Capitolo 17
“Il tempo sta per scadere.”
Criptico come sempre.
“Quale tempo?”
“Il tuo.
Mi voltai verso Tsunade, che aveva aggiunto l’ultima frase,
trovandola tranquilla che mi osservava.
“Devi dirmi qualcosa, vecchiaccia?”
“Io? No, no.”
“Che vuol dire ’il tuo’?!”
“Oh, niente, era per mettere un po’ di suspense.”
Perché non potevo ucciderla? Avrei potuto farlo passare per un
incidente, poi avrei sicuramente trovato l‘appoggio di Jiraya. Guardai Itachi,
in attesa che almeno lui dicesse qualcosa di sensato, ma era evidente che loro
potevano iniziare frasi macabre e mistiche, senza poi degnarsi di finirle.
Perché non mi dicevano quasi mai niente? Se ero andata lì solo per fare
figuracce, potevo benissimo starmene nel mio, di mondo. Tanto le facevo anche
lì.
Me ne andai, mentre Itachi e Tsunade riprendevano a parlottare.
Bene, facevano il gioco del silenzio solo quando c’ero io, ma io
ero più furba.
L’importante era crederlo.
Dall’alto della mia mai avuta intelligenza, mi appostai dietro la
porta, intenta a scoprire quali fossero i grandi misteri a cui ero all’oscuro.
Prima, per esperienza personale, mi guardai intorno, per
controllare che non vi fossero ninja/gatti/tramortitori.
Poggiai l’orecchio alla porta, cosa che faceva molto spia fallita,
e attesi di sentire qualcosa. Avevano smesso di parlare. Sapevano che ero
dietro la porta, avrei dovuto immaginarmelo, ma pensavo che almeno mi avrebbero
lasciato il beneficio del dubbio.
“Allora, cosa puoi dirmi di lei?”
Oh, avevano ripreso a parlare e stavano anche parlando di me!
Forse dovevo deprimermi o, come minimo, staccare l’orecchio dalla
porta e smettere di origliare conversazioni private. Invece rimasi ad
ascoltare, sprezzante del pericolo.
“Ha una pessima mira.”
E quello non lo sapevamo già? Tsunade era a conoscenza di quella
mia dote mancata, poiché una volta avevo tentato di farla secca con una
sveglia, ma avevo quasi centrato qualcuno che si trovava dall’altra
parte.
“Parla nel sonno.”
Oh, oh.
“Cosa dice?”
“Soprattutto il mio nome e quello di un albino figo.”
Erano cose private, non poteva divulgarle così, alla prima
vecchietta curiosa e pervertita che passava.
“Ha fatto qualche miglioramento negli allenamenti?”
Almeno avrei potuto riscattarmi con quello. Ero migliorata, anche
se di poco. Su quello non poteva avere niente da dire. Ero riuscita anche a
sputare una palla da tennis di fuoco, ma neanche tanto, suprema. In fondo, non
ero nemmeno una ninja, ero alle prime armi, ciò che ero riuscita a fare era già
notevole.
“No.”
Caddi letteralmente a terra e iniziai a dondolarmi in posizione
fetale, in totale depressione. Non era giusto! Io mi ero impegnata, nessuno che
apprezzava i miei sforzi.
“Non è giusto… non è giusto…”
Non mi accorsi che qualcuno aveva assistito al mio pietoso
teatrino, con tanto di cantilena finale.
“Tutto bene?”
Kakashi mi era davanti e mi fissava con sguardo stranito.
Probabilmente era di ritorno da una missione e doveva fare rapporto, infatti
sembrava abbastanza stanco. Sembrava che lì, a Konoha, la mia aura di sfortuna
si fosse allargata, infatti le brutte figure che facevo erano aumentate,
rispetto a quelle che facevo nel mio mondo. Evidentemente incoraggiata da quel
funesto dato di fatto, mi arpionai alla gamba di Kakashi, come già era
accaduto.
