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Autore: Zobeyde    10/03/2024    2 recensioni
Prequel de “Gli ultimi maghi”
Sono anni turbolenti per l’Europa: la Belle Époque sta per tramontare, sotto l'incombere di una guerra come non se n’erano mai viste, e nella millenaria città di Arcanta, dove la magia esiste e i suoi abitanti hanno da sempre vissuto al riparo dalla corruzione del mondo, c’è chi non può restare indifferente ai cambiamenti fuori dalle sue mura incantate:
Abigail Blackthorn, in fuga da una gabbia dorata per aiutare chi soffre nelle trincee, dove inaspettatamente troverà amore e dannazione.
Solomon Blake, cinico, ladro, machiavellico, determinato a rendere la magia grande come un tempo, fino al giorno in cui scoprirà che ogni cosa ha un prezzo.
Zora Sejdić, maga decaduta che ha fatto dello spiritismo la propria arma per la scalata al potere. Un’arma però che si rivelerà presto a doppio taglio…
Dal testo:
[…] Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo. […]
Genere: Angst, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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IL PROGRAMMA

 
 
Gellert Institute, Bassa Sassonia.
luglio 1914
 
 
Come le accadeva ormai ogni mattina da quando era arrivata all’Istituto, Zora si svegliò con un brutto mal di testa e con un sapore amaro sulla lingua, lasciato dal vivido ricordo del sogno appena fatto. Sempre lo stesso, tutte le notti…
Si trovava in mezzo a un sentiero di campagna, ferma a un crocicchio. Alla sua destra, in cima a una collina, una fattoria bianca con un granaio verniciato di rosso. Non ricordava di aver mai visto quel luogo, prima di allora.
Mentre era lì, in mezzo alla strada, un corvo nero si sollevò gracchiando dal campo, e subito dopo, il vento alzò un muro brumoso di polvere nera e fitta, che oscurò il giorno. Il buio avvolse ogni cosa, vorticante e in tumultuoso movimento come fumo, da cui all’improvviso emerse una sagoma.
Zora non riusciva a vederlo bene, ma sembrava un ragazzo appena adolescente, vestito di scuro. I suoi capelli erano di un bel rosso acceso, gli occhi completamente neri. A ogni suo passo il grano marciva, lasciando alle sue spalle solo un’infinita distesa nera e inaridita...
Zora continuava a pensare e a ripensare al sogno durante tutto il giorno, finché i dettagli pian piano non perdevano nitidezza. Quel luogo era reale? E chi era il ragazzo? Cosa mai poteva significare? Aveva letto un mucchio di testi sull’interpretazione dei sogni – lei stessa si era cimentata nelle letture più fantasiose, pur di soddisfare i clienti – ma non riusciva a cogliere nessun riferimento simbolico.
Così come i suoi pensieri, anche le giornate al Gellert Institute erano ripetitive; ogni mattina Zora si alzava, indossava uno degli abiti che chissà chi aveva scelto per lei, e scendeva in refettorio con gli altri ospiti, evitando per quanto possibile di iniziare conversazioni: la dottoressa Sanders non la fece più chiamare dalla loro ultima, breve conversazione, ma in compenso il dottor Volmer passava da lei tutti i giorni, uscendosene di tanto in tanto con qualche aneddoto noiosissimo sul regno animale che giustificasse le sue teorie sull’evoluzione. E poi c’era Colette, la ragazzina col cervello bacato che continuava a farfugliare di auree e minuscoli esseri verdi che solo lei era in grado di vedere. Zora non sapeva se fosse dovuto al suo status di nuova arrivata, ma sembrava che Colette avesse maturato uno strano interesse per lei, più che per chiunque altro: appena la vedeva, le correva sorridente incontro dicendo cose senza senso del tipo: «Che bell’azzurro brillante hai intorno stamattina!» oppure «Attenta, i tuoi pensieri stanno svolazzando dappertutto! Oh, ecco! Forse riesco a riacciuffarne qualcuno!» E poi si metteva a saltare per la stanza, battendo le mani come a caccia di zanzare invisibili.
