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Autore: CarmenRAndrei    08/05/2025    0 recensioni
Dalla Romania all'Italia, tra ricordi, assenze, dimenticanze e il peso della doppia identità.
La storia di una bambina che ha trovato naturale gettarsi, inesperta, nel senso di sacrificio adulto. Senza comprenderlo mai fino in fondo, ma facendolo comunque suo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sono nata in una mattina buia di primavera. Il cielo era basso, l'ospedale spoglio, le pareti grigie, il silenzio più vicino a quello della morte che della vita. In quella città triste e povera, che il tempo sembrava aver saltato a piè pari, nacquero solo bambine. L'unico maschio morì prima di venire al mondo. Sua madre era giovane e bella, zingara, con capelli neri e occhi profondi. Non aveva nessuno, abbandonata dal padre del bambino e dalla famiglia, arrivò in ospedale in autobus, reggendosi il pancione con le braccia. Nessun denaro per farsi notare dalle ostetriche. Mia madre lo racconta senza emozioni, ma ogni volta che nomina quella ragazza, la voce le si piega appena e lo sguardo diventa evitante, come se non potesse evitare di toccarla con un po' di pena. Di solito ne parla mentre fumiamo insieme, spingendo via il fumo e il ricordo con una mano. Forse pensa che, senza le disgustose bustarelle di mia nonna alle ostetriche, io avrei fatto la stessa fine.  Io fui un parto facile. Non provocai dolori, quasi non volevo uscire, dopo nove mesi difficili. Vomito, paura dell'acqua, nausea per l'odore degli uomini, quell'odore che ho imparato a riconoscere solo anni dopo, quando sono diventata simile a lei negli anni in cui restò incinta. Venni al mondo rachitica, pelosa, silenziosa. Mia madre, lo ha sempre detto, non volle vedermi. Mio nonno tentò di incoraggiarla, ma sotto sotto provava lo stesso ribrezzo. Non mi ha mai guardata davvero, se non come una decorazione insignificante o un'arma da usare contro mia madre.
 
Mio padre era già altrove. Assente, traditore. Mia mamma, schiacciata tra il desiderio di divorzio e i turni di fabbrica, e io, in balia di crisi ipocalcemiche che il latte in polvere non riusciva a placare. Mi affidò a mia nonna. Lì iniziò un altro tipo di sopravvivenza, in una città più piccola che con il tempo sarebbe diventata triste come la prima.
 
Mia nonna mi ridiede la vita come si riaccende una brace quasi spenta. Mi portava dalle nutrici, oppure mi dava latte fresco mescolato a tè alla camomilla. Le crisi si fecero più rade, poi sparirono. Andavo all'asilo se decidevo di volerci andare. Il parco spoglio e freddo che attraversavamo è ancora protagonista dei miei sogni. Gli alberi sembravano ossa nude, e i corvi, grossi come galline, rompevano i rami dove si posavano.
 
Da sua sorella, mia prozia, nel piccolo monolocale che la proteggeva dal mondo, c'era una bambola grande, bionda, occhietti azzurri e vestita di un abito rosso dagli orli in pizzo. Alla fine me la diede, dopo timide insistenze e allusioni. Lei aveva lasciato subito un uomo peggiore di mio nonno. Mia nonna, invece, nonostante fosse la sorella maggiore e punto di riferimento per la più piccola, aveva impiegato molto più tempo a imparare la stessa lezione.
 
Quando mia madre veniva a trovarmi la scambiavo per mia sorella. Era giovane, sembrava una cantante: capelli biondi a spazzola, ombretto celeste, t-shirt sportive, jeans a vita bassa, fiera di sé stessa come io non sarei mai riuscita a essere. Solo le mani, già da allora rovinate dal lavoro, rompevano l'illusione. Una delle notti in cui dormì acconto a me fu l'ultima per quasi un anno. Il giorno dopo partì per l'Italia, dai miei zii. Due persone che non mi hanno mai accolta a braccia aperte. Anzi, si sono sempre lamentati della mia freddezza, anche se, per anni, ho creduto di non averli mai conosciuti prima. Poi, per caso, trovai delle vecchie foto che smentivano quel vuoto. Nonostante la loro presenza fosse stata incisa nel tempo, concretamente non è mai esistita.
 
