Atto Secondo.
L'oro nero
dei riflettori, colando attacca
alla pelle.
_ * _
Forse abbiamo acceso i riflettori,
dato spettacolo
in qualche modo.
È la
Cosa Di Cui Non Parlano.
Se ne
sta lì, annidata nella sfuggenza di Sirius, nel suo voltare il capo più bruscamente di quanto avesse bisogno di fare prima. Nell’asprezza della notte,
ammantata fra tende ruvide che non vengono aperte ad
orari improbabili da mani frementi – non più, da troppi mesi, e Remus è stanco di persuadersi a tollerarlo.
Riesce
persino a farlo sentire in colpa, questo tipo d’egoismo. Sebbene, potesse
mettere da parte lo smodato bisogno di contatto per più di qualche secondo,
vedrebbe quanto giusta sia in realtà la nostalgia
della pelle, e quanto bene abbia il potere di fare per entrambi.
È
l’ennesima violenza ripetersi che non è
questo il punto, che hanno altro cui pensare – altro da recuperare, per
amor del cielo, dacché stanno spaccandosi più in fretta che mai.
Il
dialogo resosi tanto necessario non giunge sotto la forma sperata, ma è forse
maggiormente efficace. Certo lascia senza ricordi di guerra, e salvaguarda Remus dal timore costante d’incorrere nelle ire di Padfoot.
“Hai
mai provato a parlarne con Sirius?”
“Mh?”
La voce
di James si frammenta in singoli tasselli di ovvietà annoiata, recriminazione sardonica.
“Forse
ti è sfuggito, ma questa estate è scappato di casa.
Non una di quelle cose da ragazzini: scappato davvero. Tanto che i miei lo
hanno preso in custodia, e indovina? Quel che è peggio, suo padre non ha
neanche tentato di portarlo indietro.”
Remus leva lo sguardo
dal saggio di Pozioni con cui aveva stabilito di
fingersi terribilmente occupato.
“Potrei
sbagliarmi, ma credo gli farebbe bene parlarne
con te, invece di spendere ogni momento cercando di evitare la questione.”
“Noi
non evitiamo la questione, Prongs. Solo… lui non la
solleva, e io detesto fargli domande cui non vorrebbe rispondere comunque.”
James sbuffa,
scettico.
“Almeno
gli avrai chiesto delle lettere. Non puoi non aver notato tutti quei gufi.”
E Remus
li ha, di fatto, notati. Ma ha ancora una volta scelto
di aspettare che fosse Sirius ad aprirsi, dando a
intendere di essere completamente all’oscuro di tutto, nel frattempo.
Non sarà
stata la tattica più brillante del repertorio, però – l’impeto dell’orgoglio lo
smuove – è troppo
facile per James parlare.
Non è
lui a dividere una zona d’anima con Sirius. Non è lui
a rischiare il riflesso delle sue ferite, da quando
colpire uno significa abbattere entrambi.
“Credevo
fossero di sua madre.”
Tenta, pacato.
“Chi,
Walburga Black?! Sai bene quanto me che non è capace di ricordare dove si trovi suo figlio abbastanza a
lungo da pensare di scrivergli. Non lo ha fatto una volta in sei anni.”
“E allora chi?”
Ancora
uno sbuffo.
“Non è
a me che dovresti chiederlo, ma visto che vorrei
risolvere questa storia prima di diventare un vecchio pazzoide con la pancia
piena di sorbetti al limone – è Regulus che gli
scrive. Pare abbia preso molto male la rottura di suo
fratello, ed è così insistente perché Sirius rifiuta
di rispondergli.”
L’ultima
occasione per aggrapparsi alla convinzione che tutto qesto
sia triviale, e il rimbrotto di Prongs senza
fondamento.
“Pads adora suo
fratello.”
“Lo so.
Per questo penso che lo abbia allontanato con l’intenzione di proteggerlo. Non
vuole che finisca nei guai con suo padre per essere rimasto in contatto col
traditore, ma non capisce che se Regulus continua a
non ricevere risposta seguiterà a scrivere finché verrà
scoperto, e allora sì che sarà un vero schifo!”
C’è
silenzio, che Remus usa per maledirsi in ogni idioma
telepatico noto all’uomo.
Poi:
“Moony. Fa’ un favore a tutti e parla con Sirius.”
James sparisce oltre
la soglia del bagno con una strizzata d’occhio, buttata lì per addolcire il
commento troppo penetrante.
“Non
costringermi a dubitare del tuo coraggio, Grifondoro!”
