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Autore: francyalterego    02/10/2024    0 recensioni
Una ragazza di 22 anni si ritrova catapultata in un posto che non conosce, senza memoria e in una data per lei lontana: l'ultimo giorno del 1996.
Ha uno smartwatch, un biglietto con scritto "Don't Panic" e tantissime domande senza alcuna risposta. Degli universitari le chiedono di festeggiare insieme il capodanno, ed è qui che inizia un viaggio fatto di misteri, risse, qualche citazione nerd e una buona dose di viaggi nel tempo.
Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
Genere: Azione, Hurt/Comfort, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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» 𝘘𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦𝘤𝘪𝘱𝘢 𝘢𝘭 𝘞𝘳𝘪𝘵𝘰𝘣𝘦𝘳 𝘥𝘪 𝘍𝘢𝘯𝘸𝘳𝘪𝘵𝘦𝘳.𝘪𝘵

» Prompt: " Geometria" (pumpINK)

2010

Se c'è una cosa che odio più di tutte è il venerdì... questo perché il venerdì c'è scuola fino a tardi, in inverno è già buio quando devo tornare a casa, e una volta a casa ci devo restare per tutto il weekend. E se mi va male devo pure incontrare parenti o amici di famiglia.
È proprio brutto il venerdì.
«Sveglia, se perdi l'autobus non posso accompagnarti.» mi stringo nelle coperte calde ignorando mio padre.
«Rispondi.» oh oh. Quello è il tono da generale, il che vuol dire che se mi opponessi sarebbe un weekend ben peggiore di quello immaginato.
«Mi sto alzando.» sospiro, mentre sento i suoi passi pesanti che si allontanano e che poi scendono le scale.
La brezza mattutina mi si infila nelle ossa nonostante il pigiama pesante, provocandomi un brivido… dannato inverno.
Mi lavo, mi preparo per la scuola, metto lo zaino sulle spalle e scendo al piano di sotto «Vado.»
«Aspetta.» sento i passi di mio padre dalla cucina e lo vedo spuntare dalla porta con un toast in mano. Se non lo conoscessi penserei che sia la colazione per me, ma prima che possa illudermi addenta il toast e mi analizza dalla testa ai piedi con sguardo disgustato «ricorda che stasera ho una cena di lavoro, quindi non sarò a casa quando torni.»
«Non posso venire anch'io?» azzardo, con voce bassa. «Mark viene sempre con il padre, alle vostre cene...» lui scoppia a ridere, seriamente divertito. «Ne riparliamo quando te lo meriterai. Ti lascio qualche dollaro sul tavolo prima di uscire, prenditi la cena.» mi si avvicina e mi apre la porta, invitandomi ad andarmene mentre una folata di vento freddo mi congela le ossa, di nuovo… eppure è un dolore quasi piacevole, rispetto a quello emotivo che sto provando in questo momento «Ciao…» esco, dirigendomi verso la fermata mentre sento la porta che si chiude alle mie spalle. Mi stringo nel giubbotto e una volta arrivata mi fermo, in attesa dell’ipotermia o dell’arrivo dell’autobus.
Ho vissuto per tutti gli undici anni della mia vita qui, eppure non mi sono mai abituata al quartiere. È freddo, e non parlo solo del clima. Hanno tutti macchinoni, case da sogno, eppure nessuno ha un po' di calore nel cuore, mi ricordano tutti Scrudge, di Canto di Natale.
Non appena lo scuolabus mi si ferma davanti ci salgo sopra, prendendo uno dei pochi posti liberi rimasti, nelle prime file.
Tutti fanno casino, chiacchierano, ridono, giocano, qualcuno sente una canzone dall'Ipod e canta a squarciagola con qualche amico o amica, sono tutti impegnati in qualcosa. Sbuffo, osservando le case fuori dal finestrino e chiedendomi che vita abbia ognuna delle persone che vedo in giro. Un uomo vestito elegante sale su una macchina diretto verso la periferia, una donna esce di casa e accompagna i figli all'auto, un vecchietto spazza il viale. Sembra quasi che il mondo fuori sia silenzioso e tranquillo, e che questo scuolabus sia l'unico suo elemento di disturbo.
Mi correggo, mio elemento di disturbo.
Appena siamo davanti a scuola scendo per prima e cerco di arrivare in aula il prima possibile, mi siedo mentre la classe si popola, i soliti gruppetti si mettono a chiacchierare nei loro angoli e nessuno invade il mio territorio.
Guardo l'orologio sul muro dietro la cattedra, mancano due minuti al suono della campanella, due minuti e nessuno potrà più…
«Ehi, ci sei anche tu sta sera?» Mark, insieme alla sua banda. Sono dei ragazzini ricchi che pensano di essere migliori degli altri solo perché hanno più soldi. E si sono tutti piazzati davanti al mio banco, bloccandomi la visuale sul resto della classe.
«No, ho da fare...» scoppiano tutti a ridere, comprese le ragazzine alle loro spalle che si gustavano la scena in attesa di potersi divertire. Conto i secondi al suono della campanella.
«Oh, e che dovresti fare, sentiamo? Uscire con te stessa? Fare i compiti? Chiacchierare con lo specchio?» ridacchia ancora lui, facendomi sbuffare sonoramente.
«Cos'è, Mark, non ti è bastata l'ultima volta? Vogliamo vederci di nuovo in cortile a fine giornata?»
«E tu cos’è, vuoi finalmente essere sospesa? O peggio, espulsa?»
Sogghigno, finalmente si spaventa «pensi che mio padre lo permetterebbe?» silenzio.
Siamo tutti figli di ricconi qui, e per quanto mio padre non mi difenderebbe mai... loro non lo sanno. O meglio, lo sanno, ma pensano che sia troppo orgoglioso per lasciar girare voce che sua figlia è stata espulsa. Suona la campanella e tutti si allontanano, qualcuno urtando il mio banco di proposito e fa cadere quaderno e astuccio sul pavimento.
Odio questa scuola.

