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Autore: AncientDust    24/02/2024    4 recensioni
Un racconto di sole e un racconto di pioggia.
Forse esitazione. Forse dolore. Sicuramente amore.
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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A Dream of Raindrops

 

 

 

 

Mani fredde sul volante, in quella mattina di sole dimenticato. Cielo che si fa scuro come un livido oltre i vetri appannati, gonfio d'acqua e rimpianti. Nell’aria umida, un borbottio di tuoni stanchi; eco di un lamento solitario, rimasto chiuso in gola.

Dove voleva andare, Crowley, non lo ricorda. Lo ha dimenticato, nel sapore ruvido del vino, nel fondo di una bottiglia. Forse non lo ha mai saputo.

Ha solo guidato.

Lo sconforto premuto contro l'acceleratore, desolazione sotto le ruote. Speranza e ragione lasciate a scivolare indietro, lungo le curve dell'asfalto grigio. Briciole sparse sulla strada logora di una vita vecchia, che conta i millenni sulle dita e tiene le delusioni intrappolate fra le ciglia.

E, alla fine di quella corsa, solo il vuoto resta.

Respiri sperduti condensati nell'aria ferma, nell'attesa del temporale. Ombre di pensieri che sfuggono tra le fessure della mente, fra le macerie di ciò che è rimasto, e si perdono in nebbia d'alcol.

Una tempia contro il finestrino, in quel tempo immobile che indugia, crudele; che si sofferma e intinge la lingua, assaporando il gusto nero della sua miseria. Pelle fredda su vetro freddo, e occhi illusi che cercano al di fuori la luce di un sole svanito.

Rivolge al cielo una preghiera, Crowley.

Un canto muto che non riceve risposta, ma che mai ha smesso di intonare. Che fosse armonia discordante nelle fila dei Cori celesti, fra sbuffi cosmici di nebbie stellari, o sibilo graffiante di pena, fra le braci scure della Caduta; o mormorio sottile, sussurrato alla terra umida nei giorni verdi del mondo, o ancora, grido stanco, perso fra le vie rumorose delle città, durante le epoche degli uomini.

Con voce di angelo, pungente di dubbi, o con richiamo di demone, soffocato di rimpianti, sempre a quel cielo ritorna. Quel cielo che gli è negato.

Lo stesso che ora inizia a lacrimare, fra i sipari pallidi delle nuvole.

Un picchiettio lieve risuona sul tettuccio, melodia di note ottuse sopra la testa, e gocce di pioggia si rincorrono sui vetri della memoria. Scivolano, si avvicendano e si uniscono, solcando sentieri già percorsi, tracciando le trame trasparenti dei sogni, e scie di oblii dimenticati.

 

Ed è ricordo fresco di foglie, profumo rosso di mele e un sorriso di angelo, sbirciato di nascosto dall'ombra dei rami.

Diffidenza di serpe e curiosità silenziosa, in quel Giardino in cui tutto è iniziato.

Cauta osservazione che palpita ritmi sconosciuti, che brucia di fiamme nuove, vive di un calore tiepido. Fuoco che non lascia ustione, che accarezza e non punisce, che scioglie invece di consumare.

Non comprende, il serpente; diffida di quel sentimento. Guarda, ascolta e attende, chiuso nel ventre delle fronde; squame lucide strette in un solitario abbraccio verde. Poi quel sorriso si trasforma in risata d’argento; più fresca dell'acqua, più calda del sole, nuovo frutto della tentazione. E occhi gialli si allargano a quella visione: assaggio rubato di luce divina e tenerezza languida, spettro di Grazia perduta.

Un brivido risale, che sa di nostalgia. Liquido come un’onda, che travolge e sommerge, senza lasciar andare.  Che è desiderio e fame, e terrore e sospetto, e dolcezza e meraviglia, e forse ogni cosa, o forse nessuna. Familiare, eppure incomprensibile.

E spire annodate si sciolgono in un nastro morbido; strisciano, si trascinano tra le foglie, su corteccia scabra, fra steli d’erba e corolle di fiori, fra speranze e illusioni. Demone che cerca, serpente che si protende piano, saggiando la terra; che si avvicina, un po' di più, solo un po’ di più ancora. La prudenza stretta fra i denti, in quella caccia proibita, e nel petto un timore da preda.

Il tempo sfugge e vaga; si perde, nel groviglio che tesse i sogni e che ricama i ricordi. Nell’ombra di un’attesa passata che non è mai finita; in quella curiosità, in quel desiderio di vicinanza che trascina da sempre, un istante alla volta.

E ora il giorno tramonta sull’orlo del mondo. Dietro i passi incerti di un'umanità appena nata, che si allontana  a piedi nudi sulla sabbia; in bocca un morso di conoscenza e in mano il fuoco di una spada.

Nuvole grigie che si addensano all'orizzonte, promessa di tempesta, monito di furia divina, in quell’azzurro che mai prima aveva conosciuto l’ombra.

E sulle mura del paradiso abbandonato, solo un profilo candido resta, stagliato contro il cielo. Bianca sentinella accesa di premura e ali chiuse, in angelica apprensione.

E il serpente, si avvicina ancora.

Linea sottile, morbida parentesi di buio fra le tinte del Giardino. Il sapore dolce della tentazione ancora fresco sulla lingua forcuta, e un qualcosa stretto in gola.

Scivola silenzioso, fra la polvere. Lascia indietro l’esitazione e i dubbi, come lascia la sua pelle, e un’altra ne indossa. Per orgoglio e per paura, forse per vergogna. Per sembrare fratello e non bestia ostile, e mostrare che persino qualcuno come lui, in fondo, due ali le ha ancora.