Zora provava pena per la sua condizione, ma trovava sempre mille scuse per levarsela di torno. Quando non era Colette a darle il tormento, ci pensava l’infermiera Inga, sempre con quel sorriso giulivo stampato in faccia e sempre pronta a proporle un’attività diversa da svolgere:
«Che ne dice di cimentarsi nella pittura all’aria aperta quest’oggi, Madame? O potrebbe dedicarsi al giardinaggio! È una così bella giornata!»
Zora non aveva mai coltivato alcun interesse, eccetto escogitare modi per imbrogliare la gente, così, approfittava di ogni momento di distrazione di Inga per sgattaiolare via prima che le propinasse qualcosa da fare, soprattutto se in gruppo.
Il buon umore di quella donna le dava sui nervi, così come il clima naif che si respirava al Gellert. Eppure, sembravano tutti così sereni lì. Perché lei non ci riusciva?
Non c’erano muri di contenimento, al Gellert, né graticole di filo spinato. Chiunque era libero di andare dove voleva. Malgrado ciò, Zora continuava a sentirsi un uccello in gabbia.
Non mi fido di questo posto. E non mi fido di queste persone.
E allora perché, semplicemente, non tagliava la corda? Nessun guardiano la teneva d’occhio, e di certo il dottor Volmer, mingherlino com’era, non avrebbe rappresentato un grosso ostacolo. E se anche avesse cercato di trattenerla, Zora avrebbe potuto far ricorso ai pochi incantesimi che sapeva praticare, ma che le avrebbero comunque garantito un utile escamotage.
E dove potrei andare? Non ho più niente, né una casa, né una patria, nessuno che voglia avere a che fare con me…
La verità era che Zora si era costruita la sua prigione con le proprie mani. E niente e nessuno sarebbe stato in grado di abbatterla.
«Stai sempre col muso appeso tu?»
Zora scostò dalle labbra la sigaretta e soffiò via il fumo, dicendo addio al piccolo momento di solitudine che era riuscita a ritagliarsi. «E tu, sempre a impicciarti dei cazzi altrui, Dagon?»
Ridacchiando, l’uomo poggiò la schiena contro il muro imbiancato dello spogliatoio sul retro del campetto da tennis, dove Zora si era nascosta da Inga. «Come hai rimediato le sigarette? Agli ospiti è vietato fumare.»
Aveva pronunciato la parola “ospiti” con una vena di ironia, poiché il dottor Volmer e la dottoressa Sanders evitavano di rivolgersi a loro chiamandoli pazienti. Perché il Gellert non era certo un manicomio, nossignore, come le ripetevano di continuo.
«Ho convinto un inserviente a passarmi un pacchetto ogni mattina» rispose lei, lasciando cadere con nonchalance la cenere in un’aiuola. «In cambio, io gli mostro le caviglie. È un tipo di poche pretese.»
«Sei una che sa come prendere gli uomini.»
Zora rise, con amarezza. «Se lo avessi saputo, mi sarei evitata un sacco di guai!»
«Me ne dai una?» chiese lui, suadente. «Ti mostro qualsiasi parte del corpo tu voglia.»
Lei sospirò e gli passò il pacchetto. «Per essere chiari» aggiunse seccamente, mentre lui sfilava una sigaretta. «Non verrò a letto con te. Con gli uomini ho chiuso.»
«Questo è un vero peccato.» Dagon estrasse dalla tasca dei pantaloni un fiammifero e lo accese sfregandolo contro il muro. «Quel bastardo deve averti proprio spezzato il cuore, eh?»
«Mi ha rovinata.»
Dagon restò in ascolto, la sigaretta accesa che pendeva da un angolo della bocca.
«Ma ha avuto quel che si meritava» concluse lei, in tono di avvertimento. «Perciò, fossi in te mi terrei alla larga.»
«Le donne pericolose mi sono sempre piaciute.»
