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Autore: lila_ferri    08/02/2024    0 recensioni
Dal prologo: Ogni volta che Harry Potter si affacciava da una delle finestre della casa dei suoi zii, si ritrovava a guardare la solita strada ben asfaltata e, dall’altra parte della via, il numero 5 di Privet Drive. (...) Non c’era niente di strano, se non forse chi ci viveva dentro: zia Petunia la chiamava “la donna soldato” e lo diceva con un tono che a Harry era sempre apparso un po’ denigratorio.
Dal capitolo 1. (...) - Cosa ci fai qui? - (...)
Lui sorrise con quel fare imbarazzato di sempre, come se fosse rimasto il ventenne che aveva visto per l’ultima volta molti anni prima. Poi mostrò la copia della Gazzette del Profeta che teneva in mano. - Devo farti vedere una cosa. Spero di non averti svegliata, ma non potevo aspettare. - Disse.
Genere: Guerra, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Potter, Nuovo personaggio, Ordine della Fenice, Sirius Black
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Capitolo 1



 

Nel sogno, un bambino e una bambina giocavano sulle rive di un basso ruscello sassoso, che scorreva nel boschetto poco distante da casa loro. Entrambi portavano gli occhiali ed entrambi avevano capelli scuri e scompigliati, ma mentre lui dietro le lenti mostrava due vispi occhi color castagna, quelli della bambina brillavano tra l’azzurro e il verde. 

Erano gemelli, ma la loro somiglianza era vaga; anche nel carattere i due erano molto diversi: lui era spigliato, coraggioso e ironico, amava il quidditch e mal sopportava le regole, mentre lei era di natura più docile, era riflessiva e riservata. 

Quel giorno di marzo in particolare era il loro nono compleanno: mancavano solo due anni, solo due, e poi entrambi avrebbero ricevuto la lettera per Hogwarts. 

Lei non vedeva l’ora: erano nati e cresciuti in quella cittadina del Kent, ma né lei né il fratello avevano mai avuto modo di fare davvero amicizia con gli altri bambini. I figli di babbani che spesso uscivano in strada per giocare a tirarsi la palla li trovavano strani, troppo strani per essere integrati, soprattutto da quando lei si era lasciata sfuggire la loro vera natura. 

Tuttavia la loro era un’infanzia felice: avevano l’un l’altra e come se ciò non fosse abbastanza, i loro genitori li amavano tanto da metterli al centro della loro esistenza. 

– Ci pensi, vero? Manca sempre meno ai nostri undici anni. - Parlò la bambina rivolgendosi al fratello, che stava saltando agilmente sulle pietre viscide che emergevano dal letto del ruscello. 

– Ci penso sempre. - Confidò lui, facendo un sorrisetto. — Spero che tu sia una Grifondoro, Jo. - 

Lei arricciò il naso e scosse la testa. — Mamma ci rimarrebbe troppo male se finissimo entrambi in Grifondoro. - 

Lui fece un ultimo salto, tornando sulla sponda asciutta, e si sedette a terra. 

Jo lo raggiunse, ma prima che potesse anche solo chinarsi, lo scricchiolare di foglie e rami calpestati la fece voltare allarmata. 

A qualche metro da loro, sotto a un verde e ombroso albero di castagno, si era palesata una coppia di ragazzini sporchi e sudaticci, che dall’aspetto dovevano avere due o tre anni in più dei due fratelli. 

Il primo era basso, fulvo e corpulento, la faccia tonda e lentigginosa, l’altro invece era smilzo e dai capelli scuri, aveva un viso affilato e brufoloso su cui si aprì un sorrisetto irregolare.

– Hey, strambi! - Esclamò quest’ultimo.

Il bambino scoccò alla sorella un’occhiata annoiata. Jo sembrava tesa e nervosa. 

Dopotutto aveva avuto a che fare con quei due molto spesso, dato che era soprattutto lei l’oggetto dei loro scherni: Jo non contava più tutte le volte in cui le avevano rotto gli occhiali, o l’avevano spinta per farla cadere o l’avevano presa in giro per qualcosa. Tuttavia, di solito, se c’era suo fratello con lei, allora la lasciavano in pace. 

– C’eravamo prima noi. - Disse il ragazzino, alzandosi in piedi. Non voleva che sua sorella si turbasse. - Andate via. - 

Quello basso e fulvo rise. - Altrimenti? Ci lanci un incantesimo? - Lo denigrò. 

Il bambino strinse gli occhi assumendo un’espressione tova. 