“Vero che sono migliorata, vero? Vero? Eh? Vero che sono
migliorata, eh? Vero?!”
Non aveva capito nemmeno una parola di quelle che avevo
farneticato, ma si limitava a stare fermo, osservandomi da dietro la maschera.
Che stesse meditando di provare su di me una nuova tecnica, non ne ero sicura,
ma non gradiva che stessi a peso morto sulla sua gamba, quello era certo.
“A villa Uchiha hai fumato qualcosa?”
Ripresi a strattonarlo con ancora più veemenza: volevo una
risposta!
“Allora?”
“Allora cosa?”
“Te l’ho detto!”
“Cosa?”
“Quello!”
“Quando?”
“Prima!”
“Ma cosa?”
Poi quella che si era fumata qualcosa ero io. Ripresi a dimenarmi,
come una bambina piccola. Forse Itachi mi aveva drogato nel sonno, perché stavo
mettendo su davvero un bel siparietto. Di certo non era silenzioso come un
convento di suore, perciò tutto il casino giunse alle orecchie di qualcuno, che
aprì prontamente la porta.
Itachi, in tutta a sua eleganza, per poco non mi aprì la porta
addosso e vide quel bellissimo spettacolo, che aveva come protagonisti me, alla
stregua di una bambina drogata, e Kakashi che sbuffava annoiato.
Per evitare che Itachi pensasse che stessi facendo davvero ciò che
stavo facendo, in altre parole quasi uccidere il mio ex sensei e frignare come
una disperata, presi la gamba di Kakashi a cui ero arpionata e lo trascinai per
terra, facendolo cadere. Con un triplo salto carpiato, il libro di Kakashi volò
fuori dalla finestra lì vicino.
Era sempre il libro che ci andava di mezzo; Kakashi non mi avrebbe
mai perdonato. Lo sguardo che mi lanciò da seduto ne era la prova: mi guardava
in cagnesco, uno sguardo degno di Pak.
Arretrai lentamente, spaventata dalla possibilità che il dolore
millenario facesse la sua entrata in scena.
Itachi e Tsunade intanto, mi fissavano dalla soglia della porta e
mi ricordai perché avevo buttato per terra Kakashi.
“Visto? Mi stavo allenando, l’ho atterrato!”
Kakashi continuava a guardarmi male.
“S-sono dispiaciuta per la prematura dipartita del libro… eheh…”
Continuava a guardarmi male, lo si vedeva anche da sopra la
maschera.
“Carmen, sei saltata addosso a Kakashi? Avevi detto che lo trovavi bello, ma per te è
troppo vecchio! Ci sarebbero ragazzi più giovani…”
Tsunade era sempre pronta a dare una mano nei momenti di bisogno,
ecco perché mi stava mettendo ancora più nella merda. La prossima volta che mi
sarei messa ad aiutare le vecchiette ad attraversare la strada, lei l’avrei
fatta asfaltare da un tir.
“Domani, alle sei e mezza.”
E fu così che Itachi fece il secondo intervento della giornata e
non c’entrava niente. Avrei dovuto dargli una collana Hawaiana. Sì, così poi ce
lo strozzavo.
“Domani mattina cosa?”
Era un appuntamento, vero? Sì, Itachi mi stava invitando ad un
appuntamento alle sei e mezza di mattina, niente di più logico. Abitavamo anche
nella stessa casa, quindi niente di più normale.
Certo, domani lui voleva…
“Per gli allenamenti.”
… torturarmi.
“Cosa ti aspettavi, un appuntamento?” La voce della verità di
Tsunade non mancava mai.
“Tu ne hai mai avuto uno, vecchiaccia?”
Non le diedi tempo di ribattere e aggiunsi: “Tolto Jiraya, ovvio.”
“Certo! Io ero una preda molto ambita!”
“Certo, dai cacciatori di foche o bikochu.”