Piansi l'anima per la partenza di mia madre. Non tanto per lei, quanto per l'idea dell'Italia. Tutti scappavano lì, in quel mondo bellissimo dove non si poteva essere tristi. Io restavo, sola con i miei nonni. Quel giorno soffrii fino a consumare ogni lacrima. Poi, niente. Il dolore si fece piccolo, si rinchiuse in un angolo del mio troppo giovane cuore e smise di gridare.
 
Mio padre non partì con lei. Fu ingannato. Mia madre gli fece credere di amarlo ancora, lo convinse che il divorzio sarebbe stato il meglio per entrambi. La custodia sarebbe andata a mia nonna, e quando lei si fosse sistemata in Italia, lo avrebbe chiamato, ma quel piano non fu mai mantenuto. 
 
Dopo la partenza di mia madre veniva a trovarmi, non so dire con quanta frequenza. Mi portava delle caramelle o mi portava al parco. Una volta mi regalò dei pattini e mi insegnò a usarli. Pensava che coltivare un minimo di rapporto con me gli sarebbe servito. Quando scoprì l'inganno, sparì per dieci anni.
 
Ho ricordi vivi di quel posto, ma non di quando ero bambina. Tornarono più tardi, all'alba dell'adolescenza. Il parco era diverso allora. Malinconico, trascurato. La fontana blu, un tempo piena d'acqua cristallina e di grasse tartarughe, era vuota e grigia. I viali, un tempo animati dalle gabbie colorate dei pappagalli, erano silenziosi. L'erba, un tempo verde, era diventata giallastra. Le persone serie, che nascondevano la stanchezza sotto una patina di tranquillità, leggendo libri invecchiati e grondanti di significato sulle panchine, erano sparite.
 
Tutto mi sembrò più piccolo, rattrappito. Anche i ricordi felici di quel luogo, i giochi, la spensieratezza, sembrarono essersi scoloriti, inghiottiti dalla stessa patina grigia che aveva coperto il resto della mia infanzia.
 
Mia nonna proteggeva i soldi che mia madre mandava. Li nascondeva da mio nonno, dalla sua ludopatia, ma non sempre ci riusciva. Io capivo, senza capire davvero. Non proteggeva solo il denaro: proteggeva anche me, dalla violenza, dall'alcolismo logorante e dall'arroganza di quell'uomo. Era un professore del liceo prima di andare in pensione, tutta la sua conoscenza l'ha insegnata ai bicchieri di whisky in cui si specchiava la mattina.
 
Adoravo sorridere. Non perché fossi felice, ma perché sorridere mi faceva stare bene. Avevo notato che gli adulti rispondevano volentieri al sorriso di una bambina, soprattutto se piccola e magra, con il viso tondo, gli occhi un po' asiatici e i capelli a caschetto con la frangia corta. Eppure, c'erano pomeriggi in cui far sorridere mia nonna diventava difficile, quasi frustrante. Così, quando accadeva, le sollevavo gli angoli della bocca con le mani e le ricordavo che nella vita bisognava sorridere, che faceva bene alla salute. Lei oggi racconta quei momenti con lacrime agli occhi. Gioia e pentimento. Per non essere stata lei a insegnarmi a sorridere. Ancora oggi ho l'istinto di sorridere ricambiando lo sguardo delle persone per cui provo sincero affetto, come per fare loro del bene.
 
Fu in quel periodo che imparai a non dar voce ai miei desideri. Mi sforzavo di non guardare i giochi, di non chiedere nulla. A volte, però, prima di addormentarmi, stesa affianco a mia nonna con un biberon di camomilla, mi sfuggiva un pensiero infantile: quanto mi sarebbe piaciuto mangiare un panino morbido col salame il giorno dopo. Non era una richiesta vera e propria, più una chiacchiera da bambina, che al posto di fantasticare sulle principesse, pensava agli affettati. Eppure mia nonna si faceva in quattro per procurarmelo.
 