«Quale parte di “non verrò a letto con te” non è chiara?»
«D’accordo, d’accordo!» Dagon ridacchiò ancora, le mani sollevate in segno di pace. «Dico solo che hai carattere. Finalmente, qualcuno che non abbia il cervello lobotomizzato!»
«”Questo non è un manicomio”» cantilenò Zora, facendo il verso a Volmer. «“E io non sono uno scienziato pazzo con l’ossessione per gli invertebrati!”»
Dagon emise una risata bassa e rauca. «Scommetto che il primo giorno ti ha paragonata a una mantide religiosa, o che so io.»
«Mi ha paragonata a una farfalla. Perché è un vero gentiluomo.»
«Di me invece ha detto che gli ricordo una cimice carabiniere» replicò Dagon. «Per via dei tatuaggi: secondo lui, anche io li adotto per scoraggiare i predatori ad avvicinarsi.»
Gli occhi di Zora si soffermarono ancora una volta sui misteriosi segni neri che gli avvolgevano gli avambracci, ben visibili a causa delle maniche arrotolate. «Ed è la verità? Ti sei riempito di quella roba per sembrare più cattivo?»
«Li ho sin da bambino. Come tutti nella mia famiglia.»
«Da dove vengo io, quando nasce un bambino gli si regala un sonaglio.»
«È una tradizione antica.» Il sorriso canagliesco di Dagon sfumò in un’espressione più seria. «Legata a un culto altrettanto antico, che in pochi ricordano.»
Zora lo fissò attentamente, turbata ma allo stesso tempo incuriosita. «Insomma, facevi parte di una setta.»
«Non era una setta.»
«Un fantomatico culto segreto, bambini marchiati…a me sembra proprio la descrizione di una setta.»
Dagon scosse piano la testa. «Ci sono cose che tu non puoi capire.»
Zora era sul punto di ribattere, ma la sua attenzione si spostò su qualcun altro, che si aggirava sul prato di fronte a loro. «Oh, cazzo. C’è Colette.»
La ragazzina saltellava tra gli alberi del parco canticchiando a labbra chiuse un motivetto infantile.  Nella posizione in cui si trovavano, nascosti da fitte siepi fiorite, lei non poteva vederli, ma a un certo punto, Colette si fermò e guardare fisso in alto, attraverso le fronde di una quercia, come rapita da qualcosa.
«Secondo te che sta facendo?»
Dagon fece spallucce. «Avrà visto uno scoiattolo. O magari, uno di quei suoi amichetti immaginari.»
Zora stette per un po’ a osservarla, e qualche istante dopo, vide comparire il dottor Volmer. Lo scienziato si fermò al fianco della ragazzina, le mani intrecciate dietro la schiena e le disse qualcosa che Zora non riuscì a sentire. Qualunque cosa fosse, però, ebbe un effetto a dir poco sconcertante su Colette; serrò i pugni, batté i piedi per terra e iniziò a strillare contro il dottor Volmer.
La scena gettò addosso a Zora un senso di inquietudine. «È normale che faccia così?»
Volmer non si scompose, ma fece un cenno discreto con la mano, e qualcun altro risalì il prato, dritto verso Colette; due uomini in camice bianco, che afferrarono la ragazzina per i polsi e la trascinarono via, mentre lei continuava a strillare e a dimenarsi.
«Che fanno?» fece Zora, in allarme. «Dove la portano?»
«Non ne ho idea. Forse ha una specie di crisi: te l’ho detto, quella non ha tutte le rotelle a posto.»
«Ma le stanno facendo male» protestò Zora. «Qualunque cosa abbia, non dovrebbero trascinarla in quel modo!»
«Che hai intenzione di fare? Zora, maledizione, aspetta!»
Prima che Dagon potesse fermarla, lei partì a passo deciso verso Volmer.
«Ehi!»
Lo scienziato si girò a guardarla, sorridente. «Oh, guten morgen, Madame Salomé! Inga la cerca..!»
