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Autore: Shailene_bird    07/02/2024    0 recensioni
Durante un volo intercontinentale Takumi, ormai trentenne, ripensa ai tempi del liceo e al suo rapporto con Asami, una ragazza giapponese che scompare dalla sua vita all'improvviso e di cui nessuno ha più memoria tranne lui stesso. Per scoprire la verità su di lei Takumi, che da sempre sogna di diventare un pianista come suo nonno, compie appena diciottenne un viaggio nel lontano Giappone assieme alla madre e al suo migliore amico Thomas.
Tuttavia, venuto a conoscenza della verità sulla ragazza, la sua vita cambierà completamente e dovrà fare i conti con quello che nel suo mondo ha sempre considerato irreale.
Guardando dal finestrino dell'aereo, diretto laddove anni prima aveva lasciato una parte di sé, e attraverso dei dialoghi con una signora anziana seduta al suo fianco, Takumi rifletterà su quanto ha perso, ricordando un amore che non ha mai dimenticato, le amicizie degli anni giovanili e il rapporto speciale con la madre, alla ricerca del suo posto nel mondo.
NDA
Pubblicherò solo i primi 3 capitoli di questo romanzo per darvi un assaggio della storia. Il resto, se vi andrà di leggerlo, potete trovarlo su Amazon scrivendo Kiss the Rain Sara Manfredi. Grazie di cuore ai lettori!
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 3 
 
«Signori, volete qualcosa da mangiare per pranzo?».
La voce della hostess catturò la mia attenzione, così mi voltai a guardarla.
Viaggiando si perde la cognizione del tempo, soprattutto quando il volo è intercontinentale. Avevo sempre pensato all’aereo come a una sorta di macchina del tempo che ti trasporta nel futuro o nel passato a seconda della destinazione. Io sarei andato nel futuro e questo un po’ mi spaventava, perché quel futuro non ero ancora pronto ad affrontarlo.
«Cosa offrite?», chiese la signora di fianco.
«Pollo con verdure, riso o salmone».
Avevo scelto la class economy, non potevo permettermi di viaggiare in business class, ma forse non ero nemmeno adatto a quel tipo di comfort.
«Per me allora un po’ di riso. Tu cosa vuoi?».
«Pollo con verdure, grazie», dissi. La hostess ci sorrise e se ne andò.
«Senti ragazzo, non ti ho ancora chiesto come ti chiami».
«Takumi, signora».
«Un nome particolare».
«Già, me lo diede mio nonno. Uno dei suoi migliori amici era giapponese così ne ho ereditato il nome».
«Ma che stranezza! Devo confessarti che questi nomi dati in onore di altre persone mi fanno storcere sempre il naso. Voglio dire, non è meglio dare al proprio figlio un nome che sia solo suo? Che lo descriva per ciò che potrà essere e non per ciò che è stato qualcun altro?».
Riflettei sulle sue parole per alcuni secondi, cercando di capire se quella signora stesse scherzando o meno, ma visto che aspettava una mia risposta, capii che era seria.
«Sì, forse ha ragione, ma se ci pensa avremo sempre un nome uguale a qualcun altro».
«Quindi non hai mai percepito il peso del tuo nome?». Senza rendermene conto scoppiai a ridere.
«Certo che no! Magari un po’ all’inizio quando ero piccolo, ma io sono Takumi e basta, non sono l’amico di mio nonno».
La signora mi scrutò attentamente, come se stesse pensando al mio punto di vista come a un nuovo modo di vedere la questione.

«Sì, mi hai convinto ragazzo, probabilmente è come dici tu».
Le sorrisi poi tornai a guardare il finestrino. La tempesta si era appena calmata e un gregge di nuvole bianche sfumava sotto di noi.
«Lei invece? Come si chiama?».
«Clelia».
 
 
La notte non dormii. L’espressione che lessi negli occhi di Asami poche ore prima continuava a scorrermi nella mente senza darmi tregua. Quando mi alzai dal letto la mattina ero pieno di dolori.
Dopo colazione mi esercitai a suonare, ma ciò che di solito tendeva a rilassarmi quella volta ebbe l’effetto opposto. Mi affacciai alla finestra di cucina per vedere com’era il cielo e dato che non accennava a piovere, decisi di andare a correre nei dintorni di casa.
Quella mattina percorsi una distanza maggiore del solito, arrivai fino al laghetto in cui andavo spesso da bambino con mia madre e i miei amici d’infanzia. In cima ad uno dei platani c’era ancora la casetta dove ci rifugiavamo da piccoli. Era la nostra base segreta, dove organizzavamo cacce al tesoro durante il giorno e ci raccontavamo storie di paura la sera, quando potevamo osservare le stelle guardando dal buco sul tettuccio. Ormai era vecchia e sembrava che nessuno ci fosse più salito, le stecche di legno usate come scala erano inagibili e mangiate dalle tarme. Fu particolarmente triste ritrovarla in quello stato.
Mi sedetti su una panchina che si affacciava sul lago e mi persi a guardare i piccoli di anatra che scorrazzavano da una parte all’altra. Improvvisamente mi tornarono alla mente i bei momenti della mia infanzia e mi accorsi di quanto fossero lontani e al tempo stesso vicini quei ricordi. Mi sembrava di poterli rivivere e toccare con mano come se fosse trascorso un solo giorno da allora, ma se mi fossi guardato a uno specchio in quel momento avrei di sicuro pensato l’opposto. Tuttavia, immaginare quei momenti felici mi fece provare un po’ di nostalgia, la stessa che Asami avrebbe definito Natsukashii.
