La
Noyee
Il
sole sorge più tardi del previsto. Previsto da chi, poi. Da
cosa. Da me.
E’
arrivato il gelo. Ho le mani spaccate e un’immensa voglia di
volare, come non
lo so, ma di volare. Mi si sparpaglia il cuore in tanti piccoli pezzi
di vetro
al pensiero che più di camminare veloce, così,
non posso fare. Una scheggia
qui, una lì, come un mosaico senza disegno, di un colore
rosso grondante, come
densa tempera da pitturarci tutti i papaveri della Terra. Dentro
è come un
maremoto, una valanga di neve bollente, una pioggia asciutta
scrosciante,
danzante. Danzare! Come avrei voglia di ballare! Un passo qui, uno
lì, un incrocio,
una giravolta. Una giravolta! Di quelle belle solo se indossi una gonna
blu
sopra il ginocchio, piena di perfette piegoline. Vorrei qualcuno qui,
incatenato a me, qualcuno che mi spieghi come è bello il
mondo, che tutte
queste tonalità di giallo e d’arancione nelle
foglie non sono un caso, che nei contorni
così nitidi delle case popolari c’è un
disegno, un desiderio di bellezza eterna
irraggiungibile. Che posso aspirare anche io alla felicità,
agli sconvolgimenti
emozionali senza ritorno come l’amore. Che
diventerò grande e che ogni
risveglio sarà come oggi, pieno e vivo. Ma è
stupendo. Non è stupendo? Così meraviglioso
che a guardare i rami degli alberi stagliarsi contro
l’azzurro limpido,
inverosimile, mi scricchiolano i polmoni. E pare non esistere
nell’universo
nulla di così struggente e malinconico come questa bellezza
mattutina. E voglio
vivere, vivere fino a consumarmi i denti. Un salto in avanti, superare
una
pozzanghera profonda trenta metri di foglie cadute e zuppe. Un passo
dietro l’altro,
l’asfalto sfrega forte contro le suole delle scarpe. Una
vecchietta con un
cappello viola, i cappotti neri delle quarantenni con un impiego fisso.
La crisi
economica che non la sento, lo scatafascio generale che non mi arriva.
Roteiamo,
roteiamo. Come la carne del kebab, che in mezzo al pane è
buona e sa di
esotico. Quanti odori, rumori, macchine che sfrecciano,
caffè, bigodini delle
nonne, frignare dei bambini che non vogliono andare a scuola. E poi non
va
nemmeno a me, in fondo. Così decido che oggi è la
mia vacanza, il mio Santo Patrono
delle sette e venti. Fuggiamo, fuggiamo! Ho già prenotato i
biglietti per non
so quale città, quale luogo dimenticato, dove la fine del
mondo è solo l’inizio
di una festa.
Poi,
ecco, tutta la mia isteria frenetica si spegne. Si schianta sopra i
moncherini
di due gambe senza piedi, la carne ritratta contro le ossa. Lui ha una
barba
nera e ricciuta, e mi ricorda Che Guevara, anche se in effetti non gli
somiglia
per niente. Se ne sta seduto contro l’angolo sinistro della
vetrina, in basso,
vicino alle scarpe da ginnastica bianche come i sorrisi della
pubblicità. Sopra
una stuoia, neanche fosse un piccolo animaletto domestico abbandonato.
Magari ha
un ritardo mentale, magari non parla la mia lingua, ma sicuramente ne
parlerà
un’altra che io non posso comprendere. Magari è
brillante e ci odia tutti, o ci
compatisce, mentre passiamo con i nostri piedi al loro posto. Certo
è che ha
quel bicchiere di plastica piantato tra i due moncherini,
c’è qualche monetina
dentro. Vorrei avvicinarmi, chiedergli com’è che
è successo. Se è Rivoluzione,
malattia, tortura o incidente. Se passeggiava sui campi di granate come
i
bambini delle associazioni onlus. Invece mi vergogno di una vergogna
pavida. Vedo
che i passanti gli girano intorno, e ostentatamente evitano di posare
lo
sguardo su quei due terzi di gambe scoperti di proposito. Non ho
neanche il
coraggio di avvicinarmi e lanciare dentro due monete. Non lo so. Ho
paura. Come
tutti gli altri, mi allontano. Cos’è che ci frega,
a noi, come umanità? Perché,
in un modo o nell’altro, ci manca sempre il coraggio?