– Andiamo via, James. - Fece Jo a bassa voce, afferrandolo per la manica della maglietta che indossava. 

Lui la guardò contrariato ma annuì. James lo sapeva che era lei quella più saggia tra i due. 

— Sì, andate via! - Ribatté il ragazzo alto. - Codardi… - 

– Come hai detto, scusa? - James si fece avanti. 

– Ho detto, - scandì bene il ragazzo. - che siete due codardi. Voi e quei due svitati dei vostri genitori! - 

Successe tutto con rapidità: James fece per scattare avanti, ma Jo urlò e nello stesso istante si avvertì un forte crac. E poi una voce, la voce della ragazzina che ripeteva una sola frase: è solo colpa mia.

 

Jocelyn si svegliò con il fiato corto, in un letto vuoto e con un buco nel petto, come le succedeva tutte le volte in cui sognava il giorno in cui la sua innocenza era andata perduta. 

Le capitava spesso, molto spesso, a dir la verità, forse per il fatto che quasi mai permetteva a quei ricordi di uscire quando era sveglia. Li teneva tutti chiusi in una gabbia, seppelliti sotto montagne di altre inutilità, in fondo alla parte più remota della sua mente. 

Jocelyn si dava un tempo limitato per pensare a loro ed essere triste. Era giusto così. Si prendeva un’ora ogni tanto e ripercorreva nella sua mente tutto quello che era successo, tutto ciò che l’aveva portata in quella casa insulsa in quell’insulsa cittadina del Surrey, tutto quello che nel bene e nel male l’aveva resa chi era oggi. I due ragazzini babbani che lei aveva ucciso, il suo rifiuto completo per la magia, la sua adolescenza tra la scuola babbana e la sua famiglia di maghi. 

Il matrimonio tra suo fratello e Lily, la nascita di Harry. E poi Lord Voldemort, la guerra, l’Ordine della Fenice, la profezia. 

Infine Sirius, la sua stupida moto volante e il suo tradimento. 

Quei ricordi erano una incessante discesa verso l’abisso e lei non voleva di certo caderci dentro ogni qual volta in cui le passavano per la mente.

Jocelyn sospirò e si mise una mano sulla pancia. Aveva mal di stomaco, un dolore simile a un crampo che la attanagliava tutte le volte in cui si sentiva presa dal panico o triste o arrabbiata. 

Con gli occhi pesanti diede un’occhiata alla sveglia appoggiata al comodino di sinistra, che segnava appena la mezzanotte. Con un altro sospiro, la donna inforcò gli occhiali e se li appoggiò sul naso, scalciò le lenzuola e si alzò dal letto. Poi uscì dalla sua stanza e si diresse in cucina pronta a prepararsi una bella tazza calda di camomilla. Lì, su una delle sedie che circondavano il tavolo quadrato color mogano, trovò uno dei suoi due gatti ad accoglierla con un flebile miao. 

- Miao a te, Gin. - Rispose, riempiendo il bollitore. - Hai visto Tonic? - 

Gin fece di nuovo miao. 

- Scommetto che si è nascosto di nuovo dietro alla televisione. - Disse Jocelyn, prendendo una bustina di camomilla dalla dispensa e una tazza da uno dei pensili della cucina. 

Miao.

- Miao, miao. - Annuì Jocelyn. 

Probabilmente nessuno, vedendola parlare con quel tono convinto al suo gatto, — con indosso quella camicia da notte in cotone leggero e rosa e un paio di ciabatte in feltro ai piedi, — avrebbe potuto immaginarla nei panni di un’agente del SIS* che tutti i giorni aveva a che fare con terrorismo e controspionaggio. 

Il bollitore fischiò qualche minuto dopo e nello stesso momento la porta d’ingresso alle sue spalle bussò. 

Jocelyn non si scompose. Versò l’acqua nella tazza e solo quando la porta bussò di nuovo decise di attraversare la casa, raggiungendo l’uscio e, una volta lì, guardò fuori attraverso lo spioncino, senza allarmarsi minimamente. 

Fermo davanti alla porta chiusa, un uomo dai capelli color grano striati di grigio e dall’aspetto malaticcio ricambiò il suo sguardo come se anche lui potesse vederla. 

Quella era l’ultima persona che lei si aspettava di trovare davanti alla porta di casa sua in piena notte, ma Jocelyn, con le mani improvvisamente tremanti, il cuore in gola e il dolore allo stomaco che si era intensificato di botto, spalancò la soglia continuando a fissare l’uomo con incredulità.

