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Autore: Hazel92    26/03/2024    0 recensioni
Violet Tilton ha tutto quello che si potrebbe desiderare nella vita. Vive a New York, è una scrittrice di successo, ha dei buoni amici e due genitori fantastici. Una telefonata inaspettata però cambierà ogni cosa e Violet sarà costretta a mettere in discussione se stessa e le sue origini. Divisa tra la grande mela e una piccola cittadina della Pennsylvania, Violet si troverà a dover scoprire vecchi segreti, fare nuovi incontri e fronteggiare pericolose rivelazioni.
Genere: Romantico, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 8 

 
Ottavo giorno di esilio a Woodthon.  
Negli ultimi giorni i miei unici contatti sono stati con un'anziana donna di nome Miranda. Fa la pittrice e sta lavorando ad un mio autoritratto. Niente più notizie di Maxwell Sinclair dal nostro ultimo incontro.  
Provo sentimenti contrastanti per questo. Per quanto detesti la sua presenza, vorrei rivederlo. Ho bisogno di sapere se conosceva mia nonna. Magari farò un salto al Sinclair's.  
Per quanto riguarda le indagini sulla mia famiglia ho una buona e una cattiva notizia. La buona è che ho scoperto il nome di mio padre: Ian Harrington.  
La cattiva è che è morto.  
 
-V 

 
Inviai quest’e-mail ad Alison, poi sprofondai sul grande divano che arredava la sala da pranzo sospirando. Avevo iniziato a scriverle in quel modo due giorni fa, e per qualche motivo mi era più facile farlo parlando così. Mi comportavo come se fossi una sorta di prigioniera e questo mi fece sorridere.
 