«Che cosa ha fatto a Colette?» volle sapere Zora, faticando a contenere l’agitazione che le ribolliva dentro. «Perché permette che le mettano le mani addosso?»
Volmer sospirò, con aria triste. «Non è stato un bello spettacolo da vedere, lo capisco. La dolce Colette soffre di una grave forma di isteria. Spesso dimentica di assumere i farmaci, e viene colta da nevrosi violente. Per questo sono venuto a cercarla, per assicurarmi che non facesse del male a se stessa e agli altri ospiti.»
«Ma stava bene prima che arrivasse lei!»
«Si agita molto facilmente» spiegò Volmer, con voce paterna. «La sua mente è fragile, basta poco per turbarla, anche una parola fraintesa…»
Zora non si bevve neppure una parola. «Mi piacerebbe proprio sapere che cosa esattamente abbia “frainteso”.»
«Eccoti, finalmente!»
Dagon apparve al fianco di Zora e le passò il braccio attorno alle spalle. «Ma come, non ti sei ancora cambiata? Stiamo aspettando te per cominciare la partita!»
Lei si divincolò, irritata. «Che cazzo stai facendo?»
«Oh, ma piantala!» fece Dagon, con una risata bonaria e assolutamente fasulla. «È tutto il giorno che ripeti di volerci stracciare a cricket!»
«Signor Carcosa!» Volmer si rallegrò. «Vedo che grazie a lei Madame ha deciso di integrarsi nella nostra famiglia! La dottoressa Sanders ne sarà felice! A proposito, Madame: mi ha chiesto di riferirle che vorrebbe conversare un altro po’ con lei, questo pomeriggio.»
Qualsiasi obiezione evaporò dalla mente di Zora. «Perché?»
«Oh, suppongo abbia trovato molto stimolante la vostra ultima chiacchierata! L’appuntamento è fissato per le 16:00 in punto, le raccomando di non tardare! E ora, la lascio pure a divertirsi col cricket!»
Si accomiatò poi con un inchino tutto svolazzi e riattraversò il prato, fischiettando.
Dagon la lasciò andare. «Devi stare più attenta. Volmer non è svampito come sembra.»
Zora lo fissò in tralice. «Quindi non sono paranoica: nemmeno tu ti fidi di lui!»
«Io non mi fido di nessuno.» Dagon la guardò negli occhi, intensamente. «Ma ne ho passate troppe, e non intendo finire di nuovo nel buco merdoso da cui sono scampato. E sono sicuro che neppure tu lo vuoi: perciò, riga dritto e cerca di non attirare l’attenzione.»
Zora represse un brivido. «Secondo te che cosa faranno a Colette?»
«Forse la sederanno. Forse le faranno l’elettroshock. Non mi riguarda.»
La porta rossa. Zora ripensò agli uomini in camice bianco che aveva visto uscire di lì giorni prima. Erano gli stessi che avevano portato via Colette, non c’erano dubbi. 
«E quindi, che cosa farai?» domandò a Dagon, con voce tagliente. «Continuerai a fingere che ti interessino stronzate come il cricket purché ti lascino in pace?»
«Esattamente» rispose lui, l’espressione dura. «E ti conviene farlo anche tu, se non vuoi guai.»
 
Zora attese l’incontro con la Sanders con i nervi tesi come corde di violino.
Se Dagon aveva ragione e la cosa migliore fosse mantenere il profilo basso, allora doveva preoccuparsi se la scienziata era così interessata a lei?
Di norma le riusciva facile leggere le persone, cogliere le loro intenzioni come se fossero dipinte loro in faccia. Ma lì sembrava tutto così dannatamente nebuloso. Cosa ci facevano davvero lei e gli altri ospiti al Gellert? In cosa consistevano esattamente gli studi del dottor Volmer e della Sanders? Da quando era lì, Zora non era mai stata sottoposta ad alcun esame.
Finora…
«Accomodati, darling!» La Sanders la accolse con un sorriso radioso, non appena ebbe varcato la soglia del suo ufficio. «Grazie per essere venuta.»