- Remus. - Disse, portandosi una mano alla bocca. - Cosa ci fai qui? - 

Non lo vedeva da moltissimi anni e sicuramente il tempo non era stato clemente con lui, che dimostrava molto di più della sua età, con quel cappotto sgangherato e l’aria emaciata di chi di sicuro non aveva una vita agiata.

Lui sorrise con quel fare imbarazzato di sempre, come se fosse rimasto il ventenne che aveva visto per l’ultima volta molti anni prima. Poi mostrò la copia della Gazzette del Profeta che teneva in mano. - Devo farti vedere una cosa. Spero di non averti svegliata, ma non potevo aspettare. - Disse.

Jocelyn, perplessa e incuriosita, si spostò di lato, per farlo entrare in casa. - Sì, certo… accomodati. - Gli disse. 

Remus obbedì, varcò la soglia e prese a guardarsi intorno. 

Non l’aveva più vista dal giorno del funerale di James e Lily. Quella gelida mattina di novembre l’aveva vista per l’ultima volta, vestita di nero, ma senza una lacrima a bagnarle gli occhi chiari. Adesso, lì in quella casa, Remus stava cercando di capire che tipo di vita avesse fatto la gemella del suo migliore amico morto, in tutti quegli anni. 

La seguì lungo il corridoio fino alla cucina, notando che non c’erano foto sulle pareti nonostante ci fossero i chiari segni di chiodi su cui probabilmente un tempo erano state appese delle cornici. 

Una volta varcata la soglia della cucina, Jocelyn si sedette su una delle sedie che circondavano un tavolo. - Come hai avuto il mio indirizzo? - Domandò bruscamente all’uomo. 

- Silente. - Si limitò a rispondere Lupin. 

Jocelyn annuì e poi si alzò. - Vuoi del tè? Faccio del tè. - 

- No, non ti preoccupare. - Ribatté subito Remus. - Siediti, dobbiamo parlare. - 

Lei obbedì, lasciandosi cadere di nuovo sulla sedia. - Mi stai spaventando. - Ammise. - Che succede, me lo vuoi dire? - 

Remus mise il giornale sul tavolo, rivolto verso di lei, indicando con un dito una grossa foto che raffigurava un uomo dall’aspetto inquietante. Quando notò che in lei non sembrava scatenarsi nessuna reazione, il lupo mannaro alzò un sopracciglio. - Andiamo, davvero non lo riconosci? - Sbottò, incredulo. 

Jocelyn, da prima confusa, divenne improvvisamente sorpresa e poi impaurita. Prese il giornale e lesse tutto l’articolo con grande attenzione. Quando finì, lo chiuse e lo ripose di nuovo sul tavolo, alzando gli occhi sull’uomo seduto di fronte a sé. - Come ha fatto a scappare? Avevi detto che nessuno fugge da Azkaban. - Disse, irritata, allontanando la Gazzetta del Profeta da sé.

- Non lo so come ha fatto. - Remus parlò con estrema durezza. - Fatto sta che adesso è fuori. Domani la notizia arriverà anche sui vostri giornali e telegiornali. -

Jocelyn strinse gli occhi e poi abbassò di nuovo lo sguardo sulla prima pagina e sulla foto.  

Quel viso era scarno e la pelle talmente chiara da sembrare quasi quella di un vampiro, gli occhi erano sgranati, pieni di disperazione. Aveva perso la bellezza e probabilmente, anzi, sicuramente, anche la sanità mentale. 

Jocelyn aveva provato davvero a credere nella sua innocenza; si era detta che lei lo conosceva, che non poteva essere vero che proprio lui, che proprio Sirius, avesse tradito James, ma le prove contro di lui non avevano fatto altro che demolire ogni speranza. Aveva tradito James, aveva tradito l’Ordine, aveva ucciso uno di loro senza pietà insieme ad altri quindici babbani. Alla fine Sirius Black era stato all’altezza del cognome che portava. 

- Si è messo in contatto con te? - Chiese lei con durezza a Remus.