Da quando avevo scoperto di mio padre, il mondo mi era crollato addosso. Era assurdo, perché neanche lo conoscevo, ma proprio il fatto che ora che avevo scoperto la verità sulle mie origini, non avrei mai potuto conoscere il mio vero padre mi rendeva particolarmente triste. Ovviamente lo avevo scoperto tramite Miranda. Ero nel suo soggiorno, a posare per lei, quando senza che le avessi chiesto niente ha iniziato a parlare di un certo Ian.  
- A pensarci bene – aveva detto – è stata l’ultima persona a cui ho fatto un ritratto prima del tuo arrivo… - avevo iniziato ad incuriosirmi, così le avevo chiesto chi fosse quest'uomo. 
- Oh, era il figlio di Darlene, la donna che abitava lì prima di te – lo aveva detto con nonchalance, perché naturalmente non aveva idea del mio interesse. Avevo cercato di non far trasparire emozioni dal mio viso, dal momento che per fare il mio autoritratto aveva bisogno di osservarmi molto. Tuttavia ero certa che nella mia espressione qualcosa fosse cambiato. Miranda non ci fece troppo caso, mi ricordò soltanto di tenere la testa alzata e lo sguardo fermo, rivolto verso di lei.  
-Era?- domandai con la voce tremante. 
-Povera anima – mi rispose l'anziana pittrice senza arrestare i movimenti della sua mano. Avevo notato che quando dipingeva sembrava cadere in una sorta di trance. - è morto quando era ancora troppo giovane. Un incidente d'auto... poi mi dicono perché non guido – Miranda scosse la testa, presa da chissà quale considerazione su quanto fosse prudente o meno portare la macchina. Non so perché decisi di rimanere lì a posare. Pensandoci bene, alla vista di Maxwell Sinclair ero scappata, mentre quando avevo scoperto che mio padre era morto ero rimasta lì, come una statua di cera.  
Ripensando a quel momento, mi chiesi cosa intendesse Miranda per "troppo giovane". La mia tesi su dei genitori troppo giovani e una ragazza madre che non poteva tenermi con se si avvalorava o erano solo coincidenze? 
Mi lasciai sfuggire una risata amara e mi dissi che probabilmente quella cittadina mi stava facendo impazzire. Avevo bisogno di un assaggio di vita Newyorkese, e quale modo migliore di farmi stressare da Claire? 
Da quando ero arrivata a Woodthon avevo palesemente ignorato ogni sua e-mail, ma forse era arrivato il momento di risponderle. In alcune chiedeva ovviamente se avessi fatto progressi con il libro, mentre in altre semplicemente mi sbraitava contro perché ero sparita. Inutile dire che non avevo scritto neanche mezza riga del romanzo che voleva lei, tuttavia decisi di mentire e farle credere che prima di iniziare a scrivere qualcosa stavo raccogliendo le idee. La verità era che non ne avevo neanche una. Schiacciai sul tasto “invia” e spedii l’e-mail. In quel momento mi resi conto che non avevo la più pallida idea di che giorno fosse. Stare lì mi aveva fatto perdere completamente la cognizione del tempo.  Eravamo in mezzo alla settimana, o nel weekend? Mi sono proprio ridotta male. Pensai. A New York era praticamente impossibile perdere la cognizione del tempo. La vita lì era talmente frenetica che era impossibile perdersi come succedeva qui a Woodthon. Controllai il giorno e l’ora sul computer. Erano le cinque del pomeriggio di un banalissimo Giovedì, e questo voleva dire che Claire era ancora nel pieno della sua attività nella grande mela. La conferma non tardò ad arrivare, infatti pochi minuti dopo il mio telefono prese a squillare e sullo schermo comparve la faccia perennemente angosciata della mia agente. Come faceva quella donna a vivere sempre con quell’ansia addosso? Sospettavo che prima o poi le sarebbe venuto un infarto. 
- Ciao Claire – risposi svogliatamente. 
- Chi non muore si rivede, eh? – ignorai la sua provocazione e lasciai che si sfogasse con me. O meglio, contro di me. 
- Ti sembra il modo di comportarti? Insomma, mi mandi una e-mail con quattro parole in croce e poi mi ignori per tutta la settimana seguente. Pensi che io mi diverta a non sapere che fine fanno i miei autori? Guarda che non sei l’unica sotto pressione… - aveva parlato senza prendere mai fiato e mi chiesi come diavolo facesse.  
- Mi dispiace, Claire – dissi. – Non volevo metterti in una brutta posizione, ma avevo bisogno di staccare un po’ la spina –  
- È successo qualcosa, Violet? – il suo tono si era addolcito e per quanto la maggior parte delle volte Claire sembrasse più un robot che un essere umano, sapeva essere comprensiva anche lei. 
- A dir la verità sì, sono successe un bel po’ di cose, ma non ti preoccupare. Sto bene… - queste ultime due parole erano uscite dalla mia bocca senza che me ne accorgessi, ma mi fecero riflettere. Avevo passato gli ultimi tempi a crogiolarmi e autocommiserarmi, ma a pensarci bene, non stavo così male. Sì, certo, la mia vita rimaneva un enorme punto interrogativo, ma c’erano ancora delle cose belle a cui potevo aggrapparmi. Una era sicuramente la scrittura, l’altra erano i miei amici, e poi… e poi c’erano i miei genitori: Darren e Rebecca Tilton. Improvvisamente mi sentii in colpa verso di loro. Mi ero comportata male. Lì per lì mi ero attaccata al fatto che mi avessero nascosto la verità per tanti anni, ma non mi ero soffermata a pensare che in ogni caso loro erano stati dei bravissimi genitori. Certo, anche noi avevamo avuto i nostri alti e bassi, ma non mi avevano mai fatto mancare niente. Anzi, forse con me si erano impegnati ad essere dei genitori ancora migliori di quanto non lo sarebbero stati con la loro vera figlia, proprio perché io in realtà non lo ero, non secondo i nostri DNA. Sorrisi amaramente e decisi che si meritavano il mio perdono.  
- Claire? – dissi dopo qualche secondo di silenzio. 
- Si? – probabilmente la mia agente credeva che fossi una squilibrata. 
- Ti dispiace se ci risentiamo in un altro momento? Devo fare una telefonata importante –  
- Certo, ma questa volta non sparire! – le diedi la mia parola, poi riattaccammo. 
 
