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Autore: TwinStar    12/06/2005    9 recensioni
Figlio della Luna che ululi rabbioso all’indifferente astro d’argento barricando il tuo cuore dietro un muro di dolore e disprezzo, che vivi nel riflesso del mostro che nascondi, consapevole vittima di te stesso e della solitudine che imprigiona il tuo cuore ferito.
Che ti prende?
Lei è lì, ti osserva: nei suoi capelli il sole al tramonto, sul suo volto un sorriso vezzoso, l'innocenza di una bimba. I suoi occhi da gatta ti accendono in cuore una speranza che temevi fosse andata perduta assieme ai tuoi sogni infantili. Eppure quando ti tende la mano tu la respingi.
Perché?
E' forse il suo cipiglio severo?
Il colore dei suoi lunghi capelli così simile al sangue che ti disgusta?
No. E’ solo che lei è così bella, e tu hai smesso da tempo di credere alle fiabe.

Figlio della luna, sai che ti dico?
Il vero mostro è l'uomo che non ama se stesso.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Remus Lupin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1

 

E’ finita.

Anche per questo mese, è finita.

Mi fermai involontariamente, rabbrividendo, sul tappeto coperto di polvere davanti alla grande finestra del salotto, e accolsi con reverenziale timore il primo pensiero razionale che riusciva a formulare la mia mente, mentre gli ultimi raggi di luna sparivano al di là dell’orizzonte.

Il lupo non sarebbe tornato per un altro mese.

Subito si insinuò prepotente in me quel senso familiare di commozione e tenerezza che annunciava il termine della mia ignobile metamorfosi; quella gioia profonda e totale dell’essere, quell’inebriante delirio dei sensi che mi pervadeva l’anima nel momento in cui quella crudele signora della notte finiva di esercitare il suo malefico dominio su di me.

Ed allora capii che non ero più bestia.

Ancora pochi istanti e sarei tornato umano.

Il cuore cominciò a pulsarmi profondamente nella gola.

Ed infine, puntuale, giunse il dolore; la trasformazione ebbe inizio.

 

Caddi pesantemente sul vecchio parquet polveroso trascinandomi addosso il pesante tendaggio in cui avevo affondato gli artigli in un impeto ferale, e in quel momento una sofferenza indicibile mi attraversò le membra. Tutto il mio corpo vibrava, e io non capivo ancora cosa mi stesse accadendo con la lucidità di un uomo. Potevo solo soffrire di quell’oscena agonia che si era impadronita di me.

Potevo solo sopportare il tormento.

Potevo solo aspettare che il dolore cessasse.

Le zanne tornarono ad essere denti, gli artigli unghie.

Un brivido improvviso sembrò spaccarmi in due lo sterno.

Un’altra fitta. Acuta, dolorosissima. Mi aggrappai con la forza della disperazione al vecchio camino polveroso, tentando di riportare il respiro ad un ritmo regolare, cosa niente affatto facile quando tutto ciò che senti nel petto è un fuoco bruciante e prepotente che ti divora i polmoni.

E, improvvisamente, mi sentii soffocare.

Il lupo non voleva stare chiuso lì dentro, in quella prigione.

Voleva uscire, voleva vedere le stelle, voleva assaporare la libertà.

“Calmati e vattene da qui.” Era una voce sconosciuta, ma sapevo che era la mia.

Si, dovevo andarmene. Anche se ogni movimento mi causava mille spasmi dolorosi, anche se sapevo che sarebbe stata un’idea sciocca dal momento che non ero ancora del tutto tornato uomo e avrei potuto rappresentare ancora un serio pericolo per chiunque avesse avuto la sfortuna di incrociare il mio cammino, anche se la parte razionale del mio cervello continuava a gridare di restare lì, decisi di andare.

Il lupo voleva andare fuori ed io ero troppo debole e spossato per combatterlo.

Sapeva che per uscire avrebbe dovuto sfruttare le mie capacita intellettive.

Mi stava usando per farmi fare ciò che voleva.

Schiavo di quella creatura oscena.

Mi feci schifo.