“Chiamami di nuovo vecchiaccia e non rivedrai mai più Itachi. Non
da viva perlomeno.”
Mi voltai verso di lui, per vedere che effetto avesse sorbito su
di lui la conversazione, ma non lo trovai. Girai la testa talmente velocemente
alla sua ricerca che mi feci uno strappo.
“Dov’è finito?” Chiesi allarmata. Lo avevano rapito? Il fantasma
del Natale presente? O quello del passato? O quello del futuro? La parte
peggiore che mi fece rabbrividire di quelle considerazione era che non eravamo
neanche a Natale!
“Oh, se n’è andato.”
“Brutta vecchiaccia.”
Se ne andò, dopo che mi ebbe riaccompagnato a casa. Faceva
uno strano effetto chiamarla così ma, a conti fatti, quello era. Ormai avevo
rinunciato a chiedere a destra e a manca perché ero lì, perciò avevo deciso che
mi sarei gustata il soggiorno, finché fosse stato tale.
Naturalmente, durante il ritorno in compagnia dell’Hokage non era
mancata la consueta figuraccia.
Mentre camminavamo a passo svelto, poiché lei affermava che aveva
del lavoro da svolgere e io che aveva del sakè da bere, su Konoha calava la
sera. Sarebbe stato anche un paesaggio carino da rimirare se non ci fossero
state le domandine inopportune a scopo di lucro – eccome se lo erano – di
quella vecchia pervertita. Poteva benissimo andare a braccetto con l’eremita
pervertito. Anche lei nel profondo nascondeva un lato maniaco e avevo appurato
che non era neanche tanto nel profondo.
“È strano immaginare Itachi in vesti di membro del Villaggio della
Foglia…”
“E in che vesti te lo immagineresti meglio?”
“Senza.”
Avevo risposto senza neanche pensarci, infatti il risultato era
quello. Tsunade intanto rideva, di cuore, poiché era riuscita nel suo intento.
Era inutile controbattere quell’affermazione, tanto lo sapevo tanto io quanto
lei che era la pura verità.
“Interessante.”
“Strega.”
“Mocciosa.”
Sospirai, felice che almeno lui non avesse assistito a quella
penosa scena. Non era giusto, però! Mi aveva estorto una confessione a
tradimento.
Cercai per la casa Itachi, ma non lo trovai: forse avevo fatto
pena alla fortuna e aveva deciso di concedermi un momento pienamente favorito
dalla sorte. Mangiai e andai dritta a letto, avevo troppo sonno.
Sono sempre stata una ragazza freddolosa, infatti anche in estate
il mio letto era stracolmo di coperte. In inverno la situazione era anche
peggiore. Me ne mettevo talmente tanto che non riuscivo più a muovermi.
Quella
notte, caso volle che mi svegliai perché avevo freddo. Stupidi giapponesi che
mettevano una sola coperta! O stupidi Uchiha, visto che ero a casa loro.
Pensavano che avrebbero accresciuto la loro bellezza morendo di freddo? Va bene
che per essere belli bisogna soffrire, ma se morivano per ipotermia non sarebbe
servito.
Mi alzai, in uno stato di dormiveglia in cui erano più le cose che
facevo di quelle che ricordavo.
L’unica cosa che ricordavo era che avevo freddo e che cercavo
delle coperte, ma non avevo la più pallida idea di dove le stessi
cercando. Non avevo idea di che ora fosse – non che fosse interessante –, ma
probabilmente era notte fonda: Itachi doveva già essere tornato. Informazione
relativa per il mio cervello, che era intenzionato solo a trovare coperte,
sacrosante coperte.
Da quel giorno divenni fatalista come Neji e compresi anche le sue
ragioni a riguardo. Era destino che io facessi brutte figure, così come era
destino che le facessi sempre quando Itachi era presente.
