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Autore: Nina Ninetta    15/03/2024    5 recensioni
Anita è una studentessa di 16 anni che vive un profondo disagio sociale e se ne sta fin troppo spesso per conto proprio. Completamente sola, all’inizio del terzo anno, si trasforma nella vittima perfetta di un gruppetto di bulli che la vessa con dispetti e insulti di ogni genere. Il peggiore fra tutti, secondo Anita, è Stefano: un ragazzo scaltro e intelligente che sa usare fin troppo bene le parole, cosa in cui anche lei è brava! Qualsiasi altra persona, al posto di Anita, si sarebbe lasciata avvilire da questa situazione, ma non lei, poiché non si sente affatto sola, c’è il suo migliore amico a darle man forte: ȾhunderWhite! Un ragazzo con cui chatta ormai da tempo e che ha conosciuto in rete, su un sito per giovani scrittori come lo sono loro! Sebbene vivano nella stessa città, Torino, non si sono mai incontrati di persona, fin quando ȾhunderWhite non sente il desiderio di vederla dal vivo...
Questa storia partecipava alla challenge “Gruppo di scrittura!” indetta da Severa Crouch sul forum “Writing Games - Ferisce più la penna” - aggiornamenti ogni 15 giorni.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ȼapitolo Ðieci

 “Տorrento
 


Il primo sorriso sul volto di Anita Lentini si manifestò di fronte alla bellezza del mare. Una distesa sconfinata di celeste che all’orizzonte si fondeva con il cielo e mandava riverberi di sole. Era come se in quella parte di Italia la bella stagione non fosse ancora finita, come se non dovesse finire mai in realtà. Illimitata.
Anita si era voltata verso la portafinestra che dava sul terrazzo dell’hotel, rapita dal verso dei gabbiani e dalla brezza che le aveva smosso i capelli. Era stato in quel momento che gli occhi le si erano riempiti di azzurro e le narici di odore di mare. Si era mossa, senza neanche rendersene conto, mentre gli altri erano intenti a registrarsi alla reception, respirando a pieni polmoni l’aria buona di Sorrento. Il terrazzo cadeva a picco sul mare, dove alcuni bagnanti erano in costume a prendere il sole; piccole imbarcazioni stanziavano a mollo e viste da lassù in alto sembravano minuscole, da poter quasi tenere in un palmo di mano. E aveva sorriso Anita, chiudendo gli occhi e inarcando leggermente la testa all’indietro. Finalmente, dopo mesi e mesi, sentiva il cuore più leggero, la vita sembrava fare meno schifo. Una volta, aveva letto da qualche parte che è facile essere felici di fronte al mare, o qualcosa di simile. Beh, chiunque l’avesse detto/scritto aveva avuto ragione.
«Lentini, ehi?!» Stefano la chiamò affacciandosi oltre le ante della finestra. Lei parve svegliarsi da un sogno a occhi aperti, un velo di apatia le ricadde sul viso. «La Dell’Arco ha detto che dobbiamo salire in camera.»
Anita fissò ancora per qualche secondo il panorama che si espandeva dinnanzi a lei: una costa verdeggiante che scosciava direttamente nel blu profondo del mare. Una cartolina. Quindi oltrepassò Stefano per tornare all’interno dell’albergo, solo allora notò che sulla schiena della t-shirt che lui indossava c’era il simbolo de “Il Signore degli Anelli”. Che lo avesse fatto di proposito? In fondo, il loro rapporto virtuale era cominciato per un disguido su quale saga fosse la più bella tra il capolavoro di Tolkien – appunto – e quello della Rowling.
«Non hai mai visto il mare, Sfigatella?» Le sussurrò quando gli passò proprio davanti, attenta a non sfiorarlo neanche per errore.
«La tua maglia fa cagare!»
Stefano Parisi accennò un sorriso criminale.
 