Mentre componevo il numero di mia madre, mi accorsi di quanto mi fosse mancato parlare con lei. Avevamo sempre avuto un buon rapporto, e avevo sempre pensato che fosse perché in realtà eravamo molto simili. Il che era strano visto che la maggior parte delle mie amiche al liceo si lamentavano di avere una madre che non le capiva. In genere noi figlie femmine tendevamo ad essere più legate a nostro padre e ad avere un rapporto conflittuale con le nostre madri. Per me non era del tutto così. Ero stata abbastanza fortunata da avere un ottimo rapporto con entrambi i miei genitori, ma ovviamente riuscivo a confidarmi e parlare di più con mia madre. Adesso era strano pensare che tutto ciò non dipendesse da un legame genetico, ma fosse più probabilmente solo fortuna.  
 
Il telefono non squillò a lungo prima di sentire la voce di mia madre. Immaginai che stesse sempre attaccata al telefono in attesa di una mia chiamata e questo mi fece sentire ancora più in colpa. Ma forse mi stavo dando troppa importanza. Avevo paura che fosse arrabbiata con me, invece iniziammo a parlare come se nulla fosse successo. Mi scusai per il mio comportamento, anche se lei sosteneva che non avessi bisogno di farlo, e poi parlammo ancora una volta di quello che mi avevano già raccontato, solo con più calma.  
A quanto pareva, i miei non riuscivano ad avere figli. Erano in lista d’attesa per un’adozione, ed ormai avevano quasi perso le speranze finché non ricevettero una chiamata in cui gli veniva detto che c’era una bambina di quattro anni di cui nessuno poteva occuparsi.  
- L’assistente sociale ti portò da noi e ci disse che se ti volevamo avremmo dovuto firmare un accordo di riservatezza che ci impediva di dirti la verità sulla tua adozione. Io e tuo padre all’inizio eravamo perplessi, ma tu eri così indifesa e bellissima, che ci innamorammo subito di te – mentre mia madre parlava scoppiai a piangere. Lei per qualche motivo questa volta riuscì a non farlo.  
- Pensavamo che sarebbe stato complicato per te accettarci come nuova famiglia, ma a quel punto l’assistente sociale ci prese da parte e ci fece una rivelazione –  
- Che rivelazione? – chiesi allarmata mentre cercavo di interrompere le lacrime. 
- Tu… avevi perso la memoria. Non ci disse con precisione cosa ti fosse successo, solo che avevi subito un forte trauma e non ricordavi più niente – ecco la spiegazione che stavo aspettando. Ecco perché nonostante fossi stata adottata a quattro anni non ricordassi assolutamente nulla della mia vita precedente. Diventava tutto sempre più complicato. Proprio quando pensavo di aver accettato la cosa, allora ecco che arrivava un’altra rivelazione sconvolgente. 
- Violet? – vedendo che non rispondevo, mia madre si preoccupò. 
- Sì, ci sono. Io… stavo assimilando la notizia. Insomma, sospettavo ci fosse qualcosa che ancora non sapevo, una spiegazione al mio non ricordare niente, ma… - lasciai la frase in sospeso, non sapevo come continuare.  
- Mi dispiace, tesoro. C’è un’altra cosa però che devi sapere… - inspirai lentamente cercando di prepararmi alla prossima bomba che avrebbe sganciato mia madre. – Nell’accordo c’era un’altra clausola. A quanto pare tua nonna, voleva che approfittassimo della tua situazione per far finta di essere i tuoi genitori, di esserlo sempre stati –  
- Non capisco… - ero confusa. – Perché ha voluto che vi spacciaste per i miei genitori senza dirmi mai la verità e poi proprio lei ha voluto che scoprissi tutto? –  
- Vorremmo saperlo anche noi – apprezzai la sincerità di mia madre. Non doveva essere stato facile neanche per loro. Se Derren e Rebecca Tilton erano le brave persone che conoscevo, essere stati costretti a mentirmi per tutti questi anni, per poi scoprire che era stato tutto inutile, doveva essere stato davvero un brutto colpo.  