Forse abbiamo imparato a scontrarci
come parte
della quotidianità.
“Così…
da quant’è che stai coi Potter, esattamente?”
“Bah.
Un po’.”
Non sa
se dirsi più deluso o sollevato dalla risposta. Adesso, Remus
si dice, avrebbe una buona scusa per battere in ritirata e dimenticare il
fastidioso pungolo del dovere. Una scusa per non rovinare
quel prezioso, raro momento d’intimità senza patemi, con questioni sgradite ad
entrambi.
“Mh. Un po’?!”
“Già.”
“Ti
spiacerebbe essere un po’ più
specifico?!”
Sirius s’irrigidisce
contro il suo petto, in quell’abbraccio precario che
sta per trasfigurare orrendamente in una presa grottesca.
“Non è…
che vuoi? Cos’è tutta questa importanza,
all’improvviso?”
“Scusa
tanto se mi interesso alla tua vita!”
“Oh. Ma
sì, certo.”
È il
sarcasmo che lo smonta.
“Adesso
non fare lo stronzo.”
“E tu non fare la vittima.”
Lo
scatto è inevitabile, ormai. Remus spinge in su l’addome, nello stesso moto d’insofferenza per cui Sirius si tira a sedere, ustionato dal solo pensiero di
prolungare il contatto.
“La…?!”
“La
vittima, sì, Remus, esatto! Non te ne
accorgi?”
“Francamente,
se c’è qualcuno che si vittimizza quello mi sembra che sia tu. Quando non vuoi parlare dei tuoi problemi, abbi il buonsenso
di…”
“Come
no, Remus.”
“… non
farli notare. Altrimenti sembra tu voglia farti compatire.”
“Sembra
che cosa?!
Tu… non hai idea!”
Gli
occhi di Sirius non sono mai
stato più argentei, attoniti e rotti come se ne stanno. Remus
li ricorderà come la prima cosa andata distrutta, quando sarà tutto finito.
“E di
chi è la colpa?!”
Adesso.
“Quale
colpa? Quale colpa?!
Sai che, vaffanculo.”
“Pads – ”
“Fottiti!”
Non gli
resta che annegare fra i cuscini, e guardare Sirius schizzare
via dalla sala comune.
Le
spalle malferme e i capelli così neri portano a galla il ricordo di quel
mattino, in infermeria, tra l’oblio della notte da superare e il peso del
giorno di cui farsi carico. La sensazione, Remus
registra, è la stessa.
Quella di un tradimento consumato già da troppo, ma ancora
lontano nella comprensione.
Forse siamo balzati giù dal muro,
abbiamo
aggiunto al vaso l’ultima goccia.
L’inverno
è trascorso in trincea. Giorno dopo giorno, da postazioni privilegiate, sono
tornati ad osservarsi, attenti a evitare i sacrifici
inutili.
San
Valentino è stato da incubo, Sirius
rammenta. Passeggiare per Hogsmeade senza
dimenticare neanche un attimo la vista di Remus e Mary-Anne Finch da Madame Puddifoot, seduti al tavolo vicino la porta; e, in nottata, rifugiarsi da Darren Walpole di Tassorosso nel misero
tentativo di accelerare la decomposizione dei sentimenti residui, e della pelle
ansiosa d’altri – di Moony, ancora e sempre.
Adesso,
in quest’attimo agognato fatto delle lacrime di Mary-Anne, Sirius stabilisce di
tentare il primo colpo, valicando la coltre del filo spinato.
“Che succede?”
Peter ha indosso
un’espressione di rammarico tanto sincero da sembrare comica, tutto sommato,
giacché Sirius ne ricorda una identica
all’indomani della rottura con Remus in autunno.
“Moony ha piantato Mary-Anne.
Cavolo. Dopo San Valentino, e tutto il resto!”
Black
mantiene un contegno dignitoso, ma i pianeti stanno già allineandosi nel suo
orizzonte di previsione.
“Una
vera disgrazia.”
Il
commento non sfugge ad alcuno. Gli occhi di Remus
bruciano di colpa senza nome mentre premono in quelli
di Sirius, e la scena sembra cambiare intorno a loro.
Non dura
neanche un’ora. Le orecchie diventano sorde ai piagnistei
femminili, le dita s’intrecciano sotto la tavola. La sedia scotta, il
pavimento – la tovaglia traccia linee d’intollerabile tempo bianco, mentre
febbre cresce sullo sfondo, muta e sudata. Tutto passa come soffiato via
dall’ingiustizia stessa del rivivere sopra macerie.
