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Autore: Puffy93    04/01/2010    1 recensioni
Citazione
Nulla è per sempre, nemmeno la morte.
[parnassus, l'uomo che voleva ingannare il diavolo]


Proemio
Il gelo si stava impossessando di me, i suoi occhi color del ghiaccio mi fissavano, bramosi del mio sangue, della mia carne. Di me.
E anche se cercavo di non superare la dura regola che mi ero imposta, non pensare a lui, in quel momento non riuscivo a non farlo, lo desideravo, accanto a me. Piu di ogni altra cosa, ma lui non c’era e presto sarei scomparsa, nel buio della foresta. Come chissà quante altre milioni di persone per il mondo, da secoli.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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       Sogni Pericolosi

Lasciai vagare il discorso sui miei sogni, sull’insonnia e tutto il resto. La serata continuò tranquilla, mio padre si mise a guardare una partita di baseball. Io mi dileguai in camera mia, con la scusa dei compiti e della stanchezza. Presi il libro di storia e mi sdraiai sul letto iniziando a studiare quel che riuscivo.
La stanchezza mi travolse come una feroce onda implacabile. Gli occhi si chiusero contro la mia volontà, mentre leggevo il paragrafo su qualcosa che trattava il medioevo, cavalieri, guerrieri, Re e damigelle. L’attrazione per quel periodo storico fu irremovibile, mi seguì nel sogno, cambiando l’incubo solo in parte.

Con i miei occhi guardavo davanti a me, Non mi sentivo nel mio corpo, più come una mente vagante, senza forma. Mi trovavo in un lungo corridoio silenzioso ed antico. Le pareti erano di un bianco innaturale, il pavimento era di marmo grigio, era talmente lucido da ricordare uno specchio. Iniziai a percorrere il corridoio, non aveva fine, ne inizio, pensai anche fosse solo dritto, privo di finestre o stanze, ma mi corressi mentalmente, quando trovai una porta. Era fatta di rovere riverniciato in lucido, il pomello era fatto di cristallo; intagliato a mano. La porta di aprì di scatto, talmente all’improvviso che sobbalzai. (almeno così credevo). Dalla misteriosa stanza spuntò una donna. Lei. Il suo viso lo ricordavo nitidamente solo in sogno. Così perfetto e dolce. Ma la sua espressione non cambiava mai. Terrorizzata, spaventata, ma allo stesso momento dolce e materna. Le sue dolci linee la facevano ricordare ad un angelo. Forse era anche più bella di una creatura del paradiso. I suoi lunghi capelli corvini erano in contrasto con la sua pelle bianca come l’avorio. Le labbra erano rosate come una Rosa. Gli occhi erano di quel familiare e particolare colore. Verde giallino, quasi della stessa tonalità del miele con sfumature verdi e azzurre, i colori della terra, del mare, del cielo, della natura. Erano i miei stessi occhi. Il mio stesso e singolare colore delle iridi.
La donna, indossava un abito leggero, fatto di raso più lucido. Ricordava una di quelle camice da notte che usavano le principesse. I capelli erano appena un po’ ondulati, due ciocche erano raccolte all’indietro da un fermaglio fatto da brillanti.
Iniziò a correre, a piedi scalzi, su quel marmo gelido. Continuava a guardarsi alle spalle, come se qualcuno la seguisse, ma non c’era nessuno. Tranne me che la rincorrevo invisibile ai suoi occhi. Il corridoio aveva una fine, ed essa era una finestra spalancata, le tende bianche erano smosse dal vento. Al di là della finestra si osservava solo il blu nero del cielo notturno, senza luna, senza stelle.
La donna si fermò al davanzale, il vento gelido le sferzo sulle guance e scompigliò i capelli. Si voltò, questa volta guardava me. E mentre il suo sguardo mi raggelava, iniziai ad udire i passi di qualcuno, sempre più vicini.
«Hebany» la sua voce era melodiosa, ma qualcosa traballava da quel tono tranquillo, materno. Come se volesse dirmi qualcosa d’importante, un ricordo o un segreto.
Quando si voltò di nuovo verso la finestra spalancata, capii cosa voleva fare, scavalcò il davanzale attese due secondi. Urlai, ma ero muta, non sentivo la mia voce.
Lei si lasciò cadere nel vuoto, il vestito lungo svolazzava a gran velocità, mentre era in caduta libera verso il suolo, verso il nero. Verso il nulla.


«No!» urlai alzandomi di scatto dal letto. La fronte era imperlata di sudore, i miei capelli erano umidicci. Avevo il fiato corto, mentre quella terribile scena continuava all’infinito nella mia testa.