Erano le undici e il sole si stava facendo spazio tra le nuvole grigie di quel giorno nebbioso, scaldandomi leggermente il viso. Nonostante fosse domenica mattina non c’era quasi nessuno, solo qualche passante che portava a giro il cane o dei ragazzi che si allenavano. Poi notai in lontananza una ragazza seduta su una panchina assorta nella lettura di un libro e in quel momento gli occhi di Asami tornarono prepotentemente nella mia testa.
«Asami...», sussurrai.
Senza pensarci mi alzai e cominciai a correre verso di lei.
«Asami», ripetei a pochi metri.
«Come?».
Da quel momento cominciai a vedere Asami nel viso di ogni estraneo che incontravo. Era come se di colpo il mio cervello avesse perso la capacità di riconoscere i volti delle persone. Come se la mia dannata voglia di rivederla mi avesse sottratto quel poco di lucidità che mi bastava a capire chi avessi di fronte.
«Mi scusi, l’ho confusa con un’altra persona».
Consapevole di essermi sbagliato, ripresi la mia corsa verso casa.
Da quando mi ero svegliato quella mattina, avevo provato in tutti i modi a cancellare dalla mia mente la sensazione di aver mancato qualcosa, di essermi perso un dettaglio importante, di non aver capito niente di quello che era successo fino a quel momento, ma non ci ero affatto riuscito.
Una fame improvvisa mi attanagliò lo stomaco e non era cibo ciò che il mio corpo richiedeva, ma Asami. Avevo fame di vederla, di sentire la sua voce come se non lo facessi da molto tempo, come se dentro di me la paura di perderla che avevo quando chiacchieravamo seduti sulla panchina di scuola, fosse diventata di colpo reale.
Così invece di correre verso casa mia, mi diressi istintivamente verso quella di Asami. Mi fermai solo quando arrivai davanti il cancello, quando ebbi l’impressione che lì dentro non ci fosse nessuno. L’abitazione era uguale alle altre volte, mancavano solo i fiori rossi sul balcone d’ingresso, gli ombrelli dentro al cesto di vimini sulla soglia della porta e la bici di Asami in giardino.
Il mio cuore non voleva saperne di calmarsi, i polmoni bruciavano per la corsa ed io mi sentivo come se già sapessi quello che di lì a poco sarebbe accaduto.
Quando suonai il campanello di casa notai che non c’era più neanche la targhetta col suo nome e l’indirizzo di residenza. Continuai a suonare al citofono per i cinque minuti consecutivi, fino a che non apparve il vicino di casa.
«Ehi ragazzo, cerchi qualcuno?», disse sull’uscio della porta.
«Sì, sto cercando le persone che abitano qui, Asami e sua nonna».
«Asami?».
«Sì, ha la mia stessa età, diciotto anni».
«Ma ragazzo, qui non ci abita nessuno da ormai due anni».
«Che cosa...», sussurrai.
Il vicino, forse notando il mio turbamento, si avvicinò al cancello.
«Forse hai sbagliato indirizzo».
«No, lei abita qui, ne sono sicuro. Ci sono stato una volta».
«Come ti ho detto prima, ragazzo, questa casa è disabitata da ormai due anni. Guarda là, c’è pure il cartello con scritto “Affittasi”».
«Lei è sicuro di quello che dice?», chiesi.
«Certo, se ci fossero stati dei vicini, lo saprei di sicuro, no?», rispose lui accennando un sorrisetto divertito.
«Tutto bene, ragazzo?», aggiunse preoccupato.
«Sì, mi scusi», dissi frettolosamente.
Tornai a casa camminando e il piccolo vuoto che si era formato dentro di me la sera prima si fece un poco più largo.
 
 
«Beh, dai pensavo peggio, questo riso non è poi così male. Il tuo pollo invece?».
«Un po’ secco, ma passabile».
Mangiare sull’aereo mi ricordò quando alle elementari pranzavamo tutti insieme alla mensa, il cibo aveva lo stesso sapore, qualcosa che non ti piace ma che comunque trovi il coraggio di buttare giù.
Guardai per un secondo fuori dal finestrino e notai che il tempo stava di nuovo peggiorando. Qualche lampo illuminava l’orizzonte e in quel momento, senza rendermene conto, cominciai a contare.
«Uno, due, tre...», sussurrai.
«Che fai?», disse Clelia incuriosita.
Mi voltai di scatto come se mi avessero appena sorpreso a rubare.
«Oh, niente, è una cosa che ho imparato quando andavo al liceo».
Il ricordo di quella sera trascorso con Asami era più nitido di quanto mi aspettassi. Più passavano gli anni più mi accorgevo di perdere lungo la strada certi dettagli o immagini, ma soprattutto la sua voce. Non riuscivo più a ricordarla come in passato e nonostante mi sforzassi di rievocarla nella mia testa non aveva più lo stesso potere e la stessa consistenza. Era diventato qualcosa di leggero, come un piccolo cinguettio di uccello che a malapena riesci a percepire. Spesso mi chiedevo quanto tempo ancora avessi a disposizione prima di dimenticarmi del tutto di lei.
«Dai racconta, sono curiosa».
«Ecco, io...», borbottai.
«È qualcosa che non riesci a raccontare, non è così?».
Rimasi in silenzio.
«Fa niente se non vuoi raccontarmelo, dopotutto i segreti sono segreti, no?», disse Clelia sorridendo e mangiando l’ultimo boccone di riso rimasto nel piatto.
Anche Asami diceva così.
«Non male, dovrò lasciare una critica positiva alla compagnia aerea», disse Clelia toccandosi la pancia soddisfatta.