La
ritirata in dormitorio non è mai stata più urgente.
È di
braccia, e labbra e lingue, e corpi e un letto soltanto, che la prima brezza
dell’era a venire si compone. Annodati sotto il piumone, dentro l’uno all’altro
per equa alternanza, sgusciano via dalla pelle avvizzita e affrontano la muta
con un sesso nuovo.
E ancora labbra, e lingua, e Remus
su di lui, e tutt’intorno, e –
“Rem…”
“Non
smettere. Sirius, ti
prego.”
Gli stringe un fianco, geme spezzato.
“Andiamo
a stare insieme. Tu ed io. Dopo scuola.”
Butta
fuori a scatti, nelle pause di fiato tra le spinte
rotte del bacino.
Remus miagola,
striscia labbra verso l’arco del collo, e Sirius ne avverte i baci flebili fin nell’arteria.
“Dopo… Hogwarts?”
Un’inversione
d’angolo e sono perduti. L’intrico di gambe si rovescia; i guanciali accolgono
una chioma più chiara, ambra mossa in onde lievissime.
“Per
favore.”
Sirius prega con tutti i mezzi, si tende dentro il compagno. Remus è impossibilmente aperto e
caldo, vicino, bello come nei ricordi più santi.
“Sì.”
Qualcuno
alla porta, il cui arrivo rammenta a Sirius la sua imprudenza; ma non può pentirsene – troppa
premura per silenziare il letto.
Non è
sfiorato dall’idea di fermarsi. Non prima di ciò che
desidera, e non dopo l’assenso tremulo di Moony.
Prongs e Wormtail capiranno – Remus
direbbe che è proprio questo il problema, quindi è una fortuna che sia ridotto al silenzio.
Spinge
per liberarsi, e l’alcova dolcissima che l’ospita accoglie fino al piacere
finale.
I suoni
dall’esterno sono attutiti dall’ebbrezza del dopo, coperti dal gemito più acuto
con cui Remus completa la loro muta. Unghie affondate
nella pelle si ritraggono, docili, lasciando il posto ad un languore pesante.
Sirius non può
credere di aver vissuto per tutti quei mesi senza un solo assaggio di simile
torpore.
“Hey, Moony.”
“Nnh.
Sirius, sono a pezzi.”
“Lo
credo! Non eri più abituato a, eh, me.”
“Fuori dal mio letto in questo istante, razza di cagnaccio
ingrato!”
“Potrei,
in effetti. Credi che Petey arriverebbe
effettivamente a svenire se mi vedesse uscire da qui senza che mi sia ripulito?
In tutta la mia gloriosa nudità appiccicaticcia.”
“Ugh. Sei ripugnante. Evanesco!”
“Mooooooney! Moony,
Moony-Moons?”
“Sto
per dormire. Sei avvisat – ”
“La tua
risposta? Era… davvero?”
“…”
“…”
“Davvero.
Sì, ti prego.”
Forse ci siamo sforzati troppo,
per paura di
fallire.
La
stanza è romboidale, vista con code d’occhi lucidi.
Remus sente le membra
irrigidirsi, scosse dall’afflusso del sangue che sale rapido al cervello. Ruota su se stesso, infastidito dalla lana pungente del piumone
contro la nuca. Di traverso, il naso sepolto in uno dei cuscini, trae un
respiro incerto e beve l’odore di lui.
Un po’ di sesso e di fumo, la traccia di Sirius
in camera.
Può
ancora sentire il clangore del chiavistello e il tonfo della porta – divenuto
secco e plateale da quando il coinquilino ha smesso di usar prudenza per non
disturbarlo. È un effetto d’intossicante ridondanza.
Si
flette lievemente, sfregando l’addome nudo contro la stoffa ispida.
L’amore
in quel letto è un sapere elitario e sfuggente, come l’alcool in coppe di vino.
Del resto vivere insieme ha il gusto dell’eufemismo, ora che Sirius non c’è mai per davvero.
Poi,
l’odore. Le lunghe dite di fumo che avvolgono il candore
delle federe, sgualcendole con mani invidiose e gesti semplici – perché è
facile da sempre lasciarsi Remus alle spalle. Bruciarlo e stringerlo fra i denti, senza trattenerlo più a lungo
del dovuto: non un attimo oltre il piacere e la sua frustrazione.