Stavolta non si trovava dietro la scrivania, ma comodamente seduta in una poltroncina, di fronte a un tavolino e a una seconda poltrona vuota.  Ad attenderla c’erano anche una tozza teiera di ferro posata su un fornelletto e due tazzine di ceramica prive di manico.
Zora sedette in poltrona, esibendosi nella sua imitazione più convincente di una persona a proprio agio. «Il dottor Volmer dice che vuole parlare ancora un po’ con me.»
«Of course! Ma ti prego, chiamami Olivia e dammi del tu! Questa è una semplice chiacchierata tra amiche.»
«Domando scusa» disse Zora, accennando un sorriso. «Mi è difficile aprirmi con le persone. Chi nasce con capacità come le mie tende ad essere schivo.»
La Sanders annuì, sorridendole con indulgenza. Se anche la sua era tutta una recita, Zora dovette riconoscere di trovarsi di fronte un’attrice esperta tanto quanto lei.
«Lo comprendo molto bene.» La scienziata prese la teiera e riempì le tazzine con del tè verde fumante, per poi riporla sul fornelletto. «Sai, nemmeno io ho avuto una vita facile: sono cresciuta in una piccola comunità dell’Ohio, molto chiusa, povera e religiosa. Mentre le mie compagne di scuola parlavano di bei vestiti, balli e ragazzi, a me era concesso di uscire di casa solo per frequentare la parrocchia. Non potevo possedere libri, concedermi qualche piccola vanità, e anche solo nominare la parola “progresso” era un sacrilegio. Ho odiato quel posto con tutta me stessa.»
Zora ascoltò il racconto, domandandosi dove volesse andare a parare.
«Mio zio Hugh però vide del potenziale in me» continuò la dottoressa. «Lui se ne era andato di casa da ragazzo, aveva frequentato l’università, viaggiato per tutto il Paese. Mi disse che un cervello come il mio era sprecato in Ohio. E mi propose di andare in California insieme a lui.
Mi iscrissi all’università, spronata da mio zio. Non è stato facile, ho dovuto mangiare fango, subire umiliazioni, lottare in un mondo dominato da uomini come un animale nella giungla. E nel frattempo, ho messo a punto il Programma e convinto il dottor Volmer a darmi una mano per realizzarlo: il nostro obiettivo è rendere l’umanità migliore grazie al progresso, alla ragione e all’eugenetica.»
Sollevò a due mani una tazza, soffiandoci delicatamente sopra, e invitò Zora a fare lo stesso. Lei eseguì, ma aspettò che fosse la Sanders a bere per prima, e solo allora decise che fosse sicuro portarla alle labbra. Si rivelò un comunissimo tè verde, che sapeva di erba.
«Spero di non averti annoiata con questa storia.» La Sanders allontanò la tazzina e studiò Zora con interesse, lo stesso con cui si guarda una tigre allo zoo. O con cui una tigre guarda i visitatori. «Voglio solo che tu sappia che qui al Gellert nessuno ti giudica per le scelte che hai compiuto. È nell’indole di qualsiasi creatura lottare con ogni mezzo pur di sopravvivere, soprattutto per chi come noi non ha ricevuto molti doni dalla vita. E non sai quanto sia grata a te e a tutti i nostri ospiti per la possibilità che ci offrite di indagare da vicino le vostre capacità!»
Zora chinò il capo con umiltà. «E io lo sono a voi per avermi accolta.»
Il sorriso della donna si allargò impercettibilmente e bevve un altro sorso di tè.
«Nel tuo fascicolo ho letto che hai predetto il destino di molte personalità illustri» riattaccò subito dopo la scienziata. «Uomini d’affari, letterati, politici…persino uno zar!»
«Gente tormentata» rispose Zora, attenta alla scelta delle parole. «A cui ho cercato di offrire conforto.»
«In molte interviste hai dichiarato di agire per conto di Dio» replicò serafica la Sanders. «Sei di fede musulmana, giusto?»