Lupin scosse la testa. - No. E spero vivamente per lui che non lo faccia. - Rispose, stringendo il pugno sul tavolo. - Devi stare attenta, molto attenta, Jo. Tieni gli occhi aperti. -

Jocelyn aggrottò la fronte, guardando l’uomo come se fosse pazzo. - Che può farmi? Perché dovrebbe venire a cercarmi? - 

- Non so cosa possa passargli per la testa. - 

- Il suo obiettivo non sono io e lo sai. - 

- Ma voi due… - 

- Abbiamo avuto una stupida e superficiale tresca tantissimi anni fa, Lupin. - Lo interruppe Jocelyn, il tono che non ammetteva nessuna replica. - Io non sono niente per lui se non uno dei tanti membri minori dell’Ordine che lui ha tradito. - 

- Sei anche la zia di Harry, però. - 

- Ma il ragazzo non lo sa, quindi è come se non lo fossi. Vive qui davanti, lo vedo tutti i giorni in estate, ma non ha idea di chi io sia. - Ribatté Jocelyn. Poi si alzò, prese la tazza in cui la aveva messo in infusione la camomilla e tornò a sedersi. - Terrò gli occhi aperti, ma per vegliare su Harry. Come ho fatto negli ultimi dodici anni, del resto. - 

Remus strinse le labbra con disapprovazione. 

C’erano tante cose che erano cambiate di lei, il suo aspetto ad esempio: era cresciuta, era una donna adesso, una donna molto bella che non somigliava quasi per niente a James, se non per i capelli ingestibili, gli occhiali e la forma del naso. Ma c’era una cosa che non era cambiata: il suo gelido distacco. 

Ci fu un lungo attimo di silenzio in cui nessuno dei due sembrò intenzionato a parlare di nuovo, almeno finché il lupo mannaro non prese un respiro profondo, pronto a chiedere qualcosa: 

- Come sta Harry? - Domandò, girando la Gazzette del Profeta abbandonata sulla superficie del tavolo, come se temesse che Sirius Black potesse sentirli attraverso la foto. 

Jocelyn scrollò le spalle. - È vivo. Questo è tutto ciò che so su di lui. - Rispose. 

- Somiglia ancora a James? - 

Lei annuì. - Sì, ma ha gli occhi di Lily. - Aggiunse. - E tu come stai, Remus? -

- Sto bene… Silente mi ha chiesto di prendere la cattedra di Difesa contro le Arti Oscure a settembre. - Svelò, pensieroso. - Non so ancora se accettare; lo sai, il mio problema mi rende pericoloso per gli studenti. Ma mi piacerebbe conoscere Harry. - 

Jocelyn, da prima sorpresa, gli rivolse uno sguardo di rimprovero. - Sì che devi accettare. - Gli disse con tranquillità. - Non vuoi diventare ufficialmente il professor Lupin? Vedrai che Silente si sarà organizzato, proprio come ha fatto quando eri a scuola da studente. E poi piantala con questa storia, Lupin, che sei meno pericoloso di un cucciolo di carlino. - 

Remus si lasciò sfuggire un sorriso che terminò con una piega dolorosa e malinconica. - Parli come James. - 

- Siamo usciti dalla stessa donna, lo stesso giorno e a dieci minuti uno dall’altra, che ci vuoi fare. - Buttò lì lei. - Anche se non siamo stati particolarmente uniti, anche se lui ha sempre preferito te e Sirius e Peter a me… James era mio fratello. -

Quelle parole, dette con quel tono impietoso, fecero tornare Remus Lupin indietro nel tempo, a quando Jocelyn era una ragazzina che odiava sé stessa e la sua stessa natura magica, ma che li guardava giocare a quidditch in cortile, dietro alle finestre della sua camera da letto a Villa Potter.

- Cosa fai nella vita adesso, Jo? - Le domandò l’uomo, scrutandola come se stesse cercando di capirlo da solo. - Ricordo che frequentavi quella accademia per auror… solo che babbani. - 

- Sì, sono nell’intelligence adesso… anche se probabilmente non hai idea di cosa voglio dire. -

Lupin sospirò scosse la testa. - Mia madre era babbana. - Le ricordò. -  Ho visto qualche film di James Bond, so come funziona. - 

Jocelyn aggrottò la fronte e annuì in modo sbrigativo. Era difficile spiegare il suo mestiere ai babbani, con i maghi era doppiamente complicato. 

- E sei sposata? Figli? - Proseguì Lupin. 

- Ti sembra una casa in cui vive un bambino, questa? - Ribatté Jocelyn, sorvolando sul suo matrimonio miseramente fallito pochi mesi prima. 

- In effetti no. - Concordò Remus, guardandosi attorno. - È tutto molto… - Gelido. Questo avrebbe voluto rispondere, ma invece concluse dicendo: - Ordinato. - 

Non si aspettava nulla di diverso da lei, così dissimile da James in qualsiasi cosa. Jocelyn era sempre apparsa ai suoi occhi coriacea e fredda. Era una maniaca dell’ordine da quando l’aveva conosciuta, durante l’estate tra il primo e il secondo anno di scuola, sorrideva poco e scherzava ancora meno.