A rigor di logica, perciò, gironzolando per la casa, non nel pieno
delle mie facoltà mentali, entrai in tutte le stanze che mi capitavano a tiro,
inclusa quella di Itachi. Non ricordo la dinamica dei fatti, ma in qualche modo
mi ritrovai a tornare nella mia stanza con una nuova coperta.
Era buio. Non potevo vedere che tipo di coperta.
Si stava più caldi, perciò non mi concessi altre scampagnate.
Quella aveva già procurato abbastanza danni.
Quella mattina mi sentivo osservata, ma poteva anche essere solo
una mia impressione, visto che non ero completamente sveglia. Anzi, non lo ero
per niente: fuori stava per sorgere il sole, perciò non era mezzogiorno. No,
non potevo essere sveglia. Non sapevo nemmeno come facevo a sentirmi osservata,
visto che avevo gli occhi chiusi e il mio sesto senso era tarocco.
Sentendomi abbastanza – molto – stupida, aprii gli occhi, sicura
di non trovare nessuno sulla soglia della porta, proprio dove si trovava Itachi
in quel momento. Buffa la vita, eh?
Mi osservava con un sopracciglio inarcato e dovetti strofinarmi
più volte gli occhi per riuscire a convincermi che non era uno scherzo del
sonno: Itachi aveva una mimica facciale.
Continuava ad osservarmi e io continuava ad osservare lui.
“Che c’è?”
Il mio massimo grado di sopportazione e pazienza era abbastanza
basso alle…
Mi girai a guardare la sveglia.
… quattro e trentacinque e svariati secondi del mattino?!
Non era un po’ presto per il sorgere del sole? A Konoha non
tramontava nemmeno, allora!
Dov’erano andate a finire le leggi della fisica?
“Cosa ci fai con la mia cappa?”
La sua k?
Ma era scemo? Che cazzo diceva? Va bene che era mattina anche per
lui, però Itachi non si scriveva con la k. Poverino, allora anche il grande
Itachi Ukhiha – la k era sua, no? – aveva un punto debole: il risveglio.
E io che credevo di essere l’unica rincoglionita sotto quel tetto.
“Quale k?”
“Quella che hai addosso.”
Il ragazzo era da neurologia intensiva. Come facevo ad avere la
sua k addosso? La sua k ce l’avevo io? Sperai non si riferisse al
mio nome! Va bene che era mattina, ma se non aveva ancora capito come si
scriveva il mio nome…
Continuava a fissarmi, come se stesse dicendo la cosa più ovvia al
mondo. Presi anche in considerazione la possibilità che avesse bevuto. Un sakè
di troppo?
“Guarda che Carmen si scrive con la c, non con la k!”
Borbottai anche uno ’stupido Uchiha’, ma mi premurai davvero
di dirlo a voce bassa. Poteva anche essere stordito dal sonno, ma aveva pur
sempre lo Sharingan.
Quasi non mi prese un infarto quando vidi una specie di sorriso
sulle sue labbra. Non ci potevo credere. Anche se di poco, gli angoli della sua
bocca si erano alzati. Era una data da segnare su un calendario, quella. Poi se
ne andò,probabilmente così come era venuto. Rimasi a gongolare un po’ su quel
sorriso, certa che un’opportunità del genere non si sarebbe ripresentata.
Anche se dovevo ammettere che il suo comportamento era stato
davvero strano.
Finalmente, mentre mi alzavo per rifare il letto e andare a
cambiarmi – di dormire non se ne parlava più –, i neuroni del mio cervello si
misero in moto, illuminandomi sulla faccenda.
Con k, evidentemente, non intendeva la lettera, come io
avevo capito, ma un mantello o qualcosa del genere. Un cappotto.
Rimasi altrettanto scioccata quando mi resi conto che quella che
stavo sistemando sul letto non era una coperta, ma qualcosa di nero, con delle nuvolette
rosse. Abbastanza familiare per capire che era la cappa dell’Akatsuki.