Prima di rispondere, Zora elencò mentalmente tutti i dogmi del Corano che aveva infranto nella sua vita, a partire dal divieto di assumere alcolici. Sul suo fascicolo doveva esserci scritto anche questo. «Mi considero più un tipo spirituale che religioso.»
«Ma ritieni che sia stato Dio a conferirti questi doni.»
«Ritengo che tutto accada per una ragione.»
«Anche il tuo arresto?»
Zora si irrigidì. «Come?»
«Non fraintendermi, non intendevo risultare irriguardosa» puntualizzò la Sanders, gentilmente. «Trovo solo curioso che una persona con le tue capacità non sia riuscita a prevedere la sua sorte in tempo.»
Aveva toccato un nervo scoperto, e Zora sentì che la sua maschera di compostezza iniziava a creparsi. «Non è così che funziona.»
«E allora come funziona?»
«Pensavo fosse compito vostro scoprirlo.»
«Ti andrebbe di provarci con me?»
Zora mise giù la sua tazzina e la fissò, interdetta. «Vuole…vuoi che predica qualcosa su di te?»
«Oh, come on!» cinguettò la donna, con una strizzatina d’occhio. «Non mi aspetto una lettura accurata: just among us, una cosa tra amiche.»
Ancora con questa storia! pensò Zora, scaldandosi. Non siamo amiche, stronza fanatica del cazzo. E questo tè fa schifo!
Le dedicò ugualmente un sorriso tirato. «Perché no.»
La Sanders vuotò la sua tazza e la fece scivolare verso Zora. «Puoi cominciare da questa.»
Zora prese la tazzina tra le mani sudaticce, e la fece oscillare lentamente, per poi capovolgerla sul piattino. Gli occhi della Sanders erano puntati su di lei, come due fanali.
«Vedo che sei una donna ambiziosa» cominciò Zora. «Che detesta trovarsi nel torto.»
Scrutò la Sanders di sottecchi, concentrandosi per cogliere qualche indizio nel suo aspetto che la aiutasse a continuare la premonizione. Si era sempre trattato di questo, di leggere le persone, non gli oggetti. Ma l’impressione di Zora fu di trovarsi di fronte a una parete bianca: niente gioielli. Trucco quasi inesistente. Vestiti sobri e assolutamente anonimi. Mani curate senza sfociare nell’ossessività. La postura era perfettamente rilassata, e un sorriso placido quanto indecifrabile aleggiava sulle sue labbra.
Stessa cosa il suo ufficio: solo sterili libri di medicina, muri immacolati, nemmeno un ricordo, una foto, un qualsiasi oggetto personale o legame affettivo.
«Allora?»
«Ecco.» Zora deglutì, sentendo che la sua voce stava perdendo sicurezza. Tornò a spostare l’attenzione sulla poltiglia umidiccia sopra al piattino. «A volte mi ci vuole un po’ per interpretare i fondi. Gli spiriti stasera non parlano chiaramente.»
«Mhmm» fece la Sanders. «Interessante. Magari quello che serve ai tuoi spiriti è solo un piccolo aiuto.»
Zora aggrottò la fronte, confusa. Senza smettere di sorridere, la scienziata si alzò, diretta alla scrivania. Estrasse da sotto la camicetta una minuscola chiave, che usò per aprire il primo cassetto, da cui tirò fuori qualcosa.
«Che ne dici di provare con queste?»
E lasciò sopra il tavolino un mazzo di carte, vecchie e consumate.
Nel riconoscerle, Zora riuscì a trattenere a malapena un sussulto. «Dove le hai prese?»
«Questo non ha importanza. Prosegui la lettura.»
Zora continuò a fissarla, attenta e guardinga.  Aveva così tante domande, e allo stesso tempo si sentiva sgradevolmente esposta.
Cercò di ricomporsi alla meglio. «Molto bene.»
Prese in mano le carte, sforzandosi di contenere la commozione che la pervase al solo tocco. Le carte di Baba. La sua eredità. Fu come aver trovato finalmente un pezzo di sé che credeva di aver perduto per sempre.