Chiamai a raccolta i miei sensi smarriti e con uno sforzo sovrumano mi sollevai in piedi, per poi dirigermi a passi incerti verso il passaggio buio che mi avrebbe condotto fuori, tra le radici del Platano Picchiatore. Mentre avanzavo tentoni nell’oscurità, mormorai a me stesso una supplica affrettata, a fior di labbra, come se avessi avuto tante cose da dire e poco tempo per farlo; mi scusavo con me stesso per essermi lasciato dominare dall’istinto.

Ancora pochi passi.

Pochi passi ancora e sarò fuori.

Il passaggio divenne troppo piccolo perché potessi percorrerlo a piedi. Mi misi carponi come l’animale che ero e strisciai nella fanghiglia umida e scivolosa fino a raggiungere l’uscita; premetti un grosso nodo sul tronco di quell’albero infido che era stato posto lì a protezione mia e degli altri studenti della scuola, attesi qualche istante che i suoi rami si acquietassero, e mi liberai.

Continuai ad avanzare senza meta.

Non c’era niente da vedere intorno a me.

Solo buio, silenzio e una distesa di nulla indefinito.

Il mio sguardo supplice si perse nell’immensità della notte.

Sopra di me il cielo impietoso carico di stelle e promesse mi sorrideva beffardo.

E non potetti fare altro che gridare.

Quando le corde vocali cominciarono a tirare e attorcigliarsi per tornare alla loro forma originaria il mio ruggito rabbioso si trasformò in un osceno grido di dolore.

Maledissi la volta celeste che mi sovrastava e gioiva degli atroci tormenti di un’anima abominevole; maledissi la terra, gli alberi, gli uomini e i lupi.

Maledissi quell’orribile luna.

E tornai ad essere uomo.

 

 

Avevo perso conoscenza, ma per quanto tempo?

Impossibile saperlo. Il cielo cominciava a rischiararsi, ma la nebbia densa che aveva coperto la foresta si era trasformata in un lugubre terrore ceruleo mortalmente freddo. Non sapevo dov’ero; quasi certamente nei pressi del Platano Picchiatore, ma dove? Dove Madama Chips non mi avrebbe mai trovato. Mi complimentai con lo stupido che ero per aver assecondato i desideri di quella bestia immonda; bella trovata davvero, mettermi a vagare senza meta durante la trasformazione.

Ma che speravo di ottenere?!

Non lo sapevo.

Giacevo sullo stomaco, la testa vuota.

Stavo morendo.

Lo sentivo, stavo perdendo troppo sangue.

Ma non me ne fregava niente. Volevo soltanto dormire.

Furono i dolori a salvarmi; improvvise fitte acutissime allo stomaco, alle braccia, alle spalle. Sentii una voce gridare, un suono acuto e disumano, ferale, che riecheggiò prepotente in quell’inferno ovattato. Dopo, capii che ero solo e che ero stato io a gridare.

Non devo arrendermi.

Non devo arrendermi, ho sopportato cose peggiori.

Non era vero e lo sapevo. Quel mese era stata dura, terribilmente dura; mi ero lacerato le carni con una rabbia insolita e i crampi che mi tormentavano allo stomaco, sotto le costole e alle articolazioni delle ginocchia e delle spalle erano i più atroci che avessi mai provato. Pensai che mi avrebbero ucciso.

Mi colse un momento di stordimento da cui mi ripresi sputando densi grumi di sangue.

“All’inferno!”, gridai. “Reagisci, maledetto, reagisci! Reagisci, idiota!”

Dolore atroce, occhi brucianti, braccia pesanti come piombo. Perso in quello strano mondo d’incoscienza in cui corpo e spirito sembrano staccarsi, non riuscii a ricordarmi quando avessi cominciato a parlare da solo. Osservavo le mie braccia martoriate e senza tregua costringevo la mia mente a restare desta e vigile, in modo tale da recuperare le forze e tornare da solo al castello.

Potevo fare affidamento solo su me stesso, quella volta.

Le speranze di cavarmela erano ridotte al minimo.