Non lo
disturba, di per sé, che Sirius abbia
preso a fumare. Solo che ogni cosa gli sfiori le labbra di questi tempi pare inconsistente, e la triste parabola di nicotina appesantisce
la nube in cui stagnano di un carico troppo patetico.
I gufi
non infestano più l’abitazione, ed è facile intuire quanto il Black perduto ne avverta la mancanza. Godric,
persino Remus ne accusa
l’assenza, malgrado il disagio dei primi tempi – per non menzionare la sorpresa
nell’apprendere che, sì, Padfoot aveva effettivamente
informato Regulus della sua nuova sistemazione, con
tutta la sequela di spiegazioni supplementari implicate. Adesso la mancanza di
beccate sul vetro della finestra corrisponde allo spettro di
un marchio nero nel cielo terso, ne condivide il significato. E la guerra fuori ha fornito una scusa rapida ad ogni sbalzo
d’umore, ogni fuga, ogni silenzio.
L’udito
da lupo fallisce, prevedibilmente assopito dalla luna calante. Sirius è in camera senza che Remus
possa predirlo, e il suo calore è disteso sul letto l’attimo dopo.
Uno
sbuffo, stanco e indebolito, musica l’intrecciarsi
molle di braccia e gambe sul piumone.
Ed è ancora il
tentativo, irriducibile, di costruire supporti.
“Brutta
giornata?”
Sirius nasconde il
viso nelle strie di pelle del compagno, aspirandone l’essenza a labbra
dischiuse e rilasciandola in un gemito umido e tiepido.
“Lo
sai. Non posso parlarne.”
Silenzio
sia. Remus si lambicca per sfuggire all’apatia,
risolvendo di tenere su di sé il discorso.
“Silente
dice che mi assumerà a scuola come aiuto-bibliotecario, finché Madame Pince non
si ritirerà dalla professione. Intanto farei un po’ d’esperienza, il che mi
tornerebbe utile se decidessi di impegnarmi davvero per diventare professore.”
Dalle
profondità del guanciale di odori la voce di Sirius giunge in un grugnito.
“Grandioso.”
Bugia
che rischierebbe di valergli un diretto in pieno stomaco, fosse
Remus meno preso da buona lena.
“Ti va
una birra? Ai Tre Manici. Potremmo
chiamare Wormtail e Kingsley,
e Longbottom.”
Il fiato
di Sirius si spezza, brusco, prima di riemergere
appesantito.
“Non. Vedrò. Ancora. Gente. Né oggi né in questa vita, se possibile.”
C’è già
più distanza fra le sue labbra e la spalla nuda del licantropo, ma questi tenta
un ultimo recupero. Dopo un frangente di silenzio che ha più
cocci da raccogliere, però.
“Potremmo sempre andare da soli.”
Lo
scatto è subitaneo. Ciocche di nera bellezza graffiano la pelle
nell’allontanarsi a schiocchi di frusta, come fanno.
“Remus. Lascia stare, okay?”
Sirius ruota con
slancio per rimettersi seduto sul bordo, schiena volta al compagno.
L’altro può vedere il su e giù incalzante del costato, intuire la respirazione
affannosa.
Piano, i
gomiti che lo sorreggono cessano di fremere, e la sagoma ritrova un equilibrio
plastico. Remus è rapito dall’arte intonsa di quelle
spalle larghe, modellate, fasciate dal pastrano scuro e orlate dalle ciocche di
notte arricciate in punta. Da troppo ormai non dedica del tempo ad osservare simili
dettagli, preso com’è a leccarsi le ferite. La bellezza di Sirius
è al tatto: mani callose non riescono a trarne il meglio, né meritano di
conoscerlo.
Odierebbe
le sue cicatrici davvero solo se gl’impedissero di
amare Padfoot, o tendere alla sua presenza con ogni
fibra dei loro dolori.
“Hey… ascolta.”
Vorrebbe,
Remus, riconoscere in quel tono apologetico lo stesso
del compagno di dormitorio. Vorrebbe sentirsi in grado d’accettare scuse che
creda sincere, costruttive per il domani di coperte ispide e chiazze di fumo.
Tutto
ciò che sente è la supplica, e non credeva potesse
deluderlo fino a quel punto.
“Io
voglio davvero che questo funzioni. È la cosa che
voglio di più al mondo.”
La torsione del busto segue una spirale
morbida. Sirius lo fissa con l’ansia dei folli negli
occhi.
“Tu mi
credi. Non è vero?”