La camera che era stata loro assegnata si rivelò essere una suite a due ambienti e un bagno; inoltre, a dividere le camere da letto c’era solo una tenda di velluto rosso, broccato pesante, e nulla più. Né una porta, né altro. La professoressa di italiano storse il muso, era abituata da anni a vivere da sola e ad avere una privacy completa, invece adesso avrebbe dovuto condividere uno spazio ristretto con altre tre persone, tra cui due maschi. Per fortuna si sarebbe trattato solo di una notte. Mise subito in chiaro che la toilette sarebbe stata usata innanzitutto dalle donne, poi sarebbe toccato a loro.
«E se fosse urgente?» Scherzò Elia Morales.
«Te la tieni!» Fu la risposta secca di lei.
Poiché la cerimonia sarebbe cominciata alle diciotto e mancavano diverse ore, senza contare che dovevano pranzare, decisero di fare una passeggiata per la città. Sorrento si rivelò un paesino bomboniera, con vicoletti caratteristici e alberi di limoni in ogni angolo. Il mare spiccava fra le case e Anita non perdeva mai occasione per lanciare un’occhiata nella sua direzione: balsamo per gli occhi e l’anima. Si fermarono a condividere una pizza, a prendere un gelato, a fare shopping per comprare qualche souvenir. Anita Lentini ne prese quattro: per lei, sua mamma, suo padre e anche per Alessia. Ne uscì con una busta enorme, sperando di riuscire a farla entrare in valigia.
«E tu Stefano? Non vuoi comprare niente?» Chiese Giovanna, mentre lui fumava con la sigaretta fra le labbra e gli occhi stretti. Si era cambiato, adesso indossava una camicia colorata oversize a mezze maniche.
«No» rispose, dopo aver finto di averci riflettuto.
«Niente niente? Neanche per Barbara Scala?» Sghignazzò la professoressa.
Anita rivolse l’attenzione sulla conversazione dai toni irrisori.
«La faresti super felice… guarda che carine queste saponette al limone a forma di cuore» continuò la Dell’arco, divertendosi come una bambina nel mettere in difficoltà il suo alunno.
Stefano tirò ancora dalla Marlboro, lanciando uno sguardo di sottecchi ad Anita Lentini che lo fissava quasi a bocca aperta, in attesa. Sua sorella Alessia le aveva detto che Stefano e Barbie si erano fidanzati la sera della festa della scuola. Quando, in pratica, Storm e Ⱦhunder si erano incontrati ai lampioni innamorati. Provava in quel momento una sensazione stranissima, un misto fra tristezza e rabbia e non riusciva a spiegarsene la ragione o cosa significasse. Sapeva solo che se avesse potuto avrebbe girato i tacchi e se ne sarebbe andata via, per non sapere, per non vedere. Invece rimase lì, immobile, mentre Stefano con finta disinvoltura spegneva il mozzicone con la suola della scarpa ed entrava in negozio per comprare una di quelle saponette a forma di cuore da regalare alla sua fidanzata. Ad Anita venne da piangere.
 
Intorno alle diciassette e poco più, Giovanna Dell’Arco impose ai due maschi di vestirsi e lasciare la stanza, poiché a loro donne serviva spazio e privacy per prepararsi. Elia e Stefano tentarono di recriminare, ma non ci fu verso di far cambiare idea alla professoressa di lettere che li accompagnò personalmente alla porta. In testa aveva due bigodini per il ciuffo e senza neanche un velo di trucco sembrava decisamente più giovane. Anita sedeva sulla sponda del letto, testa bassa e muso lungo, quando sentì il rumore della porta che si apriva alzò gli occhi, e attraverso la piccola fessura fra le tende, scorse lo sguardo di Stefano. Lo sguardo di ȾhunderWhite. Ⱦhunder, che aveva comprato una saponetta a forma di cuore per la sua ragazza; Ⱦhunder, che aveva cominciato a prenderla in giro chiamandola Sfigatella, come facevano i bulli a scuola; Ⱦhunder, che era diventato uno di loro. No, in realtà lo era sempre stato, solo che lei non lo sapeva. D’improvviso, si chiese cosa ci facesse lì, lontana chilometri e chilometri dalla sua famiglia, con due professori e un compagno che la detestava. Si alzò in piedi quando la porta della stanza si chiuse e si avvicinò al balcone. Il sole cominciava a calare sul mare, il cielo era striato di rosa e l’azzurro acceso si era trasformato in un colore più chiaro, quasi bianco. Si asciugò una lacrima, se quella mattina il panorama le aveva dato una spinta vitale importante, adesso sembrava prosciugarla di quel poco di buonumore che aveva trovato, trasmettendole un senso di malinconia.
«Finalmente quei due si sono tolti dalle scatole» esordì la professoressa tornando nella stanza e accendendosi una sigaretta uscì sul balcone. «Tutto bene, Lentini?»
«Mi manca casa» ed era vero, in parte. Poi disse che sarebbe andata in bagno e lasciò l’insegnate a rimuginare sulla situazione.
Giovanna Dell’Arco si puntellò con i gomiti al passamano di ferro battuto. Il panorama era davvero mozzafiato. Ne aveva visti a centinaia splendidi come quelli con il suo fidanzato, eppure ogni volta li preferiva quando li guardava da sola, magari una sigaretta fra le labbra. Temeva di comprendere il comportamento della sua alunna. Che si fosse presa una cotta per Stefano Parisi? Le sarebbe dispiaciuto molto se così fosse stato, poiché quelli come lui neanche le consideravano le ragazze come lei. Non ora almeno, non a sedici anni. A trenta, forse, ma non di certo a sedici.
 