Finii il mio banale pollo con verdure mentre lei si appisolò poggiando la testa sul sedile.
 
 
Quando aprii la porta d’ingresso di casa, mia madre sobbalzò per lo spavento.
Stava cucinando il ragù di carne per la cena. Era facile per me capirlo, mi bastava girare la chiave nella serratura e aprire leggermente la porta. Ogni volta il profumo del pomodoro misto alle erbe aromatiche mi inondava le narici facendomi venire una gran fame. 
«Ehi Takumi! Ma ti sembra il modo di entrare così di corsa? Mi hai fatto prendere un colpo!».
«Scusa mamma, ma ora ho fretta», tagliai corto mentre mi dirigevo in salotto.
«Sempre gentile eh», gridò lei dalla cucina.
Frugai nello zaino alla ricerca del numero di telefono di casa di Asami. Iniziai a digitare nervosamente le cifre sulla cornetta, sbagliandone qualcuna per la foga del momento. Restai per alcuni secondi in ascolto, mentre sentivo i battiti del mio cuore come se uscissero dal petto. Il telefono non squillò nemmeno una volta. Riprovai diverse volte, ma la linea sembrava inesistente. Ero appena tornato da casa sua, cosa mi sarei dovuto aspettare?
«Ehi Takumi, che succede?», chiese mia madre affacciandosi dalla cucina.
«Com’è possibile?», sussurrai.
Rimasi attaccato alla cornetta del telefono per diversi minuti, come se sperassi di sentire la voce di Asami da un momento all’altro, ma ciò che sentivo era il silenzio, quello vuoto, quello che non si può comprendere perché non racconta niente di sé.
«Takumi...».
La voce di mia madre risuonava nell’aria ma non riuscivo a sentirla. La verità era che improvvisamente mi sembrava di non sentire più niente. Una lacrima scese sulla guancia senza che me ne accorgessi, senza che le avessi dato il permesso di uscire, mi toccai istintivamente il viso per asciugarla, restando stupito della mia reazione. Non ricordavo neanche quando fosse stata l’ultima volta che avevo pianto per qualcosa, non lo facevo quasi mai.
«Scusa mamma, ma vorrei restare un po’ da solo. Non preoccuparti per me».
«Come faccio a non preoccuparmi per te. Sono tua madre!».
«Allora non esserlo! Almeno per oggi. Per favore».
Mia madre restò in silenzio, forse comprese il mio stato d’animo. Mi sentii in colpa per averle risposto in quel modo, chissà cosa avrà pensato di me allora.
Riattaccai il telefono e me ne andai in camera. Mi sdraiai sul letto e mi misi le cuffie alle orecchie.
Di colpo mi tornò in mente il pomeriggio in cui andai a trovare Asami a casa sua dopo la scuola. Era maggio e in classe ci avevano affidato un tema di letteratura da svolgere in coppia ed io mi ero proposto di lavorare con lei. Ricordo ancora la sua espressione quando gridai alla classe il suo nome.
«Takumi, tu con chi vuoi stare? Sono rimasti Diana, Thomas e...», cominciò a dire la professoressa.
«Io sto con Asami!», gridai alzandomi in piedi, mentre i miei compagni ridevano di sottofondo e Tommy mi guardava divertito.
In quell’istante Asami sorrise dolcemente. Era sorpresa, ma perché, ancora non l’aveva capito?
Prima di andare a casa sua, passai dalla mia pasticceria di fiducia, dove andavo ogni domenica mattina con la mia famiglia. La loro specialità era la sfoglia alla crema, ne comprai un paio assieme a un pacchetto di bustine di tè verde per sua nonna. Asami mi aveva detto che ne beveva sempre una tazza prima di andare a letto.
Quando arrivai davanti casa sua ero molto agitato, non ero mai stato a casa di una ragazza della mia età e la cosa un po’ mi turbava. Suonai il campanello e dopo pochi secondi il cancello si aprì.
Il portone d’ingresso si spalancò mostrando una calda luce dall’interno, Asami era là, sull’uscio della porta, e indossava un maglioncino di lana bianco e un paio di pantaloni blu.
«Ho portato questi», dissi all’ingresso.
«Cosa sono?».
«La mia sfoglia dolce preferita e del tè per tua nonna».
«Ma Takumi, non dovevi! Non è mica una cena da fidanzati questa eh?», scherzò Asami.
«Beh, hai ragione, ma la mia famiglia mi ha insegnato così quindi...», mi grattai la testa imbarazzato.
«Sei molto dolce».
Le sorrisi poi entrammo. Mi tolsi le scarpe all’ingresso e andammo in cucina.
La casa di Asami non era molto grande, ma aveva qualcosa che la rendeva accogliente. Il pavimento era a parquet, le stanze erano divise da porte scorrevoli e l’arredamento infondeva un’atmosfera orientale. E poi tutto sembrava pervaso dal profumo agrumato dei capelli di Asami.
«Preferisci un tè o una cioccolata calda?», chiese Asami mentre sistemava le sfoglie che le avevo portato su un piccolo vassoio.
«Se non è troppo disturbo opterei per la cioccolata».
«Mi sa che la prenderò anche io. Intanto bollo l’acqua per il tè della nonna. Dopo vorrei fartela conoscere».
«Che tipo è tua nonna?», le chiesi.
«Nonna è un’amante della letteratura, le piacciono soprattutto i romanzi di autori classici come quelli di Jane Austen o i gialli di Agatha Christie. È molto brava a cucinare i dolci e ama scrivere poesie, anche se adesso non può fare niente di tutto questo. La sera prima di addormentarsi mi chiede di leggerle alcune pagine dei suoi romanzi preferiti. Con quelli finisce sempre per dormire serena».