 

Poi vidi l’alba.

Per un breve, incredibile momento, le tenebre si diradarono, la foschia svanì e apparve il cielo, in uno splendore rosa e lilla: improvvisamente le cose non sembrarono più così terribili. Poco dopo, come richiamati dalla luce, udii passi e mormorii indistinti. Dovevano essere madama Chips e Hagrid, pensai; probabilmente erano venuti a cercarmi dopo aver trovato deserta la Stamberga Strillante.

“Sono qui!”, gridai senza sollevare la testa dal suolo fangoso.

Mi resi conto troppo tardi che non era Madama Chips.

Lupin, stupido imbecille, che hai combinato?!

I passi si fecero sempre più vicini.

Ci fu un improvviso silenzio.

Un’ombra torreggiò su di me, immensa.

“Un lupo mannaro.”, disse una voce piuttosto familiare, ma con un timbro di voce gelido che la rendeva estranea. “Avevo ragione, visto? E’ proprio un maledetto lupo mannaro.”

No…

Affondai convulsamente le unghie in una manciata di terra umida, serrando gli occhi.

“Andiamo via, per favore…”, piagnucolò una seconda voce.

Non è possibile, no…

Eppure sono sempre stato così attento…

“Ehi, sei un lupo mannaro?”, chiese infine una terza voce, più familiare e al tempo stesso più estranea delle precedenti, mentre mi veniva sollevato il mento con la punta di una scarpa cosicché potessi guardare in viso i miei interlocutori.

I miei occhi incrociarono i loro.

Riconobbi immediatamente quell’odio derivato dalla paura perché mi era dolorosamente familiare; ci avevo convissuto una vita intera. Avrei voluto dimenticare con tutto me stesso di essere un licantropo, ma sapevo che era impossibile. Volevo vivere, volevo che mi aiutassero a raggiungere l’infermeria perché da solo quella volta proprio non ce l’avrei fatta e madama Chips non mi avrebbe mai trovato lì, in mezzo all’erba alta. Avrei voluto mentire o fingere di non parlare inglese, ma sarebbe stata un’idea piuttosto sciocca anche se mi fossi trovato di fronte non i miei compagni di dormitorio degli ultimi tre anni ma dei perfetti sconosciuti.

Invece deglutii e dissi semplicemente: “Si.”

A quel punto mentire sarebbe stato inutile, no?

“Quindi ammetti di essere una di quelle bestie immonde.”

Ammettere? Cos’avrei dovuto ammettere, mi chiesi. Non era mica una colpa, la mia. Io di colpe non ne avevo neanche una. Non era come se l’avessi voluto io. Come se avessi avuto scelta. Come se da bambino fossi andato di mia iniziativa in quella grotta nascosta in mezzo al bosco vicino casa mostrando la gola e pregando in ginocchio il lupo mannaro che mi morse di rendermi uguale a lui.

“Si.” Impossibile spiegare. Ero troppo stanco.

“Per me è abbastanza. Andiamocene.”

Il piede che mi teneva sollevata la testa all’improvviso smise di sostenermi e io mi ritrovai a faccia in giù nella fanghiglia bagnata di pioggia e del mio sangue sporco. Chiusi gli occhi e cercai di assumere una posizione fetale, per proteggermi dai loro sguardi gelidi. Erano miei amici. Erano miei amici e io avevo rovinato tutto perché ero stato troppo stupido. Mi ero fatto scoprire.

Non era colpa loro, non potevo biasimarli.

Era normale che non mi accettassero.

Al posto loro avrei fatto lo stesso.

Sentii una fitta acuta al braccio ma non ebbi nemmeno il coraggio di gemere per il dolore.

“Ehi, non facciamo pazzie, ragazzi, dobbiamo aiutarlo a raggiungere l’infermeria”, si lagnò Peter. “Nick Quasi-Senza-Testa ci ha visti uscire dal castello e venire in questa direzione: se gli capita qualcosa di sicuro daranno la colpa a noi.”

“Tanto non se la caverà, guarda com’è conciato.”