Contemplai la tunica dell’Uchiha per svariato tempo, vergognandomi
per la figuraccia che avevo appena fatto. Cosa gli avrei detto? Sicuramente, mi
aveva preso per una mentecatta, ma forse quello lo pensava già da prima.
Annegata nello sconforto più totale, mi chiesi anche dove e quando
cavolo aveva preso la cappa di Itachi, ma non ne avevo la più pallida idea.
Il problema più importante da risolvere comunque era con che faccia
mi sarei presentata ad Itachi. Probabilmente la vecchiaccia lo sarebbe venuta a
sapere presto e non avrebbe perso tempo per ricordarmelo per i prossimi…
trent’anni? Magari sarebbe crepata prima…
Passai attraverso diverse fasi, che si alternavano tra
momenti di assoluta depressione – sbattere la testa contro la porta non
risolveva granché – e momenti di felicità – avevo dormito con la sua cappa! E
aveva sorriso!
Decisi, dopo varie peripezie che includevano la testa alquanto
dolorante, che era meglio riportargli la cappa nella sua stanza e poi andare a
fare colazione, con assoluta nonchalance.
Certo, sarei stata indifferente alla sua presenza.
Cercai la sua stanza, pregando Jashin affinché non trovassi lui.
Gliela lasciai sul letto: era meglio se mi muovevo il meno possibile in quella
stanza. Avevo già fatto troppi danni.
Notai, uscendo, l’armadio e fui tentata di tornare dentro per
aprirlo. Chissà quali erano i grandi segreti di Itachi Uchiha.
Un brivido mi attraversò la schiena. Forse era meglio non indagare
sui suoi segreti. Le più macabre supposizioni si affollarono nella mia mente,
una più terrificante dell’altra.
Magari lì dentro c’erano le ossa dei membri del suo Clan, che lui
conservava come reliquie. O forse le teneva nascoste in attesa del momento
propizio per ridare vita al suo Clan e riportarlo agli antichi fasti…
No, quello era Sasuke.
La mia mente stava delirando, era meglio che me ne andassi prima
di aprire davvero quell’armadio o Itachi, se mi avesse scoperto, avrebbe potuto
tenerci le mie, di ossa.
Tentai di non farmi impressionare dall’immagine che si era creata
nella mia mente, in modo da non urlare. Era raccapricciante l’immagine di
Itachi in versione Yamato spaventoso.
Andai in cucina, sempre pregando che non fosse lì. Presi un bicchiere
d’acqua, concentrandomi pienamente su di esso. Chissà che non scoprissi di
avere un nuovo potere, fortissimo e potentissimo: quello di far rompere i
bicchieri con la forza del pensiero.
Ricorda: indifferenza.
Nonchalance.
Non farti impressionare dalla presenza di Itachi, lui non è qui.
Itachhhh.
“Hai messo a posto la cappa, vedo.”
Io, di certo, poteri che vertessero sulla distruzione dei
bicchieri non ne avevo, ma ne avevo appena rotto uno.
Niente indifferenza.
“Eh già, ho messo a posto la k… Ehm, la cappa.”
Perfetto, e io che volevo mandarlo da Tsunade, quella stessa
mattina, perché pensavo che si fosse rincretinito di colpo. Presto dalla
Godaime mi ci avrebbe mandato lui, con un paio di ossa rotte e danni cerebrali.
Non ci sarei arrivata viva, perciò.
“Tsunade ti ha mandato la colazione.” Disse, dopo aver poggiato
sul tavolo un sacchetto. Almeno non avrei dovuto procacciarmela. Di solito,
quando tornavo in casa dopo gli allenamenti c’era già del cibo perciò il
problema non me lo ponevo più.
Mi ci fiondai sopra e tirai fuori il contenuto. Aveva un odore
invitante.
Mi sorse un dubbio: erano poche le volte in cui avevo visto Itachi
mangiare e nel sacchetto vi era solo una porzione. Giunsi alla conclusione più
ovvia.
Itachi era un vampiro.