Avevo ridimensionato tutto. I miei desideri erano diventati semplici, quasi innocui. Chiedevo solo di poter giocare con la sabbia o andavo a caccia di lumache, che ormai spuntavano ovunque in casa. Riempivo il tempo in silenzio. 
 
C'è un'immagine che mia prozia ricorda meglio di me. Un supermercato. Io che fissavo delle spugne a forma di dinosauro. Mi mordicchiavo il labbro, gli occhi lucidi, e passavo davanti a quel cesto con finta noncuranza, più e più volte, senza mai toccarle. Non chiesi nulla. Ma lei mi osservò e decise di regalamele. Le portai io stessa alla cassa e le tenni strette fino a casa. Nonostante il ricordo sia confuso, mi appartiene.
 
Il mio capriccio più grande fu per un trenino con una Barbie, visto in un piccolo chiosco di latta. Mia nonna conosceva la proprietaria, ma il prezzo era troppo alto. Non potevamo permettercelo. In quel rifiuto sentii tutto il peso di ciò che facevo ogni giorno in silenzio. Mi sembrò che tutti i miei sacrifici a nulla fossero serviti. Tornammo a casa. Mi diede due schiaffi e mi mise a letto, sperando che il sonno cancellasse tutto. Non accadde. Il giorno dopo ero ancora ferita e mia nonna, impotente di fronte alla mia ostinazione, fu costretta a chiedere un prestito per comprarmelo. 
 
Prima di andare in pensione, ai tempi del regime, mia nonna lavorava nella fabbrica del pane, nel reparto dove si preparavano le miscele per l'impasto. Con suo marito, e grazie alla sua capacità affaristica e al sangue freddo, avrebbero potuto costruirsi una piccola fortuna. Insieme a una collega, contrabbandò farina per molto tempo, fino a quando vennero scoperte. Mia nonna riuscì a fuggire, ma i soldi non cambiarono la sua vita. Tutto finiva in cameriere formose, alcol e gioco d'azzardo. A lei restavano solo botte e insulti.
 
Mia madre e io ci siamo sempre chieste dove saremmo finite se suo padre fosse stato un uomo diverso. Forse, molto semplicemente, io non sarei mai nata.
 
Di mio nonno ho un paio di ricordi in cui è parte dello sfondo passivo di ciò che stava accadendo nel mio piccolo, solitario mondo. Il primo riguarda il pomeriggio delle elezioni presidenziali del 2004. Lo vedo seduto in mutande sulla poltrona, a fumare e fissare la televisione. Io ero accanto, disegnavo, distratta, e osservavo i volti dei candidati. Uno mi sembrava simpatico. Era tutto lì. 
 
Il secondo è ambientato la vigilia di Natale. Quella volta eravamo entrambi sul divano. Io giocavo sul bracciolo con l'albero di Natale, spoglio e dimesso, e con una pianola per bambini che emetteva suoni strani. Non c'erano regali sotto l'albero, così fingevo. Buttavo la pianola sotto, scendevo dal divano, la raccoglievo facendo finta di essere sorpresa ringraziando babbo natale. Lo ripetei più e più volte, senza che nessuno mi dicesse nulla. Sotto quelle risate c'era un senso di abbandono che non osavo confessare nemmeno a me stessa.
 
Non immaginavo che pochi giorni dopo una macchina bianca e allungata si sarebbe parcheggiata di fronte al palazzo tetro e fatiscente in cui abitavo, piena di ogni tipo di giocattoli, vestiario e dolciumi. Arrivarono mia madre e il suo compagno, un uomo di un decennio più grande, più basso e quasi calvo, anche se cercava di nasconderlo tenendo i capelli corti. Il piccolo salotto del bilocale dei miei nonni si trasformò in una fabbrica di giocattoli: c'era tanto da montare, bambole, e un orso bruno di peluche più grande di me. Fu un momento di pura gioia. L'emozione mi riempì il cuore, scacciando solitudine, paura e malinconia. 
 
Quell'orso occupa ancora un posto speciale in me, un luogo fatto d'amore. Tanto che, ancora oggi, ho chiesto al mio compagno di regalarmene uno. Ha scelto un orso bianco, dal muso morbido e dallo sguardo dolce. Diverso da quello della mia infanzia, scuro e neutro, figlio di un affetto intriso di sacrifici e distanze. Il nuovo, invece, racconta altro: un amore fatto di presenze quotidiane, sostegno reciproco.
 