“… Però Peter ha ragione, dobbiamo aiutarlo.”, osservò James. “In fondo, merita di vivere comunque.”, aggiunse mentre mi copriva con il suo mantello e si protendeva ad afferrarmi per il braccio. “Merlino, sembra tutto pelle e ossa ma pesa una tonnellata! Sirius, aiutami a tirarlo su!”

A quel punto sprofondai nuovamente nell’incoscienza.

 

 

Quando mi risvegliai era ormai tardo pomeriggio.

Non ebbi neanche bisogno di sollevare le palpebre per rendermi conto di essere in infermeria. L’odore pungente e dolciastro di pozioni medicamentose che giungeva alle narici era inconfondibile per chi, come il sottoscritto, lì dentro ci passava più tempo di quanto non ne trascorresse in classe.

Un pensiero piuttosto deprimente, che mi affrettai immediatamente a scacciare.

Ero già abbastanza impegnato a riflettere su quanto accaduto quella mattina.

Rimasi immobile sotto le lenzuola candide umide di sudore.

Gli occhi chiusi, i denti serrati, il cuore in tumulto.

Loro sapevano. Avevano scoperto tutto.

Ma la cosa non mi stupiva affatto.

Del resto erano ragazzi svegli, studenti brillanti dalla mente attenta e vivace: era solo questione di tempo prima che si rendessero conto che le mie periodiche assenze coincidevano con il plenilunio. Non avrei potuto ingannarli in eterno con le stesse identiche sciocchezze; negli ultimi 2 anni mia madre si era ammalata quindici volte, mia nonna era morta in sei diverse occasioni, avevo aiutato tutti i professori della scuola in mansioni d’ogni tipo.

Scuse sciocche per ingannare i cretini.

Che capissero la verità era quasi scontato.

Com’era scontato che m’avrebbero allontanato.

In qualche modo, ero preparato alla loro reazione.

Non era la prima volta che accadeva, non sarebbe stata l’ultima.

Solo che avrei voluto un po’ più di tempo per godermi la loro amicizia.

Aprii gli occhi e mi guardai intorno lentamente, senza sollevare la testa. Per un istante smisi di respirare, quando mi vidi circondato da un tripudio di luce vermiglia; le tende del letto, le lenzuola, il mio corpo indegno. Persino l’aria che respiravo sembrava aver assunto un tenue bagliore rossastro.

Rosso. Come il sole che andava tramontando oltre le colline.

Come il sangue che scaturiva ogni mese dalle mie ferite.

Piuttosto ironico. Piuttosto triste.

Avrei dovuto piangere.

Ma non ci riuscivo.

Non ero abbastanza umano.

Un rumore di passi rapidi e leggeri e un sommesso canticchiare mi fecero sobbalzare; a quanto pareva non ero solo in infermeria. Mi detti immediatamente dello stupido: se ero in infermeria era logico che non fossi solo. Come minimo avrebbe dovuto esserci l’amorevole infermiera della scuola.

Un’amorevole infermiera che sarebbe stata piuttosto contrariata, usando un eufemismo, per non aver trovato il suo licantropo preferito al posto pattuito quella mattina.

Ero certo che non appena si fosse accorta che mi ero svegliato avrei ricevuto una ramanzina tale da far sembrare quelle di mia madre quasi piacevoli.

Se si fosse accorta del mio risveglio…

Chiusi immediatamente gli occhi.

Mi rendo conto che la mia fu una vera vigliaccata; in fondo mi sarei meritato ogni parola della ramanzina di Madama Chips. Ero fuggito dalla Stamberga Strillante di mia iniziativa, avevo rappresentato un pericolo per me stesso e per gli altri. Se avessi incrociato qualcuno sul mio cammino durante quei brevi attimi di ritorno alla forma umana non so proprio come mi sarei comportato.

Ma non era successo niente, non avevo fatto del male a nessuno.

Erano stati gli altri a fare del male a me, ma quello non era un problema.

Crogiolandomi in quei pensieri agrodolci, sprofondai in un sonno senza sogni.

 

Fine capitolo 1

  
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