La
pietra è umida. Ci sono i soliti fattoni che sembrano vivere
qui, in mezzo ai
cani. Poi magari uno scopre che sono figli di gente piena di soldi, o
che
invece è proprio il contrario. Con le persone non si
può mai dire. Magari ci si
aspetta qualcosa di specifico da un individuo, poi si scopre che in
realtà è
tutto il contrario. Si, insomma, è tutto banalmente
complicato o ridicolmente
semplice. Dipende dai punti di vista.
Io
e Kurt ci siamo visti qui, l’ultima volta. Cioè un
giorno fa. E’ così dolce
pensarci. Potrei morirci qui, credo, di dolcezza. Arrossisco.
Così, da sola. Da
matti. E poi è fantastico ricordare ogni particolare. Come
la luce del tramonto
proiettava sulle sue ciglia una dimensione parallela di ombre nelle
quali
perdersi. O come sembravano morbidi i capelli, come avrei voluto
toccarli. Ne avevo
una voglia che mi faceva prudere le dita. Come stavo scomoda, a
guardarlo così,
chinata un poco in avanti per non togliergli l’aria, per
farlo respirare. E lui
pieno di febbre fino alle orecchie che vaneggiava raccontandomi della
corruzione
che inquina la politica e delle linee metropolitane che potrebbe
prendere per
arrivare prima a casa, se non gli venissero gli attacchi di panico, a
stare
sottoterra. Non ricordo di cosa abbiamo parlato. Non ricordo cosa ci
siamo
detti. Però sento ancora gli sguardi che si sfiorano, come
fogli di carta
velina che si scontrano per caso, che si accarezzano. E’
oppressione e
leggerezza. Angoscia e il frullo d’ali di un uccellino. Tutto
insieme. Tutto insieme.
Tanta voglia di esistere, tanta voglia di morire. Tanta voglia di non
immaginare cosa sarà domani. Tante speranze vuote.
Nel
tornare a casa la mente mi si oscura di nubi. Guardo la strada
allontanarsi,
dalla coda del tram.
Penso
a come deve essere il sapore di una sigaretta. Se è giusto o
sbagliato fumare. Se
fa male o non fa male. A come deve essere il sesso, il piacere,
ammettere
pubblicamente di masturbarsi. E bere fino a vomitare? Chissà
se l’LSD ha un
sapore. Chissà cosa vuol dire davvero trip. Io mi sento una
tipa da bad trip,
da uno di quei viaggi incubo senza ritorno, magari. E
l’eroina? Com’è bucarsi
la pelle? Com’è l’astinenza?
Vorrei
scacciare via le domande inopportune dalla mia testa, ma si accalcano
una sull’altra.
E
com’è il matrimonio, il divorzio, partorire, i
figli, le bollette? Com’è essere
omosessuali? Com’è essere lesbiche? La vita
sregolata dei tossici per bene da
discoteca e tavoli nei locali giusti. Ballare abbracciati alle casse ad
un
rave, trombare con il primo che trovi. Gli stivali con le punte in
ferro. I tanga.
Il cancro. La leucemia. La chemio. La calvizie incipiente.
Affondo
la testa nel cappuccio. Com’è possibile. Il mondo
stamattina brillava così
forte da farmi male e bene. Il mondo stamattina sembrava un altro
posto,
davvero. Sono le montagne russe. Tutto su, tutto giù.
Più giù che su. Chissà se
anche Kurt ci pensa, a tutte queste cose, intendo, qualche volta.
Vorrei non
sentirmi l’unica.
Vorrei…
vorrei.
Annegare.