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Autore: GirlWithTheGun    03/12/2009    3 recensioni
Elisa e Colin non sanno cosa volere dalla vita. Elisa e Colin non sanno se volerla, la vita. Si risvegliano quindicenni e confusi in un universo dove l'unica lente per vedere, sentire e amare è la violenza. Una violenza nascosta nell'anima, che riempie, madre di domande senza risposte e di silenzi assordanti.
Elisa vorrebbe avere ottant’anni, vorrebbe non vedere il buio del nulla nel suo futuro, non avere paura e non essere nata delusa, vorrebbe capire qual è il giorno maledetto in cui ha cominciato a pensare.
Colin si trascina dietro la memoria di un padre suicida, sogna un mare che mangia vive le persone, non riesce ad identificare quel desiderio caotico di libertà che lo infiamma.
"Ma cosa siamo se possiamo esaltarci e distruggerci così? Perché siamo, dove siamo, sperduti negli angoli degli universi e schiantati nelle nostre tragedie di cartone.Esistenze misere che non si accendono mai, lampadine spente che non conoscono la luce. Ma io voglio brillare! Io voglio brillare!".
A tutti i Catchers In The Rye.
Genere: Romantico, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La Noyee

 

 

Mi sento come una vecchia fisarmonica. Un mantice che si allarga e si restringe, pieno d’aria fredda ed ingombrante. Questa mattina sono rimasta quindici minuti netti a guardare il cielo sospeso fuori dalla mia finestra. E mi sembrava così bello. E tutto era possibile, con gli occhi incollati lì, a seguire gli strascichi pigri delle nuvole.
Il sole sorge più tardi del previsto. Previsto da chi, poi. Da cosa. Da me.
E’ arrivato il gelo. Ho le mani spaccate e un’immensa voglia di volare, come non lo so, ma di volare. Mi si sparpaglia il cuore in tanti piccoli pezzi di vetro al pensiero che più di camminare veloce, così, non posso fare. Una scheggia qui, una lì, come un mosaico senza disegno, di un colore rosso grondante, come densa tempera da pitturarci tutti i papaveri della Terra. Dentro è come un maremoto, una valanga di neve bollente, una pioggia asciutta scrosciante, danzante. Danzare! Come avrei voglia di ballare! Un passo qui, uno lì, un incrocio, una giravolta. Una giravolta! Di quelle belle solo se indossi una gonna blu sopra il ginocchio, piena di perfette piegoline. Vorrei qualcuno qui, incatenato a me, qualcuno che mi spieghi come è bello il mondo, che tutte queste tonalità di giallo e d’arancione nelle foglie non sono un caso, che nei contorni così nitidi delle case popolari c’è un disegno, un desiderio di bellezza eterna irraggiungibile. Che posso aspirare anche io alla felicità, agli sconvolgimenti emozionali senza ritorno come l’amore. Che diventerò grande e che ogni risveglio sarà come oggi, pieno e vivo. Ma è stupendo. Non è stupendo? Così meraviglioso che a guardare i rami degli alberi stagliarsi contro l’azzurro limpido, inverosimile, mi scricchiolano i polmoni. E pare non esistere nell’universo nulla di così struggente e malinconico come questa bellezza mattutina. E voglio vivere, vivere fino a consumarmi i denti. Un salto in avanti, superare una pozzanghera profonda trenta metri di foglie cadute e zuppe. Un passo dietro l’altro, l’asfalto sfrega forte contro le suole delle scarpe. Una vecchietta con un cappello viola, i cappotti neri delle quarantenni con un impiego fisso. La crisi economica che non la sento, lo scatafascio generale che non mi arriva. Roteiamo, roteiamo. Come la carne del kebab, che in mezzo al pane è buona e sa di esotico. Quanti odori, rumori, macchine che sfrecciano, caffè, bigodini delle nonne, frignare dei bambini che non vogliono andare a scuola. E poi non va nemmeno a me, in fondo. Così decido che oggi è la mia vacanza, il mio Santo Patrono delle sette e venti. Fuggiamo, fuggiamo! Ho già prenotato i biglietti per non so quale città, quale luogo dimenticato, dove la fine del mondo è solo l’inizio di una festa.