«Ecco da chi hai preso allora!», esclamai.
«Attento che brucia», disse Asami porgendomi la tazza di cioccolata a cui diedi un piccolo sorso. 
«Accidenti! Mi sono strinato la lingua. Adesso non sentirò più nemmeno il sapore».
Asami scoppiò improvvisamente a ridere.
«Guarda che non è affatto divertente sai».
«Sei così buffo Takumi».
Asami me lo diceva così tante volte che alla fine persi il conto, ma a me piaceva quel suo modo di descrivermi, soprattutto il tono di voce che usava per dirmelo.
«Takumi, ti sei mai innamorato?», chiese Asami mentre sorseggiavamo la cioccolata.
«Eh? Che cosa?», esclamai quasi versandomela addosso.
«Sei mai stato innamorato?», ripeté Asami, anche se avevo capito benissimo quello che mi aveva chiesto.
«Ecco, io in realtà...».
No, prima di Asami nessuna ragazza mi era mai interessata davvero.
«Non proprio. E tu?», dissi.
«Secondo te cosa si prova quando si è innamorati?», chiese Asami ignorando la mia domanda.
«Non saprei, ma credo che quando si è innamorati lo si capisca. È qualcosa che senti dentro. Hai sempre voglia di vedere quella persona e potresti starci per ore perché non importa quello che fai, ti basta stare con lei».
«Parli come se lo fossi, sai? Innamorato, intendo».
Sorrisi istericamente grattandomi la testa.
«No, è che lo dicono tutti che è così, no? Sarà per tutti uguale immagino».
Asami mi guardò e sorrise.
«In ogni caso deve essere bello innamorarsi», disse finendo di sorseggiare la sua cioccolata. Asami si alzò e pose la sua tazza nel lavandino.
«Dai vieni, ti voglio presentare mia nonna».
La nonna di Asami stava per la maggior parte del tempo in camera sua. Guardava la televisione o ascoltava la musica alla radio. Si alzava poche volte, solo per i pasti o per andare in bagno.
Arrivati davanti camera sua, sentimmo provenire dall’interno una melodia classica di cui riconobbi subito l’autore, Beethoven. Asami tirò la porta scorrevole. Sua nonna era seduta sulla poltrona e con gli occhi chiusi muoveva le mani a ritmo di musica come fa un maestro d’orchestra.
«Asami cara!», disse lei non appena ci vide.
«Nonna, voglio presentarti una persona».
Mentre Asami pronunciò quelle parole, sbucai alle sue spalle e mi feci vedere.
«Salve, io sono Takumi».
«Finalmente conosciamo questo ragazzo», disse entusiasta.
Mi sedetti accanto a lei e cominciammo a parlare di qualsiasi cosa, soprattutto di musica classica. Asami ci lasciò da soli, disse che sarebbe andata in cucina a preparare il tè.
La nonna di Asami era davvero come me l’aveva descritta. Carismatica, curiosa e amante dell’arte in tutte le sue forme. Mi raccontò di Asami quando era piccola, disse che era introversa, gentile, dolce e altruista, ma soprattutto intelligente.
«Allora non è cambiata poi molto, Asami è così anche adesso».
«Ti piace eh ragazzo?».
«Cosa? Ecco, noi...».
«Mia nipote è una delle cose più preziose che ci siano in questo mondo e sai come si dice, no? Che le cose più preziose sono anche le più fragili».
«Io penso che Asami sia in realtà molto forte», dissi convinto delle mie parole.
«Hai ragione. Lei è davvero forte».
In quel momento le labbra increspate della nonna di Asami si accesero a formare un lieve sorriso. Mi soffermai sui lineamenti del suo viso, scavato dall’incedere dell’età. I suoi occhi erano leggermente allungati e scuri, ma la luce che li attraversava sembrava custodire qualcosa di prezioso.
«Sei il primo ragazzo che mi fa conoscere, lo sapevi?».
«Mi fa piacere sentirlo», borbottai imbarazzato. L’espressione della nonna cambiò improvvisamente.
«Si sente bene?», chiesi preoccupato.
Lei socchiuse le labbra come se stesse per dirmi qualcosa di importante, poi le richiuse e si limitò ad annuire.
«Nonna, adesso dobbiamo fare la ricerca di letteratura, se hai bisogno chiamami».
«Certo mia cara. Ciao Takumi, sono felice di averti conosciuto», disse la nonna dissimulando il suo reale stato d’animo.
Non appena Asami uscì dalla camera, lei mi guardò intensamente e nei suoi occhi avvertii una richiesta di aiuto che non riuscii a comprendere. Quando le voltai le spalle e uscii dalla stanza mi sentii improvvisamente a disagio. Il corridoio sembrava più stretto del solito e nella mia testa correva una miriade di pensieri confusi.
«Tutto bene Takumi?», disse Asami una volta entrati nella sua camera.
La stanza era piccola ma confortevole, c’era una scrivania davanti la finestra e una libreria di fianco alla parete. Mi guardai attorno prima di risponderle, ancora frastornato dall’espressione della nonna. La voce di Asami, in quel momento, mi riportò alla realtà.
«Sì certo, tutto bene», farfugliai.
«Sai già cosa fare come approfondimento?», chiese.
«Pensavo a qualcosa sul mito di Piramo e Tisbe», proposi.
Asami acconsentì, così trascorremmo due ore del nostro tempo a segnare appunti e a ragionare su come svolgere il tema.
«Quindi i frutti del gelso sono rossi per il sangue di Piramo e Tisbe?», dissi.