La verità è che odio solo le persone che popolano questa scuola, studiare mi piace, imparare roba nuova, capire ciò che prima non comprendevo... adoro la matematica, la geometria e la storia più di ogni altra cosa, sarebbe bello se potessi studiarmele da sola dal libro e non dovessi ascoltare questi vecchi che parlano a vanvera per ore in mezzo a un branco di ragazzini che si credono migliori degli altri solo perché sono pieni di soldi. Ma purtroppo la scelta non è mia, e mi tocca sopportarli almeno fino all'agognata campanella del pranzo, la mia liberazione personale.
Mi alzo per prima, metto lo zaino sulla spalla destra e cerco di uscire dalla classe il prima possibile, facendo uno slalom tra i miei compagni e cercando in tutti i modi di non urtare nessuno. In tempo record sono in sala mensa, nel mio tavolino isolato e con un vassoio di... roba? Piselli, purè di patate e carne. Meglio di niente. Mentre inizio a mangiare l'enorme stanza si affolla, i gruppetti si mettono ognuno su un tavolo grande mentre tutti questi piccoli sono occupati da ragazzini e ragazzine come me, con la differenza che almeno loro si parlano, mentre io sembro avere una specie di repellente. Mentre i gruppi corposi ridono se mi passano vicino, quelli piccoli e silenziosi distolgono lo sguardo, si zittiscono, alzano il passo... è sempre come sei avessi qualcosa che non va, qualcosa di sbagliato, qualcosa che continua a logorarmi e che peggiora ogni giorno che qualcuno preferisce cambiare strada piuttosto che rivolgermi la parola. Butto nell’immondizia ciò che rimane nel mio piatto, circa metà pranzo, e me ne vado in giardino in attesa della prossima campanella.

Il pomeriggio passa lento almeno quanto la mattina, è tutto così noioso che inizio a colorare i quadretti che ho sul diario tra un’ora di lezione e l’altra, faccio una scacchiera, poi la allargo con qualcosa di più astratto ai bordi, e prima che possa finire qualcuno mi toglie il diario da sotto alla matita, lasciando così una lunga linea in diagonale sopra il disegno che stavo facendo.
«Che fai, i disegni? Come i bambini?» ride una delle ragazzine, pare che il professore ci abbia dato qualche minuto di pausa e che il mondo abbia deciso di punirmi per la mia distrazione.
«Abbiamo undici anni... siamo bambini.» controbatto cercando di prendermi il diario allungando un braccio verso di lei, ma lei indietreggia e inizia a sfogliarlo «fermati.» le ordino alzandomi.
«Perché dovrei?» sorride come se sapesse che nascondo qualcosa «non ci scrivi solo i compiti, qui?» lo sfoglia ancora distrattamente facendo cadere qualche foglietto che avevo intrappolato tra le pagine, costringendomi a fare un balzo in avanti e a tirarglielo dalle mani al costo di strappare a metà la pagina che aveva in mano. Ignoro il suo sguardo incuriosito mentre recupero i foglietti e li rimetto al loro posto «una... clessidra?» mi guarda divertita «Era il disegno di una clessidra?»
«Cos'è, ora non riconosci nemmeno le forme? Il tuo cervello è davvero regredito allo stato "infante"?» mi guarda con stizza, ma continua a sorridere divertita.
«Non l'hai ancora fatto, vero?» Le strappo il foglietto di mano senza risponderle «non sei ancora riuscita a fare il tuo primo viaggio nel tempo, vero?» ha alzato la voce ed ha iniziato a ridere, seguita da altri che hanno sentito, essendo lì vicino.
«Ti sbagli.»
«Ah sì? E dove sei stata? Nell’isola che non c’è?» ridacchia ancora, ignorandomi e tornandosene al suo posto nel momento esatto in cui il professore rientra in classe, mentre io controllo che nel mio povero diario maltrattato ci sia ancora tutto e decido di metterlo sotto il banco per evitare ulteriori danni... finché non noto qualcosa di strano. Sotto il banco trovo un foglietto che fino a ieri non c'era, è una carta strana, sembra elegante, è ruvida e giallina come quella degli inviti, e qualcuno ci ha scritto sopra a mano, in corsivo "solito posto, questa sera? Laghetto senza papere e Betelgeuse".
Resto immobile a fissare quella scritta... non c'è possibilità che qualcuno oltre me sappia di quel posto, è un luogo nascosto nel parco in centro città. Si dice che un tempo fosse più visibile, ma oramai l'alta vegetazione l'ha reso difficilmente raggiungibile.
E ci sono due particolarità per questo pezzo di parco, la prima è che ha un laghetto dentro cui un tempo c'erano delle papere ora misteriosamente scomparse, la seconda è che è uno dei pochi punti in città con così poco inquinamento luminoso da rendere visibile la stella Betelgeuse.
E io amo le stelle.
Metto il foglietto in tasca guardandomi intorno, pare che nessuno mi stia prestando attenzione. Per un attimo penso a uno scherzo di pessimo gusto, ma riflettendoci capisco che non può essere. Nessuno sa di quel posto, e anche se qualcuno mi avesse seguita nessuno sa della mia passione per le stelle. Tutto ciò non ha senso, ma una cosa è certa... non mi perderò l'appuntamento.