Solo dopo pochi minuti mi accorsi che in camera si congelava. La finestra era spalancata, facendo penetrare il gelo dell’autunno. Mi alzai dal letto e la chiusi, ma prima controllai se non fosse rotta. Perché ricordavo benissimo che era chiusa quando mi ero addormentata.
Accesi la luce che si trovava sul comodino e controllai l’ora: due e quarantacinque. Era il solito orario in cui finivo di sognare e mi svegliavo in preda all’agonia. La sua voce continuava a ripetere il mio nome, come se un disco rotto si fosse bloccato su un punto e lo facesse ripetere all’infinito. Mi misi le pantofole e scesi al piano di sotto. La casa era addormentata nel buio. Mio padre aveva dimenticato la lucetta accesa sulla scrivania di legno che si trovava in un angolo del salotto.
Quando la spensi, la casa venne illuminata di un secondo di una luce argentea. Un lampo era apparso nel cielo. Annunciando l’arrivo di un temporale. Mi diressi, come tutte le notti, in garage. Accesi la luce al neon e scesi i pochi scalini fatti di legno chiaro. Lì ad aspettarmi si trovava la grande tela bianca, ancora senza vita. Mi sedetti di fronte al cavalletto, sul cemento ruvido e polveroso, mentre fuori un tuono ruggì pieno di rabbia nel buio. Osservavo la tela, le ginocchia strette al petto. I capelli neri mi coprivano la schiena e le spalle, qualche ciocca era caduta in avanti.
All’ennesimo lampo mi alzai, ormai l’acqua aveva iniziato a cadere dal cielo notturno.
Presi un barattolo di blu cobalto e uno di bianco. Immersi nel primo un grosso pennello e iniziai a dare il colore alla tela, il blu acceso mischiato con del bianco, creava casualmente delle linee, a volte ricurve, piccole, corte, creando nella mia fantasia una forma invisibile nel colore. Un occhio, una bocca. Solo io potevo vederli con il mio occhi artistico, il quadro non era finito, ma già vedevo come sarebbe diventato, cosa avrebbe illustrato.
Lei. Mia madre. Dyamond.
«Papà, svegliati è tardi!» esclamai mentre mi legavo i capelli in una coda alta.
Lo sentii sbuffare, quando la sveglia suonò per la quinta volta. Presi la borsa della scuola e la giacca e uscii da camera mia, incontrandolo in corridoio, mentre era diretto nel nostro piccolo bagno.
«Buongiorno!» esclamai, quasi arrivando al tono stridulo di Damy.
Papà ricambiò un saluto con uno sbadiglio ed entrando nel bagno.
Scesi di sotto, diretta nella piccola cucina, con i mobili verniciati di giallo canarino, il ripiano da lavoro in marmo chiaro. Presi una confezione di cereali e la bottiglia di latte e li unii in una ciotola di ceramica verde acqua, inizia a mangiare tranquilla.
Quando misi nel lavandino la tazza sentii il campanello suonare. «Arrivò!» esclamai sciacquando la stoviglia. Andai all’entrata, mentre mio padre scendeva le scale gia in giacca e cravatta, mezza annotata.
Alla porta, come gia sapevo, era Damienn, i suoi lunghi capelli biondi era sciolti sulle spalle, indossava un cappello di lana fatto a mano da chissà quale stilista, un cappotto abbinato al berretto, le stava a pennello. «Heylà!» salutò con una mano coperta da un caldo guanto marrone.
«Entra, mi devo ancora mettere gli stivali» lasciai la porta aperta, mentre sgattaiolavo in salotto.
«Hai visto che tempaccio?» chiese raggiungendomi, proprio mentre parlava un tuono ruggì.
«Si, infatti» dissi, indaffarata a mettermi gli stivali per la pioggia.
«Bany, sai dove sono le chiavi della macchina?» domandò mio padre dalla cucina. Probabilmente stava bevendo il caffè in tutta fretta.
Mi alzai dal divanetto e frugai tra i cuscini. Le trovai quasi incastrate sotto la fodera. Mi diressi in cucina, con le chiavi in mano che tintinnavano come tante piccole campanelle, mentre Damy mi seguiva.
«Salve signor. Glawer!» salutò Damienn, appoggiata allo stipite della porta.
«Eccoti le chiavi, e non fare tardi. Ciao!» m’infilai in tutta fretta la giacca impermeabile e presi per un braccio Damy e la trascinai fuori casa.