Rimbomba
e galleggia, sospesa in un vuoto che al tempo non c’era, la lirica tenue cui Remus si lascia cullare nel buio. Abbatte le sue difese e
lo lascia di arido stucco, incattivito dalla meraviglia
soffusa.
Non
pensa di avere una risposta per Padfoot.
Reset.
Tutto ciò che ricordo,
tutto ciò che
mi torna in mente sei tu,
mentre mi
dicevi che c’era stato un incidente.
La notte
in cui Remus Lupin è stato
strappato dal torpore e ha scoperto di amare oltre ogni volontà ha segnato la
fine del tempo.
“Sirius, puoi spiegarmi una buona volta che cosa sta
succedendo?!”
“È già
qui, Moony. Voldemort ci ha
trovati. Devo…”
“Harry. James e Lily, saranno – ”
“Vado
da loro. Tu cerca di metterti in contatto con Silente, e non muoverti di qui
per nessuna ragione al mondo.”
“Non
puoi aspettarti che me ne stia con le mani in mano!
Stiamo parlando dei miei migliori amici.”
“Sono
anche i miei – ma certo, Peter! Oh, diavolo!”
“Che altro c’è?”
“Devo
passare da Wormtail per assicurarmi che stia bene. È
il Custode. Se Voldemort fosse arrivato a lui sarebbe la fine dei giochi.”
“…”
“Moony…”
“Vai.
Penso io al resto dell’Ordine.”
Sirius è andato, e
non è tornato indietro.
Reset. Remus si chiede come abbia potuto sbagliare così
incredibilmente.
Sempre a fingere,
sempre a
credere che l’amore sarebbe bastato.
Nove
code lisce.
Nove.
Per un
totale di… 36 piccole zampette sulle piastrelle in pietra.
Intorno
ai 108 minuscoli artigli. E 54 corte vibrisse.
Quanti
denti in tutto?
Stringe le gambe al petto di scatto, sprofonda il capo nell’incavo tra le ginocchia. Ce n’è un altro i cui
occhietti rossastri brillano nell’angolo opposto della cella.
Dieci code lisce.
40
piccole zampe. 120 unghie appuntite. 60 baffi come stringhe lucenti di –
L’auror di guardia batte sull’uscio col più indegno pugno babbano.
“Facciamola
finita lì dentro, Black!”
Ma forse non dice
nient’affatto. Forse non c’è nessuno a sorvegliarlo, all’infuori di quelle 20
pupille dardeggianti e l’ombra fredda che tocca i muri incassati prima della
violenza terminale.
Sirius non ricorda.
Ha preso
a discorrere tra sé, certamente. Qualche volta ha anche l’impressione che
stralci di conversazioni siano già occorsi in passato,
ma la percezione è pallida e va via in fretta.
Al
calare delle ombre innaturali – il sole non filtra, in Azkaban – gli sembra perfino di risentire una voce
umana, da qualche parte fra i suoi brandi d’anima.
Io ti amo.
Flautata,
glucidica, porta il messaggio di una zona inesplorata di sé che s’immola per
proteggerlo dagli artigli dei mantelli scuri, disgregandosi poco per volta. Si
riduce in scorie invisibili che cadono in pasto ai cani infernali nascosti dai
cappucci.
Quando diventa dura
realmente, Sirius s’industria per ribattere alla
voce. Solo che il dialogo deraglia verso lidi che non è
certo di saper cogliere.
“Io ti amo.”
“Ma non ha importanza! Non ha senso, lo
capisci? Se non vuoi stare con me, allora è
tutto nella tua testa. Nel tuo cuore, se siamo fortunati.
Però non cercare di farmi credere che può bastare, Rem,
perché non è giusto.”
Non
prova più da tempo ad approfondire l’indagine. I ricordi sono fatti di nomi
senza valore impilati secondo le strutture di una disperazione dispotica; Sirius Black, in Azkaban, ha
troppo da fare per mettersi a gustare il dolore.
Le
nocche prominenti sbiancano, arcuate sulle rotule in agetto.
Undici
code lisce.
Undici…
La tua innocenza mi manca
ogni giorno.
Prima
che le ore iniziassero a uccidere, c’erano stati
momenti come quello in cui –
“Moony?”
– aveva
alzato gli occhi dal suo libro (ricorda persino quale, Don Quijote de la Mancha)
per sorridergli in semplicità.
“Sì?”
Sirius può solo
immaginare, adesso, quanto dovessero dolere gli scoppi
di gioia veemente nello stomaco, condizionati dal più misero gesto e portatori
tutti di un unico messaggio, magnifico e tremendo…
… che non ricorda più.