Il Sole! Il Sole! Mi illumina i capelli attraverso i vetri del tram. E guardo tutti con gli occhi accesi, mi piace incrociare gli occhi dei passeggeri che salgono ad ogni fermata. Il Duomo sembra calato dall’alto e messo lì, per farci spalancare la bocca dallo stupore. Non può essere reale, così perfetto. Non può essere vero. La Galleria, i piccioni che molestano i passanti, mille lingue che non saranno mai una. E’ Babele, è il Paese dei Balocchi, è una metropoli. Un’arma. Un revolver carico. Un arco. Niente. Via Torino con i negozi aperti e non posso permettermi un paio di stivali che comunque mi starebbero malissimo. Ho letto da qualche parte che i commessi delle filiali Foot Locker li scelgono rompicazzi di proposito.
Poi, ecco, tutta la mia isteria frenetica si spegne. Si schianta sopra i moncherini di due gambe senza piedi, la carne ritratta contro le ossa. Lui ha una barba nera e ricciuta, e mi ricorda Che Guevara, anche se in effetti non gli somiglia per niente. Se ne sta seduto contro l’angolo sinistro della vetrina, in basso, vicino alle scarpe da ginnastica bianche come i sorrisi della pubblicità. Sopra una stuoia, neanche fosse un piccolo animaletto domestico abbandonato. Magari ha un ritardo mentale, magari non parla la mia lingua, ma sicuramente ne parlerà un’altra che io non posso comprendere. Magari è brillante e ci odia tutti, o ci compatisce, mentre passiamo con i nostri piedi al loro posto. Certo è che ha quel bicchiere di plastica piantato tra i due moncherini, c’è qualche monetina dentro. Vorrei avvicinarmi, chiedergli com’è che è successo. Se è Rivoluzione, malattia, tortura o incidente. Se passeggiava sui campi di granate come i bambini delle associazioni onlus. Invece mi vergogno di una vergogna pavida. Vedo che i passanti gli girano intorno, e ostentatamente evitano di posare lo sguardo su quei due terzi di gambe scoperti di proposito. Non ho neanche il coraggio di avvicinarmi e lanciare dentro due monete. Non lo so. Ho paura. Come tutti gli altri, mi allontano. Cos’è che ci frega, a noi, come umanità? Perché, in un modo o nell’altro, ci manca sempre il coraggio?

Le Colonne di San Lorenzo sono uno di quei posti classici che non si possono non conoscere. In qualche modo sono diventate anche loro uno status, però. I miei si sono fidanzati proprio qui, quando le fighe e i fighi si chiamavano paninari. Paninari. Bellissimo. Come li invidio. Invidio un po’ tutti, veramente, tranne i miei coetanei. Soprattutto i vecchietti, ecco. Sospiro di circostanza.
La pietra è umida. Ci sono i soliti fattoni che sembrano vivere qui, in mezzo ai cani. Poi magari uno scopre che sono figli di gente piena di soldi, o che invece è proprio il contrario. Con le persone non si può mai dire. Magari ci si aspetta qualcosa di specifico da un individuo, poi si scopre che in realtà è tutto il contrario. Si, insomma, è tutto banalmente complicato o ridicolmente semplice. Dipende dai punti di vista.
Io e Kurt ci siamo visti qui, l’ultima volta. Cioè un giorno fa. E’ così dolce pensarci. Potrei morirci qui, credo, di dolcezza. Arrossisco. Così, da sola. Da matti. E poi è fantastico ricordare ogni particolare. Come la luce del tramonto proiettava sulle sue ciglia una dimensione parallela di ombre nelle quali perdersi. O come sembravano morbidi i capelli, come avrei voluto toccarli. Ne avevo una voglia che mi faceva prudere le dita. Come stavo scomoda, a guardarlo così, chinata un poco in avanti per non togliergli l’aria, per farlo respirare. E lui pieno di febbre fino alle orecchie che vaneggiava raccontandomi della corruzione che inquina la politica e delle linee metropolitane che potrebbe prendere per arrivare prima a casa, se non gli venissero gli attacchi di panico, a stare sottoterra. Non ricordo di cosa abbiamo parlato. Non ricordo cosa ci siamo detti. Però sento ancora gli sguardi che si sfiorano, come fogli di carta velina che si scontrano per caso, che si accarezzano. E’ oppressione e leggerezza. Angoscia e il frullo d’ali di un uccellino. Tutto insieme. Tutto insieme. Tanta voglia di esistere, tanta voglia di morire. Tanta voglia di non immaginare cosa sarà domani. Tante speranze vuote.

Oggi è stato come un giro turistico.
Nel tornare a casa la mente mi si oscura di nubi. Guardo la strada allontanarsi, dalla coda del tram.
Penso a come deve essere il sapore di una sigaretta. Se è giusto o sbagliato fumare. Se fa male o non fa male. A come deve essere il sesso, il piacere, ammettere pubblicamente di masturbarsi. E bere fino a vomitare? Chissà se l’LSD ha un sapore. Chissà cosa vuol dire davvero trip. Io mi sento una tipa da bad trip, da uno di quei viaggi incubo senza ritorno, magari. E l’eroina? Com’è bucarsi la pelle? Com’è l’astinenza?
Vorrei scacciare via le domande inopportune dalla mia testa, ma si accalcano una sull’altra.
E com’è il matrimonio, il divorzio, partorire, i figli, le bollette? Com’è essere omosessuali? Com’è essere lesbiche? La vita sregolata dei tossici per bene da discoteca e tavoli nei locali giusti. Ballare abbracciati alle casse ad un rave, trombare con il primo che trovi. Gli stivali con le punte in ferro. I tanga. Il cancro. La leucemia. La chemio. La calvizie incipiente.
Affondo la testa nel cappuccio. Com’è possibile. Il mondo stamattina brillava così forte da farmi male e bene. Il mondo stamattina sembrava un altro posto, davvero. Sono le montagne russe. Tutto su, tutto giù. Più giù che su. Chissà se anche Kurt ci pensa, a tutte queste cose, intendo, qualche volta. Vorrei non sentirmi l’unica.
Vorrei… vorrei.
Annegare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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