«Esatto. Secondo te Takumi, che cosa voleva dire Piramo a Tisbe prima di morire?».
«Credo avrebbe voluto dirle molte cose. Secondo me era piuttosto arrabbiato».
«Arrabbiato?».
«Sì, deluso direi. Voglio dire, si è ucciso perché credeva che Tisbe fosse stata azzannata dal leone e poi appena prima di morire ha scoperto che si era sbagliato. Io sarei arrabbiato».
«Saresti arrabbiato perché uccidendoti hai perso la possibilità di continuare a vivere con Tisbe o perché quell’incomprensione ti ha fatto perdere la tua vita inutilmente?».
Non so nemmeno io perché dissi quelle cose e non avevo realizzato che le mie parole avrebbero potuto ricevere una doppia interpretazione. Ragionai in silenzio, mentre Asami aspettava impaziente la mia risposta.
«Forse entrambe le cose».
Asami sembrava turbata e prima di riprendere a parlare esitò.
«Tutti conoscono la storia per come l’ha raccontata Ovidio, ma nessuno sa che Piramo, prima di morire e di guardare per l’ultima volta Tisbe, ha guardato il cielo. Chiedeva di essere salvato e non perché stava perdendo inutilmente la sua vita, ma perché stava perdendo la possibilità di vivere ancora il suo amore e l’idea di averlo fatto in un modo così tragico e irrazionale lo aveva devastato. Piramo, quando guardò negli occhi Tisbe per l’ultima volta, avrebbe voluto dirle “Mi dispiace”».
Guardai Asami pronunciare quel discorso con la sicurezza di chi l’ha vissuto in prima persona e fu proprio quella certezza che mi lasciò senza parole.
«Come fai ad esserne così sicura? È una cosa che hai letto in qualche libro?», chiesi. Asami abbozzò un sorriso.
«Fidati delle mie parole, ok?». Ancora dubbioso annuii.
Alla fine scrivemmo tre pagine di foglio protocollo. Il titolo del nostro saggio fu “Le parole non dette”. La professoressa rimase così entusiasta del nostro lavoro che ci diede un ottimo voto.
Mentre ordinavamo le cose sulla scrivania scoppiò un violento temporale.
«Mi sa che farò un bel bagno», dissi.
«Perché non ti fermi a cena? Magari nel frattempo smette», propose Asami.
E nonostante le dicessi che per me non era un problema prendere la bici con la pioggia, tanto una volta a casa mi sarei asciugato, Asami insistette così tanto che la sua sembrava più una richiesta di compagnia che di premura.
Chiamai mia madre per avvisarla che non sarei tornato a casa per cena, poi aiutai Asami a preparare la zuppa di verdure. Osservarla destreggiarsi tra un fornello e l’altro mi provocò una sensazione di serenità, perché Asami cucinava come se lo avesse sempre fatto fin da piccola, il suo modo di adoperare era simile a quello di un cuoco professionista, sicuro e senza alcun dubbio su come procedere. A tratti mi ricordava mia madre.
«Takumi? Me la gireresti la zuppa? Così preparo la tempura».
«Certo, tanto devo solo mescolare col mestolo, no? È facile».
Asami mi guardò accennando un lieve sorriso, forse trovava stupido che avessi dei dubbi su come girare una zuppa per non farla bruciare.
Asami prese il tagliere da un cassetto alle sue spalle e cominciò a tagliare il pesce in piccoli pezzi. Poi mescolò un po’ di farina con un cucchiaio di acqua frizzante.
«Ahia!», gridai senza rendermene conto. Mi ero bruciato un dito.
Mi distrassi guardando Asami e la zuppa cominciò a fuoriuscire dalla pentola.
«Takumi! Ma che fai!», gridò Asami che lasciò perdere quello che stava facendo per venire a soccorrermi.
Nel togliere di istinto il mestolo dalla pentola sporcai i pantaloni e il maglioncino di Asami che, nel frattempo, aveva abbassato la fiamma.
«Mmm, mi sa che forse un grembiule sarebbe stato utile», scherzai imbarazzato.
«Invece tu sei pessimo ai fornelli eh», disse Asami fulminandomi con lo sguardo.
«Beccato». Mi toccai istintivamente la testa e scoppiai a ridere. Con la coda dell’occhio vidi Asami divertita, mentre cercava di pulirsi con un panno.
«Se vado a cambiarmi ce la fai a girarla senza distrazioni?», disse. Annuii sforzandomi di non ridere.
Asami andò in camera sua ed io mi concentrai affinché non sbagliassi di nuovo.
Ad un certo punto squillò il telefono di casa. Non sapevo cosa fare, dovevo già girare la zuppa e l’idea di fare due cose contemporaneamente non mi piaceva affatto. Così pensai di spegnere la fiamma e andare a chiamare Asami. Poteva essere una telefonata importante dopotutto.
Quando arrivai davanti camera sua, la porta era socchiusa e dal corridoio riuscivo a scorgere l’interno della stanza. Stavo per bussare ma Asami apparve davanti ai miei occhi in quella piccola striscia di spazio disponibile al mio sguardo. E lì mi bloccai, dimenticando la motivazione per la quale ero andato da lei.
Asami era di spalle e non si era accorta della mia presenza. Indossava ancora i pantaloni sporchi ma non il maglioncino. In quel momento il mio cuore cominciò a battere più forte e un calore inaspettato mi avvolse completamente. La sua schiena nuda era coperta solo dal reggiseno bianco, mentre i capelli lunghi li aveva sistemati su un lato. La sua pelle era di un rosa candido, quasi bianco, e sulla spalla destra alcuni nei sembravano formare un disegno. Prese un vestito pulito da un cassetto, poi cominciò a togliersi i pantaloni e il calore di poco prima aumentò considerevolmente. I suoi spostamenti nella stanza sembravano avvenire con lentezza, come in un sogno distorto, come se improvvisamente il tempo avesse modificato la sua velocità di scorrimento. Sapevo di dover tornare in cucina, ma quello che stavo vivendo era troppo bello per non essere ammirato.