A lezioni finite corro via, schivo i bulli, e mi reco al parco. Attraverso un punto dove le sterpaglie sono meno fitte, uscendo all'improvviso sulla riva del laghetto. E, sorpresa delle sorprese, non c'è nessuno. Diciamo che c’è un problema di fondo… il biglietto non ha orario. Potrebbe essere a qualunque ora della sera, per cui non mi resta che aspettare.
Attendo, mi metto a giocare con dei legnetti, poi con delle pietroline, infine inizio a lanciare qualche sasso nel laghetto osservando l'acqua che forma delle piccole onde circolari.
 

Sono stata di nuovo fregata.
Non so come o da chi... ma mi hanno fregata di nuovo.
Passata la mezzanotte capisco di essere in grossi guai. Mio padre mi ammazzerà.
Non so perché ma speravo che questa potesse essere una via di fuga, qualcosa che mi avrebbe risolto tanti problemi, che mi avrebbe aiutata in qualche modo, anche solo trovare un amico mi avrebbe aiutata. E invece sono in una situazione ancora peggiore.
Penso velocemente a una soluzione per non finire nei guai. Potrei viaggiare… se solo sapessi farlo. Il problema di viaggiare nel tempo è che non è facile da prevedere, si va a braccio ma se si vuole precisione vanno fatti tantissimi calcoli che dipendono anche dalla composizione corporea di chi viaggia, dalla stanchezza, influisce di poco anche cosa si è mangiato. Noi viaggiatori possiamo persino far viaggiare altri viaggiatori se facciamo bene i calcoli, ma vanno fatti sempre in base a chi si sta mandando in giro nel tempo. Per cui mi fermo lì, unisco tutte le mie conoscenze matematiche, penso allo spazio tempo, alla geometria, alla scienza, e mi sento un’idiota perché niente di tutto questo sembra funzionare. Non ho mai viaggiato nemmeno involontariamente, figurati con dei calcoli.
Stringo i pugni, mentre sento le lacrime riscaldarmi le guance, non so se sono più delusa o arrabbiata, so solo che chiudo gli occhi pensando a una soluzione e mi viene un gran mal di testa. A un certo punto sento un freddo glaciale entrarmi nelle ossa all'improvviso. Non ho il tempo di far nulla che una forza sconosciuta mi spinge indietro e un lampo mi accieca per qualche secondo. Mi rialzo in piedi di scatto appena riesco di nuovo a muovermi e mi guardo intorno: è giorno, le stelle sono sparite per lasciare spazio a un sole coperto da nuvoloni grigi, le sterpaglie sono ancora alte e il parco è estremamente popolato.
«Era ora!» una voce alle mie spalle mi fa sobbalzare, mi volto e un uomo dai capelli brizzolati e gli occhi color verde acqua siede con la schiena poggiata ad un albero, come se avesse atteso lì che io arrivassi. «Piacere di conoscerti, Amy. Io sono Dan.»


NOTE
Ero indecisa se mettere questo capitolo come secondo, o continuare un po' con il presente per non destabilizzare tutto... alla fine ho provato il tutto per tutto.

Grazie per essere arrivati fin qui, ditemi pure cosa ne pensate, o leggete soltanto, apprezzo anche solo questo!

  
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