Dovemmo correre verso l’auto per evitare di inzupparci, per fortuna non scivolai sui scalini in cotto antico ed arrivai alla macchina sana e salva.
«A quanto pare l’inverno è proprio arrivato» mormorò soprapensiero Damy, mentre accendeva il riscaldamento. «Come mai tanta fretta di andare a scuola, oggi?».
Feci spallucce, cercando di recitare la parte della finta tonta. «Così…» risposi, evitando lo sguardo accusatorio della mia amica.
«Bany…?» alzò un dorato sopraciglio continuando a fissarmi.
«Beh, sta notte ho avuto un altro sogno» iniziai, guardandomi le mani inguantate.
Sospirò e si girò verso il volante, mise in moto l’auto. «Di nuovo?» iniziammo a muoverci lentamente verso scuola.
«Si, ma era diverso» enfatizzai l’ultima parola.
«Bany, ogni sogno che fai è diverso, luogo, il tempo, i vestiti ed eccetera» sembrava dire la frase come una filastrocca, spesso mi aveva ripetuto quelle parole.
«Beh, si… Ma lui non c’era» spiegai, aspettando una parola, o sguardo.
«Capito, e cosa c’è di strano in questo? Capita che i sogni che fai non siano tutti perennemente uguali, Bany» sembrava una mamma che ripeteva la stessa cosa al proprio figlio: Niente dolci prima di cena!
«E, mia madre si è buttata da una finestra…» sta volta la fissai di sottecchi.
«Davvero?» la sua voce fu più allarmata. «Secondo te cosa può significare?» aveva aggrottato la fronte.
«Beh, questo lo volevo chiedere io a te… » ruotai gli occhi, per poi fermali sul finestrino, perlato di piccole gocce di pioggia.
«Che ne dici di parlarne con un esperto, magari sarà spiegarti il significato di questi incubi» la sua voce era incerta, non sapeva che cosa le avrei risposto.
«No, non ho intenzione di andare da un psicologo, Damy» continuavo a fissare il vetro, mentre le goccioline venivano spazzate via per colpa del vento.
«Ok, era solo un consiglio!» sbuffò.
Eravamo finalmente arrivate a scuola. Alcuni ragazzi correvano verso l’entrata con un libro in testa per non bagnarsi. Mentre il parcheggio era bloccato, tutti cercavano uno spiazzo, ma con la pioggia era più difficoltoso.
Mentre Damy si affannava per rubare il primo spiazzo che trovava, mi persi nei pensieri. Considerazioni su considerazioni, se seguire alcuni consigli, oppure No. Isolare la mente o mettermi veramente a pensare a contattare uno specialista, ormai continuavo le notti insonnie da così tanto tempo, che mi sembrava da sempre. Invece era solamente da tre mesi, e non era nemmeno poco. Da quando trovai per puro caso una foto della mamma in mezzo ad un libro vecchio che si trovava in camera di mio padre. All’inizio nel vederla credevo fosse una modella, non aveva avuto nemmeno l’idea che fosse mia madre, ma poi leggendo il suo nome sul retro capii che era lei. Mio padre non aveva la minima idea dei miei sogni, o almeno cosa vedevo nel sogno. E non sapeva nemmeno che avevo trovato la foto di mamma in un suo libro. Fin da bambina mi aveva vietato di toccare alcuno cose sue, per esempio gli oggetti chiusi nel mobiletto di legno con i vetri blu, e altre cose che non avrebbero mai suscitato curiosità ad una bambina.
«Hebany, mi stai ascoltando?» la voce di Damy mi fece riemergere dai miei pensieri. Eravamo ferme, in macchina. Era riuscita a parcheggiare, nemmeno lontano dall’entrata, la pioggia cadeva fitta sulla strada, sugli edifici, gli alberi e le macchine. Era ovunque.
«Ehm, no… Mi ero persa. Cosa stavi dicendo?» mi tirai dietro un orecchio una ciocca di capelli scuri. Stavo prestando attenzione solo da una parte, fissavo il cruscotto davanti a me, senza vederlo veramente.
«Ti stavo dicendo che oggi andiamo in centro per comprare qualcosa per la festa» spense la radio che era ad un volume molto basso, si sentiva solo un mormorio incompreso.
Annuii , cercando di sgombrare la mente. «Passeremo anche in farmacia» mormorò con quel suo tono materno.
Alzai lo sguardo fissandola negli occhi. «Grazie» mi sentivo un groppo alla gola, come quando mi svegliavo nel pieno della notte.
«Vedrai che è solo una situazione passeggera» .