Fu allora che scoprii cosa significasse desiderare qualcuno e volerne sentire il calore sulla propria pelle. Avrei voluto sfiorare la sua schiena, i suoi capelli neri, il suo viso, il suo seno. Avrei voluto toccare tutto di lei. Perché quando ci attrae qualcosa finiamo inevitabilmente per volerla toccare.
Mi tastai la fronte istintivamente, come se volessi accertarmi di non avere la febbre.
«Takumi».
«Asami, ecco io, scusa non volevo guardare, sono solo venuto perché...».
Asami si era appena infilata il vestito, ma non l’aveva sistemato bene sui fianchi quindi le sue gambe rimasero scoperte. Il mio sguardo cadde per un secondo su quelle parti nude e aggraziate, che diventavano sempre più vicine, poi salì fino al suo viso che, ormai, era a pochi centimetri dal mio.
«Quindi sei venuto perché...», cominciò a dire con un tono di voce suadente e guardandomi negli occhi.
A quel punto riuscivo a sentire i battiti del mio cuore fuoriuscire dal petto e temetti che Asami se ne accorgesse.
«Il telefono. Squillava», borbottai stringatamente.
Restammo a guardarci per alcuni secondi in silenzio. I più lunghi della mia vita, ma anche i più intensi. Asami si appoggiò allo stipite della porta e il suo sguardo si tinse improvvisamente di dolcezza e di desiderio e a quegli occhi non seppi resistere.
Cominciai a sfiorarle il viso, poi i capelli e infine le labbra. I nostri sguardi si alternavano tra la bocca e gli occhi come se avessimo fame di guardarli nello stesso momento.
Poi il telefono squillò di nuovo ed io tornai di colpo alla realtà.
Asami era vestita e stava per voltarsi quando mi scostai dalla porta e filai dritto in cucina, lasciandomi alle spalle una parte di me.
Il telefono non squillava più ed io riaccesi la fiamma così da non farmi trovare impreparato.
«Eccomi, scusa se ci ho messo un po’», disse Asami non appena varcò la soglia della cucina.
«Oh, non preoccuparti, tanto ero talmente concentrato a girare la zuppa che il tempo è volato», mentii.
Asami si avvicinò per controllare la cottura e la sua vicinanza mi provocò lo stesso calore di poco prima.
«Perché sei così rosso in viso?», chiese distrattamente Asami.
«Rosso? Deve essere colpa del vapore, è caldo qui in cucina, sai?».
Asami mi scrutò attentamente come a voler capire se stessi mentendo o meno.
«Se lo dici tu. Comunque la zuppa è pronta. Adesso spegniamo la fiamma, ok?». Sarà meglio, pensai.
Asami tolse la pentola dal fornello per appoggiarla sul tavolo di cucina, sopra un piatto di ceramica a fiori.
«Tu siediti. Io intanto friggo il pesce».
«Ah, quasi dimenticavo. Poco fa ha squillato il telefono».
«Sì, ho sentito infatti. Hai risposto?».
«In realtà no, non mi sembrava il caso».
«Fa niente, tanto saranno i soliti call center pubblicitari, dopo controllo».
«Se vuoi fare un giro per la casa nel frattempo, fai pure eh. In sala abbiamo un sacco di libri», aggiunse.
«Magari do un’occhiata», dissi per poi dirigermi in salotto.
Una libreria occupava quasi tutto il soggiorno. I volumi erano stipati l’uno accanto all’altro, a tal punto che mi chiesi come facesse Asami ad estrarli senza far cadere tutto. Mi persi a guardare alcuni titoli, c’erano fumetti in lingua giapponese, atlanti, libri di poesie e molti romanzi di letteratura classica e teatrale. Jane Austen, William Shakespeare, Oscar Wilde, Goethe. Persino la Divina Commedia di Dante e una raccolta di mitologie classiche fino ad autori più contemporanei come Haruki Murakami. Alcune copertine davano l’impressione di avere mille anni se non di più. Alla vista di quella libreria capii perché Asami fosse così colta. Alzando lo sguardo mi accorsi che in cima alla libreria era riposto un globo terrestre color ocra e sugli scaffali ai lati c’erano libri riguardanti la storia, la scienza e l’astronomia. Probabilmente quello doveva essere il ripiano preferito di Asami. Improvvisamente la mia attenzione fu catturata da un testo. “Miti e leggende dal Giappone”. Un titolo che mi incuriosì abbastanza da voler dare un’occhiata. Mi guardai intorno alla ricerca di una sedia. Non ne trovai, ma di fianco alla libreria c’era uno sgabello, forse usato da Asami stessa per prendere i libri negli scaffali più alti. Riuscii a raggiungere il volume, lo estrassi e lo aprii. Scorrendo le pagine trovai molte sottolineature fatte a lapis, come se qualcuno lo avesse studiato attentamente. In quel momento mi vergognai di aver fatto il saccente con Asami quella volta al club di musica parlandole di leggende. Lei doveva saperne molto più di me.
«Takumi, è pronto!», gridò Asami dalla cucina.
«Sì, eccomi...», cominciai a dire prima di perdere l’equilibrio e cadere dallo sgabello.