La cerimonia si tenne nella sala meeting del Grand Hotel Sorrento. Gli organizzatori fecero le dovute presentazioni, chiamando in ordine alfabetico i dieci finalisti che tra cento erano stati scelti per “la bravura stilistica, i temi affrontati e la profondità delle storie”. Peccato che solo tre sarebbero saliti sul cosiddetto podio e vinto i premi in denaro previsti.
«Tuttavia», proseguì il presidente dell’associazione, «poiché le storie sono state davvero molto interessanti quest’anno, abbiamo deciso di pubblicare un’antologia con i dieci racconti finalisti!» Ne scaturì un applauso scrosciante, qualche professore gridò un “bravo”.
Il nome di Stefano Parisi venne chiamato al numero otto. Il ragazzo fece un passo in avanti, gli fu donata una targa commemorativa, qualche plauso di circostanza, poi tornò in platea a sedere al fianco del professore di spagnolo che si congratulò con lui, dandogli una pacca sulla spalla. Anche Giovanna Dell’Arco gli fece i complimenti stringendogli un ginocchio, lui ringraziò con un occhiolino. Un po’ gli rodeva, doveva essere sincero. Per uno puntiglioso, che si impegnava per essere il migliore, arrivare all’ottava posizione su dieci – mentre quella Sfigatella era ancora lì – non gli andava tanto a genio. Che Storm fosse più brava di lui a scrivere lo sapeva, ma doveva smetterla di pensare a lei come all’amica di lunghe chiacchierate pomeridiane. Storm non esisteva più. C’era solo quella mezza cartuccia di Anita Lentini e nulla più.
«Oddio, Anita è tra i primi tre!»
Fu la voce della professoressa Dell’Arco a riportarlo con la mente al presente. Immerso nei sui pensieri, non si era reso conto che sul palco erano rimasti in tre, gli ultimi tre, tra cui anche la sua compagna di classe. Era vero, quella sfigata era ancora lì, in mezzo ad altri due concorrenti – un ragazzo e una ragazza.
La studiò a lungo, seduto al suo posto. Quella inetta non aveva messo gli occhiali per l’occasione, quindi ci vedeva anche senza? Allora perché li indossava a scuola? E si era pure truccata – “anche la sera che vi siete incontrati ai lampioni innamorati si era truccata” gli suggerì la mente, ma lui allontanò quel ricordo – e indossava un abito femminile – sicuramente della sorella, ipotizzò – con le spalline sottili e un cinturino in vita che la faceva sembrare più magra di quello che era, forse anche grazie ai tacchi che la slanciavano. Perché lei non era mai stata magra, giusto? Cioè, non è che fosse grassa, ma quel fisichetto asciutto quando se l’era fatto? In estate? Ce lo aveva dapprima e non c’aveva mai fatto caso? E i capelli? Erano diversi o sbagliava? Più lunghi, sicuramente più lisci, più chiari…
«Il vincitore del concorso letterario è…» la voce del presidente dell’associazione lo riportò a fatica al presente. «Anita Lentini!»
«Oddio!» Giovanna Dell’Arco lanciò i pugni al cielo e nell’euforia generale abbracciò di slancio Elia Morales che sedeva alla sua sinistra, poi si alzò in piedi e prese ad applaudire seguita dal resto dei presenti.
Anita sembrava non sapere neanche dove si trovasse, mentre il presidente si congratulava con lei tenendo una mano nella sua e parlava parlava parlava. Lei ringraziava commossa, non poteva crederci. Aveva vinto, la sua storia era arrivata prima – prima! – fra cento. Incredibile! E aveva anche vinto dei soldi – 300 euro – per una cosa che aveva scritto. Da non credere. Cercò con lo sguardo le persone che l’accompagnavano: la professoressa Dell’Arco che sembrava emozionata come può esserlo un genitore fiero; il professore di spagnolo che incrociando lo sguardo con il suo ampliò il sorriso sincero e le lanciò un bacio con la mano; Stefano Parisi, che la fissava tenendo stampata in volto un’espressione indecifrabile.


 
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