Eccolo. Il motivo per cui io e Damy eravamo, e siamo amiche. Perché dopo tutto che siamo l’opposto dell’altra, che nella normalità della vita di adolescenti, due ragazze come noi si dovrebbero odiare, ma noi usciamo fuori dalla norma.
«Ora è meglio che andiamo, se non vogliamo finire in presidenza» il suo viso s’illuminò del suo sorriso sbarazzino e aprì la portiera dal lato suo.
Rimasi immobile per altri due secondi, poi la imitai.
Fuori l’aria era gelata, il respiro che facevo uscire dalla bocca si trasformava in piccole nuvolette che poi si perdevano nell’aria. Mi chiusi la giacca fino al collo e mi diressi assieme a Damy all’entrata, come tutti gli altri studenti.
«Ci vediamo a pranzo, solito tavolo!» Damy quasi urlava tra la folla che si accalcava sempre più, come ogni mattina.
«Ok!» mi voltai e mi diressi verso la classe di Arte.
La professoressa Monrow non era ancora arrivata. Sospirai e mi andai a sedere al mio posto. Alcuni ragazzi erano seduti sui banchi e chiacchieravano. Per passare il tempo continuavo a guardare qui e là, nell’aula erano appesi i migliori quadri fatti dagli altri studenti, e più li fissavo più mi deprimevo, con una scrollata di spalle spostai lo sguardo sul gruppetto davanti a me. Cercai di capire di cosa stessero parlando.
«Avete visto il ragazzo nuovo?» esclamò uno di loro, anche se frequentavo quella classe per ben tre anni, la mia memoria non aveva ancora memorizzato i nomi dei miei compagni.
«Oddio, si!» esclamò una ragazza bionda, naso all’in su e grossi occhi verdi, ricordava una barbie. «Toglie il respiro, io ci ho parlato, prima all’entrata» inarcò un sopraciglio con sguardo malizioso e condivise con l’amica un commento, che però non riuscii a capire.
«Buongiorno! Per favore prendete il vostro posto, è gia molto tardi» non era nemmeno entrata in classe e aveva gia iniziato a parlare senza fermarsi. «Vi starete chiedendo come mai sia arrivata in ritardo, beh, come sapete io organizzo molte mostre, a scuola e anche in gallerie, quindi sono molto indaffarata…» posò sulla cattedra una somma inquietante di cartelline, fogli e libri. «Ma comunque, bando a ciance e iniziamo la lezione, dunque… Chi sa dirmi cosa abbiamo fatto ieri? Non ricordo.» frase tipica che fa ogni volta all’inizio della lezione. Iniziò a frugare nella sua gigantesca, ed etnica, borsa marrone e dorata in cerca di una penna.
Qualcuno bussò alla porta, e la professoressa Monrow tutta indaffarata per la caccia al tesoro nella sua borsa esclamò:«Avanti!» e con gran baccano svuotò la borsa sulla cattedra. Nell’aula scappò quale risolino. In tanto la porta si aprì e rivelò un ragazzo alto, la pelle chiara e i capelli neri come il carbone, indossava una maglia grigio scuro, le maniche arrotolate fino al gomito. Entrò nella classe con disinvoltura, portava in spalla uno zaino vecchio e nero.
«Sono il nuovo studente…» parlò a voce bassa, appena possibile udibile da dove ero seduta io.
«Oh, si giusto… Trovata!» esclamò mentre teneva in mano la penna stilografica. «Puoi dirmi il tuo nome?» aprì il registro.
«Black Valclous». Il suo sguardo scuro e cupo mi attraversò per pochi secondi, per poi tornare a fissare con riluttanza la professoressa.
L’unico posto libero era accanto a Johnathan Tayson, cioè dall’altra parte della classe. Tutte le ragazze non prestavano attenzione alla lezione, erano concentrate ad osservare il nuovo arrivato, che non degnò di uno sguardo nessuno.
Fissavo davanti a me, scarabocchiavo con frenesia un foglio. Non osavo voltarmi dalla sua direzione, per paura di incontrare di nuovo quel suo sguardo cupo, privo di emozione o forse si. L’ora d’arte durò piu’ del dovuto, forse avevo solo l’impressione che le lancette dell’orologio appeso al muro fossero ferme.
Quando suonò la campanella fu un sollievo. Presi tutte le mie cose e mi alzai, diretta alla prossima lezione, ormai sicura che non avrei incontrato Black Valclous per almeno fino all’ora di pranzo.
Le ragazze, quella mattina non facevano altro che parlare del nuovo ragazzo, di quanto fosse bello e tenebroso. Oh si, molto tenebroso, faceva quasi paura.