Sulle pietre, la carezza leggera del ventre diventa passo malfermo, squame nere mutano in piume, e altre ritraggono in fretta dietro nuova carne bianca.

Serpente e demone. Demone e serpente.

E così si mostra. Nasconde inadeguatezza fra pieghe d’insolenza, i timori in un ghigno sicuro. E il sibilo si incastra in parole attente, misurate con cura, mentre dentro qualcosa un po’ trema. L’equilibrio di gambe instabili che vacilla appena, sotto il peso di quelle ali annerite; per troppo tempo tenute nascoste, lontano dalla luce.

E il silenzio si anima di parole, quasi per sbaglio. Uno scambio breve, un gioco che non è concesso; piccolo spazio rubato all’ordine del Creato. Graffia, la sua voce di demone, e il tono dell’angelo risuona limpido, lì sulle mura dell’Eden.  Note discordanti sullo spartito del vento, unite in un accordo imprevisto.

Non fugge l’angelo. Eppure sembra turbato. Tiene contro il petto mani morbide e offre qualche sguardo sfuggito; le nuvole grigie riflesse in iridi di cielo, e quel sorriso, ora velato di imbarazzo. Il labbro teso in un dubbio condiviso, nella paura di aver sbagliato.

Non si avvicina di più, il demone. Non osa farlo. Si stringe in ali spezzate e lì resta, al mutare burrascoso del tempo. Resta soltanto, al suo fianco, in quel posto che sa di non dover occupare; che non gli spetta, eppure a cui così disperatamente sente di appartenere.

Resta e attende, in bilico.

Anima ribelle, spirito solitario, struttura fragile; creatura di insaziabili quesiti e esuli lamenti, di sguardi acuti e sibili amari affidati al silenzio. In un pensiero la pena di non poter essere amato, e in un sospiro la speranza di non venire scacciato.

Poi un fragore di tuono irrompe nell’aria, e piccole impronte d’acqua si allargano ai loro piedi, sulle mura di pietra. Gocce di rabbia schiantate dal cielo, lacrime di Madre e sacra collera. E un’ala bianca, che si apre in una premura inaspettata.

Lo protegge, l’angelo; tiene alte quelle piume immacolate, sopra la sua testa. Non permette alla collera di raggiungerlo, all’acqua di bagnare le sua pelle. Rovinosa gentilezza in quegli occhi limpidi, nella piega rosea delle labbra, nella curva delle guance; in quelle mani nervose che arpeggiano l’aria, che trattengono fra le dita impacci e una volontà guardiana.

Ed è calore in corpo freddo di serpe, e cuore ritrovato di demone, sotto la prima pioggia del mondo. In quella vicinanza che brucia, e nella distanza che lacera. In quell’incontro di realtà discordi, incastrate in crudele armonia. E in tutte quelle cose mai dette che prendono forma, senza avere alcun suono.

Parole d’acqua che all’acqua tornano, che si insinuano nello spazio sfuggente in cui le onde dei sogni si infrangono sulle rive della veglia. Nel confine in cui ogni impronta svanisce, e la realtà è come un filo di schiuma leggera, al margine della risacca.

E i contorni si sciolgono. Piume e riccioli chiari svaniscono piano nella pioggia; mani e vesti gocciolano, lineamenti scorrono. Si uniscono in rivoli gonfi, in fiotti scroscianti, sfuggendo via, sfuggendo da lui. Non può trattenerli, il demone, e non può lasciarli andare. Dispera e sprofonda. E cade.

Cade giù, ancora. Ancora una volta.

 

Ed è sotto un’altra pioggia che riapre gli occhi.

Una tempia al vetro, il respiro spezzato. Il velo dell’alcol che ancora avvolge i pensieri, mentre quello del sonno si dirada piano. Dischiude appena le palpebre, Crowley, e solleva a stento una testa pesante di giorni lontani, e un cuore afflitto di sogni sfocati.

Quasi gli sembra di sentirla ancora, quella traccia inconfondibile, quell’essenza di angelo, dolce di miele e polverosa di vecchie carte; quella risata delicata di cielo limpido e tiepida di sole distante.

E così lo vede: ritaglio bianco nella coltre d’acqua, in attesa, come un’oasi di quiete nel grigio della tempesta. Vicino e irraggiungibile. Mani composte allacciate in grembo, lo sguardo che a tratti si distoglie e un’ala protesa, in cui potersi sempre rifugiare.

Così lo vede, Crowley. O forse, è solo un altro sogno di gocce di pioggia.

  

 

 

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NOTE DELL’AUTRICE:

Salve.

Ebbene, ci ho messo molto (troppo) tempo per decidermi a pubblicare questa cosa, che di base mi convince poco, e che doveva venire più corta e decisamente molto diversa da come poi in effetti è uscita fuori.

Ma si sa che la scrittura è capricciosa e le cose spesso sfuggono di mano e fanno come vogliono. Perciò prendetela per come è, ovvero una quasi poesia sgangerata, fin troppo depressa e noiosa a sufficienza. Se vi ritrovate qui a leggerla, dovete ringraziare (come la ringrazio anch’io) la cara Ederaria, che mi ha convinto a non lasciare a metà questa piccola raccolta.

Grazie come sempre a chi è arrivato fin qui e a chi avrà voglia di lasciarmi un feedback (accetto anche insulti o la parcella della prossima seduta di psicoterapia, volendo, ma siate buoni).


   
 
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