- Mamma – continuai poi – Il posto in cui mi trovo si chiama Woodthon. Ho sbagliato a non dirvelo prima e se volete potete venire a trovarmi – avevo cambiato discorso perché dentro di me sapevo che mia madre non aveva altre informazioni utili da darmi. Tutto quello che sapeva me lo aveva sicuramente già detto.  
- Grazie, tesoro. Io e tuo padre tuttavia crediamo che in questo momento per te sia meglio restare un po’ di tempo da sola. Hai bisogno di scoprire la tua storia, da dove vieni, e devi farlo tu. Noi ti saremmo solo d’intralcio… - tentai di ribattere, ma mia madre fu irremovibile.  
Alla fine tra un singhiozzo e l’altro ci salutammo, con la promessa che d’ora in poi li avrei aggiornati ad ogni mia scoperta. Tuttavia preferii non dirle per il momento che il mio vero padre era morto.  
Chiusa la conversazione, rimasi a guardarmi intorno spaesata. Rivivere la conversazione con Miranda, parlare con Claire e poi con mia madre mi aveva disorientata. Era come se mi fossi divisa in tre persone diverse: Violet Tilton, la ragazza con la famiglia perfetta; la scrittrice famosa in mezzo mondo e Violet Harrington, la ragazza che non sapeva da dove veniva né dove stava andando. Beh, quantomeno non a lungo termine. Dove sarei andata di lì a qualche minuto lo sapevo bene. Avevo tutta l'intenzione di rifugiarmi al Sinclair's. Oddio, il fatto che lo avessi definito rifugio, era alquanto strano. Un rifugio era un posto in cui ti sentivi al sicuro, no? Ma era anche un posto in cui potersi nascondere quando volevi scappare da qualcosa o qualcuno. Certo, quello non era esattamente il caso del Sinclair's dal momento che il barista non era esattamente tra le persone che avrei voluto vedere in quel momento, ma se avevo imparato qualcosa in quei giorni era che non si poteva avere tutto dalla vita.  
Mentre mi preparavo, ripassai mentalmente quello che avevo scoperto stando a Woodthon: 
1) Il mio vero cognome era Harrington; 
2) Mio padre (Ian Harrington) era morto in un incidente d'auto quando era troppo giovane; 
3) In casa di mia nonna c'erano foto sue, di mio nonno e di suo figlio, ma neanche una mia o di mia madre. Questo creava un alone di mistero che andava spazzato via al più presto; 
4) Beh, il quattro era ancora un "Ci sto lavorando" o "ho bisogno di più informazioni". 
Come ho fatto a ritrovarmi in questo casino? Questa era l'unica domanda che riuscivo a farmi costantemente. Per quanto mi dicessi che stavo bene, avevo bisogno di non pensare, andare al Sinclair's era la soluzione migliore in quel momento. Uscii e montai sulla mia macchina provvisoria. In pochi minuti mi ritrovai davanti al locale. Ecco, questa era una delle cose positive di vivere a Woodthon: eri sicuro di non trovare mai traffico.    
                                                                                                                            
Al bancone trovai Max, intento a servire drink in un locale che ancora non era molto pieno. Tuttavia poco mi importava che quello non fosse l’orario più adatto a bere alcolici. Almeno non per una che non ci era abituata.  
Mi sedetti davanti a lui, e lo fissai. Lui ricambiò lo sguardo, ma non mi sfuggì il modo in cui mi guardò. Probabilmente aveva capito che c’era qualcosa che non andava in me. Il come lo avesse capito era un'altra storia. Tuttavia non mi disse o chiese niente. Si limitò a fare il suo lavoro, e per la prima volta apprezzai il suo essere un musone.  
- Cosa ti porto? – mi chiese semplicemente. 
- La cosa più forte che hai -. 
 
   
 
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