Era
pallido, non mangiava quasi mai – quelle poche volte feci finta di non averle
notate –, non potevo sapere se era freddo, ma non era importante. Aveva anche
gli occhi rossi!
Stavo diventando scema, ma quello doveva essere uno degli effetti
collaterali della mia permanenza a Konoha. Tutti lì avevano qualche rotella
fuori posto.
Presa da uno sprazzo di scemenza e curiosità dettata sempre
dall’abbondanza di idiozia, mi alzai, sotto il suo sguardo. Andai a spostare la
tenda, in modo che il sole lo colpisse.
Lo osservai; no, non si stava sciogliendo al sole e non stava
sbrilluccicando. Quella era la peggiore delle ipotesi.
Dovetti ritirare in fretta la tenda e spostare lo sguardo o avrei
iniziato a sbavare. Il sole lo aveva fatto diventare ancora più bello. Decisi
di darmi un contegno e mi sedetti nuovamente, mentre mi crogiolavo
nell’imbarazzo.
Perché ero così scema? Perché?
Ripresi a mangiare, senza degnarlo di uno sguardo. Sicuramente
stava pensando a quale tecnica usare per incenerirmi. La palla di fuoco suprema
o quella normale? O avrebbe inventato qualcosa sul momento? I drammi di una
vita, supposi.
“Cosa stavi facendo?”
Per poco non mi strozzai, ma mi diedi un contegno.
“Avevo bisogno… di luce.”
Quella che ne uscì era una voce degna della bambina
dell’esorcista. Un tono funebre che stupì anche me; pensai di alzare lo sguardo
per vedere la sua faccia, ma lasciai perdere. Mi sarei strozzata per davvero.
Ripresi a mangiare, con tutta la lentezza di cui ero capace. Non
mi andava di allenarmi ed era una prospettiva ancora meno ambita, dal momento
che il sensei era Itachi. Sembrava davvero impaziente di iniziare, visto che si
era seduto davanti a me e mi osservava. Non avrei mangiato più veloce, poteva
aspettare quanto voleva.
“Stupido Uchiha?”
Il pezzo di cibo a cui non sapevo dare un nome – le mie conoscenze
sulla cucina giapponese erano pessime –, volò via dalle bacchette che mal
impugnavo e gli sarebbe finito dritto in faccia, se non lo avesse intercettato
con la mano.
OhmerdaOhmerdaOhmerda.
I coerenti pensieri di una deficiente che non faceva altro che
fare figuracce. Era divenuto il mio hobby, passatempo, diversivo… tortura.
Continuava a fissarmi e io alternavo occhiate al tavolo di legno e
a lui. Quel singolare pezzo di legno era divenuto molto interessante, così lavorato…
Dove molto probabilmente i membri della famiglia Uchiha avevano trascorso la
loro ultima cena.
Alzai di colpo lo sguardo, rischiando di strozzarmi con la saliva.
Perché mi venivano in mente pensieri di quel genere, in una situazione che
verteva in condizioni orribili?
Ripresi le bacchette, con il chiaro intento di finire la mia
colazione, ma, intercettando lo sguardo del primogenito degli Uchiha, le
poggiai lentamente sul tavolo. Meglio non rischiare che le stesse bacchette
diventassero l’arma del delitto. Del mio omicidio e del suo delitto.
“Parliamo del perché tu sei qui.”
Perché aveva rimarcato tanto sul tu?
Che bel modo di iniziare la mattina.
Avrei preferito le gocciole.
Ce l’ho fatta!*_*
Sono fiera di me stessa! Ho aggiornato!
Sì, so che è una schifezza, ne sono consapevole^^’
È già un passo avanti, no?
Comunque, spero che questo capitolo vi piaccia, per quanto
contorno sia. Non ho nuovamente tempo per rispondere alle recensioni e vi
chiedo scusa. Ringrazio chi ha recensito il capitolo precedente!
Auguro a tutti un buon 2010!=3