e chilometri di corsa sulla spiaggia cercando di ritrovare la tua cadenza da metronomo, ma c’è anche il coraggio di mettersi in gioco, il farsi avanti, i falò sulla spiaggia, le sbronze, i nuovi amici, i video idioti su youtube, le ragazze (e qualche volta i ragazzi) che ti lasciano il numero nel borsone o appiccicato sotto la condensa del bicchiere, le notti a ballare sul tavolo e quelle in cui ti diverti e basta con qualcuno. Ci sono i conti da pagare, la lavatrice, i pavimenti da pulire, le cavolo di scottature se non ti decidi a mettere la crema solare come si deve, le cene che è meglio che impari a cucinarti se vuoi mangiare qualcosa di decente oltre alle porcherie dei baracchini in spiaggia. Una lingua nuova, un pensiero nuovo, una nuova idea di se stessi, perché poi la cosa più difficile è sempre guardarsi allo specchio.

Ohi, Kags, io sono cambiato un casino, forse un po’ sono diventato grande. E mi sa che sono più figo. Più forte in campo. E magari un po’ meno boke.
Ma di quello che ero prima, di quello che provavo, penso che siano rimaste alcune cose importanti, anche se non so fare la lista. E chi lo sa se è abbastanza per te, o se te ne importa qualcosa, certo però se ti ostini a non parlarmi non lo sapremo mai.
Quindi io ora non lo so tu che vuoi fare. Ti dico cosa faccio io: io domani torno e mi fermo a Tokyo qualche giorno. La prima cosa che ho in programma, dopo una dormita spaziale e una mangiata di omurice, è venire alla palestra degli Adlers, anche se non mi aspetto che accetti di vedermi.
Dopo riparto, vado un mesetto a Osaki da mamma e Natsu e subito dopo cominciano i provini. Ne ho tre da fare per la prima divisione e poi staremo a vedere se è vero che ho combinato qualcosa di buono.
Una volta in campo, Kags, non è che potrai fare finta di non conoscermi. Io di certo non mi lascerò ignorare, lo sai che sono capace di essere ingombrante.
E con te non voglio fare finta. Non ho mai fatto finta, con te, Kags, neanche una volta. E la novità è che sono diventato anche più paziente di prima, quindi, che ne so, se hai bisogno di tempo, perché ti fanno ancora una paura fottuta i cambiamenti, io posso aspettare. Perché credo proprio che ne vale la pena.
Se invece è finito tutto, okay, siamo adulti, lo posso capire, ma devi dirmelo in faccia, devi dirmi i motivi, dobbiamo almeno parlare, anche se facciamo schifo a parole.
Insomma, domani torno, baka, vedi di non scappare; ormai non ci sto più a farmi lasciare indietro…»

Lascia che la frase si spenga e si mordicchia il labbro, incerto se aggiungere qualcosa.
Decide di no, si alza in piedi con l’agilità di un gatto, aggira la videocamera e poi le sue labbra e uno zigomo appaiono sgranate e troppo vicine all’obiettivo, un tassello di pelle abbronzata, due lentiggini, l’angolo di un occhio color caramello dorato.
E poi niente più.


 

Kageyama riceve il video da Wakatoshi, che borbotta qualcosa di insensato sul non interferire nelle vite degli altri, e chiede scusa.
Lo riceve anche da Yamaguchi, allegato a un messaggio imbarazzato su line, e da Kuroo Tetsurou, che si prende il disturbo di venire apposta dagli uffici di Shibuya con una chiavetta usb a forma di ranocchio, particolarmente stupida. Che qualcuno possa tifare Frogs, per Kageyama, è incomprensibile: paradossalmente l’unico giocatore decente là in mezzo è Tsukishima, alto due metri e con le mestruazioni perenni.
Comunque, Tobio cancella tutte le copie.
Nell’anteprima, si vede il grandissimo boke seduto per terra, nella stanza sfatta di chissà chi in Brasile. Fa male guardarlo, sembra vicino. E invece non lo è.

"Tobio, quando te la fai passare?" gli ha chiesto Miwa qualche giorno prima, mentre fingeva di tagliargli i capelli, e invece era in vena di moralizzarlo.
Non le ha risposto, anche se la risposta è facilissima.

Mai.
Il senso di vuoto non passerà mai, la privazione, la fame, il buio in cui è precipitato; diverso, diversissimo da quello di tanti anni prima. Questo non è un buio che avvolge, ma un buio che schiaccia, da tutte le direzioni. Un lento, irrefrenabile affondare, vedendo le luci tremule della superficie sempre più flebili e lontane.
Alla fine, l’oceano che c’è fra Tokyo e Rio l’ha avuta vinta, ha spalancato le sue fauci e l’ha inghiottito, così, intero, come fanno quei serpenti che non hanno nemmeno la grazia di morderti, ti stritolano e ti mandano giù.


Tobio preme CANC e chiude gli occhi, mentre il video sparisce. Tre volte.


 

 

   
 
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