Mescolò il mazzo, come aveva fatto innumerevoli volte, e dispose cinque carte coperte di fronte a sé. Sollevò la prima, partendo da destra.
«Ti porti dietro un peso» disse. «Un male al cuore. Cose che hai perduto. Un amore non corrisposto, sbagliato, immorale, che ti ha spezzata. Ma qualcosa è in arrivo, qualcosa che hai atteso da tutta la vita: una grande verità che ti sarà svelata.»
Gli occhi impassibili della donna sfavillarono, avidi. «Quando accadrà?»
«Presto» disse Zora, stavolta senza esitazione. «Il destino è già in moto, ma il prezzo che pagherai per ottenerla sarà alto. Sei ancora in tempo per rinunciare.»
La Sanders non fece commenti. Osservò le carte, poi di nuovo Zora. «Continua.»
Zora mise un’altra carta sul tavolo. «Il passato ti ossessiona, ma per sfuggirgli riponi fiducia verso il futuro. Credi ciecamente in ciò che stai portando avanti e sai che niente potrà fermarti. Eccetto la paura.» Zora alzò lo sguardo, scrutando gli occhi impassibili della scienziata. «Sei brava a fingerlo, ma l’ignoto ti spaventa. Perché non sai se sarai abbastanza forte da affrontarlo.»
Lo sguardo della Sanders si era fatto improvvisamente freddo. «Può bastare» sentenziò. «Sei libera di andare, adesso. Dirò al dottor Volmer di riferirti quando avverrà la prossima fase del Programma.»
Prima che Zora potesse muoversi, la scienziata riunì le carte e ricompose il mazzo, per poi infilarselo in tasca.
«Che stai facendo?» Zora guardò fisso la donna, la rabbia che le bruciava in fondo alla gola. «Sono le mie carte!»
«No, non lo sono» rispose la scienziata, con tutta la calma del mondo, ma ancora con quel gelo impalpabile nello sguardo. «Appartengono al Gellert. Ai nostri ospiti non è consentito possedere oggetti personali, dovresti saperlo.»
«Che cosa!?»
«Era nel contratto che hai firmato.»
Zora impallidì. «No, non è vero. Zeman me l’avrebbe detto!»
«Deve essergli sfuggito.»
La Sanders tornò alla scrivania e chiuse a chiave il mazzo nel cassetto. Zora a quel punto scattò in piedi, pronta ad avventarsi su quell’arpia e strappare via i tarocchi dalle sue grinfie, ma in quell’istante la porta dello studio si aprì, rivelando i due uomini in camice bianco di quella mattina.
Zora serrò i pugni, sentendo montare il panico. «Che significa?!»
«Significa che il tempo a nostra disposizione è scaduto» disse la Sanders. Prese posto alla scrivania, mettendo in ordine le sue carte. «Verrai accompagnata alla tua stanza. See you soon, darling

 
 *

Dagon Carcosa era steso sul suo letto e fissava le ombre proiettate dai rami di un albero, sul soffitto della stanza che gli avevano assegnato al Gellert.
Non dormiva. Ormai da diverso tempo, era raro che riuscisse a concedersi sonni tranquilli. Il katorga siberiano non era stato una passeggiata, eppure, il lavoro senza sosta a -20 gradi, le percosse, la fame, la sete e il vento gelato che ti prendeva a schiaffi fino a scorticarti la pelle erano quello che erano, una tortura alla luce del sole, che non si nascondeva dietro falsi sorrisi.
Ma il Gellert…gli metteva i brividi, cazzo. E il pericolo di venire sgozzato nel sonno lì non era meno reale di quanto non lo fosse nel campo di prigionia…
Come spesso accadeva, nelle notti come quella in cui non poteva trovare conforto nel sonno, la sua mente riportò a galla altri ricordi, più antichi, di una vita libera e raminga, in cui credeva che nessuno sarebbe mai riuscito a mettergli addosso delle catene.