Almeno non con lui. 

Pareva che Sirius ci fosse riuscito, anni prima, a scavalcare quel muro di cinta dietro cui lei se ne stava ben nascosta dal rischio di provare qualcosa, eppure, poco prima, Jocelyn aveva declassato quel rapporto descrivendolo come una “stupida e superficiale tresca”.

Nessuno ai tempi del primo Ordine era riuscito davvero a capire cosa legasse quei due, se stessero insieme oppure no, se fossero amici o amanti, ma restava il fatto che qualcosa c’era stato. Non l’aveva mai visti scambiarsi effusioni, Sirius continuava a vedere altre donne e probabilmente Jocelyn usciva con altri uomini a parte lui, eppure, tutte le volte in cui li aveva visti insieme durante le riunioni, Remus aveva percepito una certa affinità. Chissà se James avesse mai saputo qualcosa, chissà cosa avrebbe pensato all’idea del suo migliore amico insieme alla sua gemella. 

Fu un altro lungo attimo di silenzio, in cui i due si guardarono, assorti dai ricordi di tantissimo tempo prima. 

Poi Remus si alzò. - Ora è meglio che vada. - Disse, guardando verso il giornale abbandonato sul tavolo. - Stai attenta, ti prego. E se hai bisogno di me scrivimi. -  

- Non ti preoccupare. - Gli disse lei. - Ho una pistola. Più di una a dire il vero, posso cavarmela. Ho visto di peggio. - 

- Non andare a cercarlo, Jo. - Le ordinò prontamente Lupin, quasi come se l’avesse letta nel pensiero. - Non farlo, è pericoloso. Non riuscirai mai ad ucciderlo. - 

Lei alzò i lati della bocca e basta. Probabilmente quello sarebbe stato l’unico sorriso che avrebbe avuto da lei quella notte. - Uccidere l’uomo che ha condannato a morte mio fratello e sua moglie? E perché mai dovrei farlo? - Disse, scherzandoci su. - Io lo voglio vivo e vegeto, Lupin. Vivo e vegeto. - 

- Jo… - 

- Remus, se la notizia arriverà al mondo babbano mi ritroverò in tutta probabilità a indagare su di lui. Non sono io a decidere, è il lavoro. Lui è un cazzo di terrorista, capisci? - Lo fermò lei. - Non ti sei preoccupato di me o di Harry in tutti questi anni, non capisco perché dovresti iniziare a farlo proprio ora. - 

- Sai benissimo che Silente ci ha vietato di avere contatti con lui. -

Jocelyn rise e scosse la testa. - Silente… dimenticavo che per te le parole di Albus Silente sono parole sacre. - Disse con disprezzo. - Per me non è la stessa cosa. Che si fotta, lui e le sue regole del cazzo. Quello è mio nipote. - 

Remus sospirò e poi unì le mani davanti a sé. - Non andare a cercare Sirius, ti prego. Per favore, ti chiedo solo questo. Ti distruggerebbe, faresti la fine di Peter. - 

Jocelyn scrollò le spalle. Non le era mai importato troppo della sua vita, non dopo tutto quello che aveva perso almeno. - Non posso prometterti niente. - Ammise. - Grazie per la visita, ma adesso è meglio se te ne vai. Domani sarà una giornata lunga per me. - 

- Jo… - 

- Remus. Vai via, davvero. - 

Lupin sospirò ancora e raggiunse la soglia della porta che divideva la cucina dal lungo corridoio d’ingresso. C’erano così tante cose che avrebbe voluto dirle; di stare attento, di farsi sentire, di perdonarlo per tutti quegli anni di assenza, ma le sue labbra rimasero serrate e immobili, gli occhi fissi su di lei che in quella cucina, con quella camicia da notte rosa addosso, sembrava fragile in modo quasi inquietante. Forse quei dodici anni erano stati anche per lei anni di solitudine e rimorsi e rimpianti. 

- Buonanotte, Jo. - Disse, prima di voltarsi, raggiungendo l’uscio da solo. 

Quando Jocelyn sentì la porta di casa sua chiudersi, si portò una mano all’altezza dello stomaco. Probabilmente quel dolore la stava avvertendo del fatto che, da quella notte, la sua vita sarebbe cambiata di nuovo e sempre per colpa della stessa persona. 

Ma ‘stavolta lei non sarebbe rimasta a guardare. 




 

Ciao, fatemi sapere cosa ne pensate se vi va :)




 
   
 
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