Un tonfo riecheggiò nell’aria ed io sentii un dolore improvviso ad una spalla e sul viso. Il libro che tenevo in mano mi colpì in pieno la fronte.
Gridai dal dolore e Asami doveva avermi sentito dalla cucina, dato che in breve tempo la vidi ai miei piedi.
«Takumi, che è successo?».
«Accidenti agli sgabelli, è già la seconda volta che cado da uno di questi cosi».
«Ma Takumi, se volevi un libro potevi dirmelo», disse Asami notando uno dei testi che avevo consultato in terra e aperto.
«Vieni ti medico la ferita sulla fronte», disse aiutandomi ad alzarmi. Mentre mi dirigevo in cucina la vidi raccogliere dal pavimento il libro che avevo letto poco prima e riporlo sul tavolo.
«È solo un graffio Asami, non devi preoccuparti», le dissi mentre prendeva del disinfettante e un po’ di cotone da un cassetto della cucina.
Si sedette davanti a me in silenzio. Era così concentrata che neanche mi guardava negli occhi. Estrasse un batuffolo di cotone dal sacchetto e lo inumidì con il disinfettante. Poi lo poggiò leggermente sulla mia fronte, premendo con delicatezza.
In quel momento mi soffermai a guardarla, come se mi trovassi in uno stato di trance. Osservai ogni minimo dettaglio del suo viso, dalle labbra carnose agli occhi leggermente a mandorla, dal suo sguardo acceso al ciuffo di capelli che le ricadeva sulla fronte e che ogni tanto spostava con la mano. La sua pelle era candida, liscia, il suo viso sembrava in perfetto equilibrio, non c’era niente fuori posto o forse ero io che non riuscivo a vederlo.
La sua mano che mi accarezzava la fronte mi rilassò e mi provocò dei brividi di piacere. A tratti il suo respiro si fondeva con il mio e questo accresceva in me il desiderio di baciarla.
Ancora una volta la sua eccessiva vicinanza scaldò il mio corpo, ma stavolta non me ne preoccupai.
«Sei bellissima Asami», esclamai ancora confuso da quello stato di trance apparente. Asami si fermò e finalmente mi guardò. Poi accennò un sorriso.
«Si vede che hai picchiato la testa eh?», disse.
Poi si zittì e continuò a medicarmi, ma a me non importava, perché il suo silenzio io lo capivo sempre.
Dopo avermi messo un piccolo cerotto, Asami finì di apparecchiare la tavola ed io la aiutai.
«Itadakimasu», disse con le mani giunte una volta seduti a tavola.
La guardai confuso e lei, accortasi della mia reazione, chiarì cosa avesse appena detto.
«Prima di cominciare a mangiare noi giapponesi accogliamo il cibo in questo modo. È come dire “ricevo con gratitudine”», spiegò Asami con un sorriso.
«Okay, allora voglio farlo anche io». Dopo averla ripetuta un paio di volte riuscii anche io a dire quella parola.
A cena Asami sembrava felice, la sua espressione era serena, come se avesse con sé tutto quello di cui aveva bisogno. E anche io ero felice perché quella sera, con Asami, mi sembrava di aver capito finalmente cosa volessi dalla vita.
«Asami, sei davvero una brava cuoca. È tutto così buono che vorrei mettermi a urlare», dissi a un certo punto.
Lei scoppiò a ridere e durante la cena lo fece così tante volte che mi resi conto solo dopo tanto tempo che quella sera ero stato solo io a parlare. Forse era l’imbarazzo o la gioia di trovarmi con lei, ma era come se improvvisamente avessi voglia di dire tante cose e per la paura di dimenticarne qualcuna, finii per parlare anche troppo. Paradossalmente mi sbloccai senza rendermene conto, forse nella caduta avevo seriamente sbattuto la testa.
Quando ripenso a quella sera, mi sembra di sentire ancora il fragore delle sue risate.
«Grazie, Asami». Quella volta fu io a ringraziarla e sperai avesse capito che non mi riferivo solo all’ospitalità.
Dopo cena smise di piovere ed io me ne tornai a casa pedalando, grato al destino che ci aveva fatti incontrare.
 
 
«Sono stato a casa sua...», sussurrai ancora sdraiato sul letto. Di colpo ebbi un’illuminazione.
Mi tolsi le cuffie e mi alzai in piedi. Tastai le tasche e lo trovai. Era il nastro blu che Asami mi aveva regalato la sera prima, la prova che lei, su quella collinetta vicino casa, c’era stata davvero.
Trassi le mie conclusioni ipotizzando che il vicino di casa di Asami avesse problemi di memoria. Ma questo non spiegava perché lei se ne fosse andata senza dirmi niente.
Ero sicuro che avrei scoperto la verità dietro alla sua fuga improvvisa e che presto l’avrei rivista.
Ma le mie intenzioni non avevano fatto i conti con la realtà delle cose e la verità era che Asami mi aveva già fatto capire che non ci saremmo più rivisti. Proprio quella sera del sette luglio. In fondo l’avevo sempre sospettato. Quella sensazione di caducità che il suo corpo emanava e la mia inspiegabile paura di perderla dovevano avere una logica spiegazione e questa era che Asami non era destinata a rimanere. Perlomeno non con me.
Per confermare il “problema di memoria” del vicino di casa l’unica cosa da fare era chiedere ai nostri professori se sapessero qualcosa sulle intenzioni di Asami. Era estate e la scuola era chiusa, ma sapevo che la nostra professoressa di letteratura stava finendo di fare gli ultimi esami di maturità. Se fossi andato a scuola nel pomeriggio l’avrei sicuramente trovata o comunque sarei riuscito a procurarmi un suo contatto telefonico.