Ma è certo fosse proprio lì, fosse lì tutto il tempo.
“Come puoi avere a che fare con me? Come riesci
a fidarti?”
“Pads, non quella storia di nuovo!”
“Non mi
riferivo a quella… è tutto. Anche se tentare di usarti
per mandare Snivellus a morte è un buon esempio di
ciò che intendo.”
“Varrebbe
a dire?”
“Oh,
andiamo, Rem! Tu mi conosci. Sono una testa calda, un
– un povero idiota che si getta a capofitto in tutto quello che fa, e a volte
non capisco neppure dov’è che sbaglio, quindi non posso pentirmi. E tu sei sempre lì a tollerare e a pazientare, e a
riportarmi sulla via della ragione quando perdo la bussola, e in più mi ami. So
che sei forte, ma quanto devi esserlo per gestire me?”
“… c’è
solo una cosa che non ti perdonerei mai, ed è la
stupidità di discorsi come questo. Cerca di tenere a mente che non ti amo
perché lo meriti.”
Stretti
e caldi, gli occhi di Remus dovevano illuminare la
sala comune deserta; l’oro e rosso degli stendardi tracciare i confini ora
indistinti del suo volto.
“Continuerò
a farlo. Pensi che abbia scelta? Non importa quanto tu possa
sbagliare, vedrò sempre in te le stesse cose.”
Quel
battere di cuori, corrosi e ridipinti. Atleti vecchi e
ansanti, che toccano il traguardo col sangue infetto e tornano a
competere.
“Quand’anche
perdessi la fiducia in te mi resterebbe quella nel mio
amore. Credo basterebbe per una vita intera!”
Aveva
sorriso e proteso una mano – benevolo, altissimo come certi sovrani della
storia babbana, sembrando più regale che mille
incoronati e i loro stuoli di gioielli.
Dopo…
…
È il
ricordo più sano che ha. E Sirius
è sopravvissuto sapendo d’essere riuscito a conservarlo solo perché ammantato
di rancore, menzogna, amarezza. Prezzi esatti dai carcerieri e dal tempo
stesso, in una tassazione fluviale che ha risciacquato via il desiderio della
memoria.
Quel che
adesso gli accade di ricordare è una sventura deforme e inaccettabile; e
neppure è il lato peggiore. L’artificiosità dei pezzi di passato che rievoca
senza volere ammicca ad una prospettiva terrificante, capace di sbaragliare
ogni pilastro del suo esistere qualora provata corretta.
Sirius Black deve
credere sia stata tutta una finzione, una recita assurda sin dall’inizio.
Cosicché i moti a scatti dei Malandrini, in tutto il dolore degli anni
trascorsi, avrebbero più senso e dignità – non più memorie distorte e abbrutite
di un passato perduto nel vuoto del consenso, ma
riflesso fedele di una pantomima disimpegnata dai buoni effetti scenici.
…
Non sa
perché stia valutando tutto questo, ora che risente il vento e il sole sulla
faccia. È bizzarro, sembra la prima volta.
C’è
dunque stato un tempo in cui vivere lo rendesse tanto
felice?
_ * _
Parte
2 di 3. Grazie di cuore a chi ha avuto la pazienza di
attendere questo secondo capitolo, che è stato nell’incubatrice un bel po’
prima di decidersi a spuntar fuori. *w*
Fruscio di Anime
e
Mizar, deliziose creature: dipendo interamente da
voi per il sostentamento della mia latente i-i-ispirazione,
quindi mi prostro ai vostri piedi in caso siate ancora intenzionate a seguire
questo progetto.
Devo
dire che (But)
The Act – il cui titolo
è spiegato particolarmente nell’ultimo paragrafo di questo capitolo, da Sirius – ha preso connotazioni vagamente diverse da quelle
che mi aspettavo, forse più dialogiche del previsto. E
forse anche un po’ disturbate, mh.
Oh,
be’: quel che è fatto è fatto. Vi attendo alla
conclusione. :3
In
più, da brava recidiva, vi annuncio che ho un capitoletto avanzato proprio a
questa storia (già, ho persino degli AVANZI) sul quale intendo lavorare un po’
per mettere su un’altra fic, magari di diversa
prospettiva. Con più Snape e più Regulus.
O forse no.
Suggerimenti
sono più che ben accetti *O*!
Un
bacio dalla sempre vostra e devota,
Autrice.