Eppure, in modi diversi, entrambi sigillano emozioni che profondamente hanno le stesse radici.
 
Mia madre, sempre bellissima, con i capelli lunghi e neri, era però stanca. Lo sguardo allungato dalla malinconia, reduce da mesi passati a raccogliere uva in piedi per ore con la bacinella appesa al collo, e due giorni di macchina alle spalle. Mi guardava commossa, con una sfumatura di colpa negli occhi.
 
Soffriva la nostra distanza. Le nostre solitudini erano simili.
Lei guadagnava bene, aveva trovato un gruppo di persone nella sua stessa situazione, comprava vestiti di marca, ogni sera beveva e mangiava a festa. Ma a letto piangeva, pensando a tutto quello che io non potevo avere e aspettando il giorno in cui avrebbe potuto portarmi con sé. Io, intanto, immaginando il mondo bellissimo in cui viveva la guardavo con invidia. Mi chiedevo perché fosse negato a me. Con la differenza che io quel dolore non lo potevo esprimere. Dovevo rispettare il sacrificio che le leggevo chiaro in viso.
 
Rimasero pochi giorni, poi se ne andarono. In quelle ore, feci amicizia con l'uomo nuovo nella vita di mia madre. Sembrava amichevole e felice di prendersi carico di una bambina, spinto dall'infatuazione che provava. Mi disse che aveva un figlio, più grande di me, che avrei conosciuto presto. La mia idea di presto, però, era molto diversa dalla sua.
 
Non ne feci un dramma. Li salutai e tornai a galleggiare inerme nella vita con i miei nonni.
 
Avevo delle amiche o meglio, altre bambine, che abitavano nel palazzo. Tutte più grandi di me.
Una viveva al primo piano: dolce, ma un po' distante, con tratti quasi indiani.
L'altra era la nipote della signora sotto di noi, che aveva avuto due gemelle. Una era stata amica di mia zia, ma non ho mai capito bene di chi fosse figlia la nipote. Lei aveva altre amiche. Di fronte al palazzo c'era un prato con un'altalena che faceva da epicentro tra i brutalisti edifici residenziali. Passavamo lì i pomeriggi, o sedute sui gradini, mentre io ascoltavo discorsi che facevano l'occhiolino all'adolescenza e masticavamo fiori d'acacia.
 
A volte, io e i miei nonni prendevamo l'autobus e andavamo in campagna, dai miei bisnonni.
Lei, una donna magra, tirchia e dal fazzoletto sempre in testa, aveva lo sguardo cattivo. Nessuno in famiglia ha mai raccontato un momento dolce con lei, e io stessa non ne ho mai avuti. Il bisnonno, al contrario, sembrava più pacato, forse addolcito dal Parkinson. Non ho mai sentito storie su di lui. Era stato un uomo silenzioso, dedito al lavoro, che ascoltava in silenzio la moglie. Insieme, da giovani, erano fuggiti, avevano comprato delle terre e costruito una casa che ancora oggi esiste.
 
La via era piena di bambini. Giocavamo fino al tramonto, senza scarpe, rovinando con la polvere pelle e vestiti. Ho continuato a incontrarli ogni volta che tornavo in Romania, fino alla tarda adolescenza. Poi i rapporti si sono spenti. Alcuni sono rimasti, altri sono andati via, costruendo vite altrove.
 
Andare da mia bisnonna significava tornare con carne, uova e altro cibo, la tavola sarebbe stata piena e accogliente per una settimana. In particolare però fremevo per una perversione che ancora non mi spiego: assistere all'uccisione della gallina.
La guardavo sanguinare e dimenarsi in silenzio, provavo una sensazione inspiegabile. Non era tristezza. Non era pianto.
 