Dissi a mia madre che sarei tornato per l’ora di cena.
Quando arrivai a scuola chiesi alla signora della segreteria se avesse visto la professoressa di letteratura, ma lei mi avvisò che se ne era appena andata.
«La prego, mi dia il suo numero, ho un dannato bisogno di chiamarla. È urgente», dissi.
«Mi dispiace ragazzo, ma non posso fornire contatti telefonici per una questione di privacy».
«Se la chiamo dalla scuola, però, non sarà un problema, no?», proposi. Dopo alcuni istanti di silenzio, la signora si arrese.
«E va bene, vieni qui, prima che cambi idea e ti spedisca a casa», disse lei scocciata.
Digitai il numero sulla cornetta e attesi alcuni secondi, ma nonostante gli squilli, non arrivò nessuna risposta.
«Ragazzo torna domani».
«No! Io devo parlarci ora!», alzai la voce senza rendermene conto.
«Ehi, cos’è tutto questo baccano?», disse una voce all’ingresso. Mi girai e la vidi. Era la professoressa di letteratura.
«Ho dimenticato un libro in classe. Sono tornata a prenderlo», disse rivolta alla segretaria.
«E tu Takumi? Che ci fai qui? Non mi sembra tu sia impegnato con gli esami di recupero».
«Professoressa, la stavo cercando. Ho un disperato bisogno di parlarle».
«Addirittura disperato?». Annuii.
«Vieni allora, accompagnami in classe, così mi dici qual è il problema».
Mentre passavamo per i corridoi ero così nervoso che nella mia mente mi sforzai di formulare un discorso sensato, ma non ci riuscii.
«Allora? Avanti parla», mi esortò la professoressa una volta entrati in classe.
«Si tratta di Asami, professoressa. Vede, io e lei siamo diventati molto amici e quest’estate abbiamo passato del tempo insieme. Ieri sera siamo usciti, ma stamani quando sono andato a casa sua non c’era. La casa sembrava disabitata. Se ne è andata senza avvisarmi e non so perché. Così ho pensato di chiedere a lei. Magari sa qualcosa a riguardo».
«Takumi io sono la tua professoressa, non la tua consulente per gli amori estivi».
«Ma si tratta di Asami! Non di una sconosciuta!», esclamai.
«Mi dispiace Takumi, ma io non ho davvero idea di chi sia questa Asami».
«Che cosa? È uno scherzo, vero? Come può dire di non conoscerla? È nella mia classe!», continuai a dire.
«Ah, forse è un soprannome di qualche compagna? Di Diana magari?».
«No!», gridai.
«Takumi...».
Percepivo l’ansia crescere dentro di me e provai la stessa sensazione che si ha quando improvvisamente ci si dimentica qualcosa. Ad ogni domanda che mi ponevo corrispondeva una non risposta e questo ero certo mi avrebbe condotto alla pazzia.
«Durante una lezione, quando ci parlò del mito di Piramo e Tisbe lei si offrì di raccontarci la storia dei due innamorati. Era l’unica della classe che la conosceva. Abbiamo anche fatto il saggio insieme e lei ci ha dato pure un bel voto, come può esserselo dimenticato!».
La professoressa assunse un’espressione strana. Avrà sicuramente pensato che fossi impazzito.
«Takumi, io davvero, non capisco cosa...».
Poi mi venne in mente una cosa che avrebbe tolto ogni dubbio.
«Il registro di classe...lo ha con sé?», chiesi nervosamente.
«Ehm sì, l’ho portato per annotare alcune cose», borbottò lei.
«Bene, allora me lo dia per favore», dissi frettolosamente.
La professoressa mi porse il registro ed io cominciai a sfogliare le pagine fino a che non trovai la lista degli alunni della 4A, la mia classe.
«Ecco, adesso le dimostrerò che...», cominciai a dire quando mi accorsi che il nome di Asami era letteralmente scomparso dall’elenco.
«Questo è impossibile...», sussurrai.
«Takumi, sei sicuro di star bene?», disse la professoressa toccandomi una spalla.
«Mi lasci in pace!».
Feci cadere a terra il registro e corsi via dalla classe.
Raccolsi la mia bici e pedalai più forte che potevo verso casa. Mia madre era uscita, in casa non c’era nessuno.
Chiamai Tommy, era l’unico vero amico che avevo.
«Ehi, Takumi? Che combini?».
«Tommy, tu sai chi è Asami, vero?», dissi senza perdere tempo con i convenevoli.
Per qualche secondo sentii solo il respiro di Tommy attraverso il telefono, come se stesse pensando a cosa rispondere.
«Asami? No, non mi sembra di conoscere nessuna Asami. Aspetta, non dirmi che hai conosciuto una ragazza quest’estate e non mi hai detto niente», esclamò entusiasta.
Mentre Tommy pronunciò quelle parole continuai a fissare il pavimento. Mi disse qualcos’altro ma a quel punto non lo ascoltavo più.
«Scusa Tommy, adesso devo andare».
«Ehi, amico! Non puoi filartela così!».
Riattaccai il telefono e la voce di Tommy divenne un eco incomprensibile.
Mi sedetti sulla sedia di cucina. Guardai l’orologio. Segnava le diciotto. L’ora in cui realizzai che tutti si erano dimenticati di Asami. Assieme a lei scomparve ogni traccia lasciata dal suo passaggio, come se non fosse mai esistita.
L’unica cosa che restò di Asami fu il suo nastro blu nella mia tasca, il solo indizio che mi permise di non credermi pazzo.
Ma ero sicuro di non esserlo?
   
 
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