«Bany! Siamo Qui!» ero impilata tra la folla, in mano reggevo un vassoio di plastica dura rosso scuro, conteneva una lattina di aranciata e una fetta di pizza con la mozzarella. Cercai con lo sguardo la mia amica. La sua voce trillava oltre a quelle degli altri studenti. Finalmente la trovai. Stava in ginocchio su una sedia, al tavolo vicino alla finestra. Si sbracciava per farsi vedere da me. Avanzai con passo lento e attento, non volevo scaraventare la mia pizza addosso a qualcuno. Così a testa bassa raggiunsi il tavolo dove si trovava Damy, assieme ai suoi amici. Mi bloccai di scatto, una mano sulla sedia su cui avrei dovuto sedermi. Sgranai gli occhi e sbiancai, nel vedere seduto lì, al tavolo dove avrei dovuto mangiare, Black Valclous. Mi fissò, con un accenno di ironia amara, la sua bocca perfetta e rosea era curvata in un sorriso.
«Bany, cos’hai? Hai visto un fantasma per caso?» Damy mi scrollò per un braccio.
Feci spallucce e distolsi lo sguardo dai suoi occhi per incontrare quelli della mia amica. «No, mi ero imbambolata».
Mi sedetti accanto a lei, tenni lo sguardo fermo sul mio trancio di pizza, sperando che per una sola volta nella vita Damy non cercasse di inserirmi nel gruppo.
«Ah, quasi dimenticavo!» esclamò all’improvviso Damienn. «Non ti ho presentato il nuovo arrivato».
Avrei tanto voluto nascondermi sotto il tavolo o magari saltare fuori dalla finestra. Fui costretta ad alzare lo sguardo.
«Black lei è Hebany, Hebany lui è Black» usò il suo tono da organizzatrice di appuntamenti ossessiva. Fissai con sguardo tremolante il ragazzo.
«P-piacere» balbettai.
«Tu frequenti il corso di arte giusto?» la sua voce era rauca ma sinuosa. Il suo viso era illuminato da un sorriso furbo.
Annuii e diedi un morso alla pizza. Di colpo mi era passata la fame. Così la lasciai nel piatto e bevvi solo un sorso di aranciata.
«Ah quindi gia vi siete visti!» Damy diede un morso alla sua mela verde e lucida. Glie l’avrei ficcata in bocca molto volentieri.
Per le ultime ore non avevo avuto un altro incontro con il misterioso Black, che a differenza dell’ora di arte – anche se non ha fatto niente di esplicito – era notevolmente cambiato nei miei confronti. Durante il resto dell’ora di pranzo ha continuato a chiedermi qualcosa sull’arte, poi su le altre materie, fino a giungere alle domande piu personali. Rispondevo meditabonda con sguardo basso. Quando finalmente capì che non mi andava tanto di continuare il suo spietato interrogatorio da curioso, mi sorrise. I suoi denti erano bianchissimi e perfetti, il suo sorriso era qualcosa di inumano. Forse era un alieno.
«Io penso che gli piaci» Damy parlò all’improvviso, mentre guidava verso il centro della città.
Mi voltai verso di lei, con uno sguardo che faceva pensare ad un enorme e significativo punto interrogativo. «A chi piaccio?» domandai con voce stridula, soffocai perfino la canzone degli AVA che trasmetteva la radio.
Damienn alzò gli occhi al cielo e abbassò il volume. «A Black, è stato per tutto il pranzo a fissarti e cercava di attaccare bottone» sorrise, compiaciuta di se stessa e della sua stramba teoria, a dir poco impossibile.
«Non dire sciocchezze Damy» tornai a fissare la città oltre il finestrino, per il nervoso iniziai ad attorcigliarmi una ciocca di capelli attorno all’indice, mio padre diceva che era un tic ereditato da mia madre.
«Non le sto dicendo, infatti!» frenò di scatto, quando un semaforo era passato dal verde al rosso. Una macchina dietro di noi suonò il clacson. «Gli piaci, direi pure parecchio». Si voltò verso di me fissandomi con quei suoi occhi celesti da barbie.
«Non ci pensare nemmeno» l’avvertii col fare tono intimidatorio, ma mi uscì male, come sempre.
«Non sto pensando a niente!» fece spallucce e fissò davanti a sé. Il semaforo divenne di nuovo verde e ritornò a guidare. Incominciò a canticchiare, il suo eccessivo buon umore mi metteva paura, piu di Black Valclous.

  
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