Mia madre tornò con un altro uomo. Era anziano, curato, pacato, calcolato, estremamente educato e devoto alle buone maniere. Mia madre, che gestiva la casa sua e della moglie, visse con loro per un periodo, prima di trasferirsi dal nuovo compagno. Vennero per sistemare alcune carte che mi riguardavano. La mia partenza si faceva sempre più vicina. Non me lo dissero apertamente, ma lo sentii dentro di me e, stranamente, mi tranquillizzai. Nessuno notò il mio cambio d'umore. All'esterno, se non ero allegra, ero neutra. Non volevo aggiungere tristezza al peso degli adulti.
 
Imparai a volere bene a quell'uomo come si vuole bene a un nonno autoritario, che però ha sempre un occhio di riguardo per te. Alla mia laurea gli regalai una copia della tesi. Pianse. Le lacrime scesero sul suo viso vecchio ma ben tenuto. Mi ha sempre considerata una nipote, anche se mai pubblicamente. Eppure è stato l'unico uomo nella vita di mia madre che non mi ha mai usata per farle del male.
 
Il primo giro in macchina che ricordo fu proprio nella sua. Andammo nella mia città natale, dal notaio e in altri edifici pubblici. Non abituata alla macchina, fui colta da una nausea devastante. Cercai di non mostrarlo. Non volevo rallentare il processo che mi avrebbe portata in Italia. Soprattutto, temevo che manifestare debolezza potesse far cambiare idea a mia madre. Così finì per vomitare all'improvviso tremante dallo sforzo che avevo fatto fino a quel momento. Fui sgridata perché non comunicai il mio disagio e io non riuscì a spiegare le mie ragioni.
 
Durante il loro soggiorno ci fu un terremoto terribile.
Mia nonna rimase calma. Mi sorvegliò mentre dormivo e tranquillizzò mia madre. Non era il primo, non sarebbe successo niente. E così fu.
 
Il signore alloggiava in uno degli hotel più lussuosi della cittadina, frequentato, coincidenza,  anche da prostitute. Ricorda ancora con ilarità quella notte. Disse che le vide tutte precipitarsi nude e impaurite fuori dall'hotel e che tra il terremoto e quella visione improvvisa, avrebbe potuto morire di cuore.
 
Neanche il tempo di smaltire la mancanza di mia madre, che tornò. Da sola, con una borsa sulle spalle. Non ricordo valigie. La vidi arrivare mentre ero sui gradini all'ingresso del palazzo, con le altre bambine. La salutai, ma non la seguii subito in casa: i discorsi delle altre erano molto più interessanti. Quando arrivò, mia nonna si accorse che non ero con lei, si affacciò al balcone e mi urlò di salire immediatamente. Non me lo feci ripetere, salutai e salii. Sorridendo, stanca per tre giorni di autobus, le fermate rendevano i duemila chilometri ancora più lenti, mia madre mi disse che sarei partita con lei.
 
Mi sentii male, fisicamente. Era come se troppe emozioni mi fossero scoppiate dentro e il mio corpo magro e fragile non riuscisse a contenerle.
Per liberarmene, mi affacciai dallo stesso balcone e urlai alle bambine:
"Vado in Italia!", più e più volte, finché non mi mancò il fiato. Solo allora divenne reale.
 
Saremmo partite a breve. Non dormii.
 
Viaggiammo con Atlassib, una compagnia molto famosa all'epoca, nota per i rapporti con i doganieri e per dividersi le bustarelle in caso di documenti poco regolari, come i miei. Purtroppo non andò come previsto. Mia madre fu costretta a dare tutti i soldi che le restavano ai doganieri, oltre a quelli già passati agli autisti, pur di farmi passare.
Furono i tre giorni più veloci della mia vita.
Non volevo mai scendere dall'autobus, e quando lo facevo era per forza maggiore. Non lasciavo nemmeno il tempo a mia madre di fumarsi una sigaretta. Avevo una paura constante che ci avrebbero potute lasciare lì, chissà dove nel mondo, a dieci passi dalla meta. Non provai nausea.
 
L'unica fermata nel Centro Italia all'epoca era Roma.
Appena misi piede a terra pensai a mia nonna e non mi sentii in colpa per averla lasciata lì.
Sapevo che, anche se le sarei mancata tantissimo, era felice per me.
E che avrebbe dormito più tranquilla, sapendomi con mia madre, in Italia.
   
 
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