Ed ecco che di colpo era lì, nella sua carovana, seduto sul retro del carro condotto da suo padre, a dividersi spicchi d’arancia con i fratellini. Si rivide assieme al suo clan attorno al fuoco, ad ascoltare i racconti degli anziani, le rughe sui loro volti accentuate di bagliori delle fiamme e l’intreccio di tatuaggi neri che percorreva le loro membra scarne. Raccontavano storie di un mondo antico, un mondo perduto, in cui i miracoli erano all’ordine del giorno. In cui i loro antenati erano in grado di fare cose straordinarie, di far crescere gli alberi nel giro di una notte cantando, cambiare il corso dei fiumi con un semplice gesto, e rinascere dalle proprie ceneri come fenici…
Un mondo lontano e dimenticato, di cui l’unica traccia erano i simboli tracciati sul suo corpo: una costellazione di stelle morte, una mappa verso luoghi irraggiungibili, intessuta attraverso le ere dalla sua stirpe.
“La carne e l’inchiostro rendano immortale ciò che i ricordi non possono custodire” dicevano gli anziani, prima di incidere il corpo di un nuovo membro della comunità. Perché i ricordi erano facili da rubare. Molto più di quanto si pensi.
Dagon non lo aveva creduto possibile fino al giorno in cui quell’uomo non era arrivato nel loro accampamento.
Aveva dieci anni, allora. Ma il ricordo del fuoco, delle grida dei loro guerrieri lanciati all’attacco, del sangue che macchiava la neve, era marchiato nella sua mente e lo sarebbe stato per sempre. Così come l’immagine di suo padre e quell’uomo che duellavano in mezzo alla tormenta, tra violente raffiche di vento e ghiaccio. Il lampo rosso che accendeva la notte e il corpo di suo padre che piombava a terra. Ma soprattutto, ricordava l’espressione dell’uomo nel momento in cui si era reso conto che lui era lì, che aveva assistito a tutto.
Li rivedeva ogni notte, gli occhi grigi di quel colosso avvolto da un manto di pelliccia, che si sgranavano dallo stupore e dal senso di colpa, alla vista di un ragazzino in lacrime inginocchiato sul cadavere del padre.
“Mi dispiace” erano state le sue ultime parole, mentre l’ascia di energia rossa che stringeva ne pugno si dissolveva. “Ho fatto ciò che dovevo. Se un giorno vorrai reclamare la tua vendetta, sarò pronto a riceverti.”
Il Flagello del Nord.
Il Lupo Grigio.
Boris Volkov, l’Arcistregone del Nord, mandato da Arcanta per rubare al suo popolo la magia e ogni suo ricordo…
Ma io non dimentico si disse Dagon, gli occhi fissi sulle ombre ramificate che lo sovrastavano. Quel giorno è arrivato. Sono pronto a reclamare la mia vendetta…
 O almeno, lo sarebbe stato se non fosse costretto in quel manicomio del cazzo…
Un paio di colpi decisi alla porta lo distolsero da quei pensieri.
Dagon si alzò, ma sapeva chi fosse prima ancora di aprire la porta, e non si preoccupò di indossare la camicia.
«Buonasera, bellezza» disse, le labbra già atteggiate in un ghigno sornione. Si poggiò contro lo stipite e incrociò le braccia. «Che ci fai qui a quest’ora? Hai forse cambiato idea? Sulle parti del corpo che potrei mostrarti…»
«Piantala di fare il cazzone» lo mise al suo posto Zora, ma nella sua voce lui colse una certa urgenza. «Non sono qui per quello.»
Lui inarcò le sopracciglia, incuriosito. «E per cosa?»
«Eri un buon ladro prima di finire al Gellert?»
«Se fossi stato un buon ladro, non mi troverei al Gellert.»
«Fa niente, mi accontenterò» tagliò corto la bella medium, lo sguardo che sprizzava furia. «La Sanders ha i miei tarocchi. E tu mi aiuterai a riprendermeli.»
  
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