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Autore: Leyla Malfoy    06/01/2010    0 recensioni
Hogwarts...all'epoca dei malandrini... sogni, conquiste, speranze e avventure dei Serpeverde e dei Grifondoro all'epoca dei Malandrini
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: I Malandrini, Lucius Malfoy, Nuovo personaggio, Rodolphus Lestrange, Serpeverde
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tra Erica e Peonie

Come al solito fu un incubo, e come in ogni incubo che si rispetti pioveva talmente tanto che i contorni delle cose erano confusi, sfocati. Naturalmente, questo non era per niente rilevante agli occhi di sua madre, che si riparava sotto un ombrellino di pizzo con tale grazia da ricordare un balletto classico. Rosnake si copriva la testa con la Gazzetta del Profeta, sussultando ogni volta che un rivolo d’inchiostro sciolto le si infilava nel colletto. Sperò almeno che a bagnarle il reggiseno fosse un articolo di politica estera e non la pagina degli annunci.

“Il mio cuore è nelle Highlands!” dichiarò drammaticamente Rodolphus, scostandosi dal viso i riccioli bagnati. “Il mio cuore non è qui. Il mio cuore è nelle Highlands, a inseguire il cervo…” Mano sul cuore, occhi scintillanti. Come naturale, sua madre se la bevve tutta.

“Che Merlino mi fulmini!” miagolò “Mio figlio è diventato un poeta!”

-Che Merlino mi fulmini!- pensò Rosnake, senza stupore. -Mio fratello è diventato un idiota!-

“Possiamo andare” decretò a quel punto Rabastan e, lottando contro la voglia di scoppiare a ridere e contro la sorella maggiore, che aveva optato per la resistenza passiva, scaraventò il proprio gufo e la stessa Rosnake nella carrozza.

Un morso. Morsichino piccolo, piccolo al polso, che soddisfazione enorme… così avrebbe capito che era sempre e comunque il più giovane…

“Animale! Mi hai morso!” Rosnake sfuggì alla presa di Rabastan buttandosi sotto il sedile imbottito. Rodolphus si sedette a cassetta e la Reverendissima Madre, composta come una regina in trono, occupò il proprio posto ordinando a Jean-Jacques, per l’occasione riciclato cocchiere, di partire. Erano in marcia, rivolti verso la tenuta. Il nome della tenuta era Scarburough Fields, e il termine “tenuta”, pomposamente usato dai genitori dei ragazzi, stava ad indicare un vasto appezzamento di terreno con al centro un imponente castello, che molti secoli prima era stato la residenza del signore del clan La Sange, uno dei più influenti nella Scozia medievale magica. Negli anni, quel cognome era stato storpiato fino a diventare Lestrange, altrettanto esotico e altrettanto influente nella buona società di Londra. I tre fratelli erano i più giovani discendenti diretti del signore La Sange, il che significava che, alla morte del padre, la tenuta sarebbe stata legalmente proprietà di Rodolphus, il più vecchio di loro. E, pensò Ros, con un po’ di fortuna lui se la sarebbe tenuta tutta per sé. Dal momento, comunque, che per fortuna suo padre era vivo e vegeto (più che vegeto vegetante, considerato lo stato di mutismo in cui si chiudeva per reazione ai continui sproloqui della moglie), Scarburough Fields era affidata a lui, e questo significava che i rampolli della casata erano costretti a trascorrere le vacanze persi nelle Highlands.

A Rosnake la Scozia piaceva. Adorava la natura indomita e selvaggia, la commuovevano i laghi che cambiavano colore a seconda di quello del cielo, si riempiva ferocemente i polmoni di aria marina appena arrivavano in vista della riva e simpatizzava con le pecore, non foss’altro perché sua madre le detestava. Amava molto il parco della tenuta, con il sapore amarognolo con cui si ama ciò che ci ricorda felici tempi passati. Anche se lei non aveva l’abitudine di delirare per la strada, il suo cuore viveva davvero tra l’erica inseguendo i cervi.

La madre dei tre fratelli era una donna per molti aspetti ammirevole, bellissima, intelligente e mite, ma per qualche oscuro motivo le Highlands avevano su di lei l’effetto che ha la pozione sul dottor Jekill: la trasformavano completamente. Forse per il suo sangue greco che prendeva il sopravvento, le manie di grandezza, di solito non poi così gravi che la caratterizzavano, tendevano ad esplodere il giorno della partenza, nel preciso istante in cui il povero Jean-Jacques, maggiordomo, tuttofare e, all’occorrenza, cocchiere, (“una perla rara”, salvo l’abitudine piuttosto spiazzante che aveva di parlare di sé in terza persona) tirava fuori la ridicola carrozza nera e argento su cui si spostava l’intera famiglia: scomoda, vistosa e “così romantica”.

In quel momento, Ariadne Lestrange imboccava una tortuosa scala che la portava a compiere bassezze quali far mangiare tre adolescenti piuttosto selvatici con le posate d’argento. All’improvviso, la cosa più importante diventava la purezza della stirpe, il fine ultimo lo sfarzo, la qualità più apprezzabile la buona educazione, osservata con scrupolo, tranne che per la clausola “non fare troppo sfoggio di quello che hai”. In pratica, nel castello di Scarburough si viveva come in “Orgoglio e Pregiudizio”, il che non era un problema per Rodolphus, chiaramente predisposto a recitare la parte del nobile neanche poi tanto decaduto, né per Rabastan, abbastanza ieratico da lasciarsi scivolare tutto addosso come pioggia. Arrivati al terzo giorno, Rosnake cominciava ad avere qualche crisi di panico per il timore di impazzire.

Finché la secondogenita dei coniugi Lestrange era stata una bambina, la sua diversità da qualunque altro membro della famiglia era passata in gran parte sotto silenzio. Nessuno parve notare che quella ragazzina gracile, incapace di alzare la voce, passava molto tempo da sola, mangiava quasi solo porridge e parlava con le piante. In fondo, non dava fastidio, mentre c’erano due maschietti molto vivaci a cui badare. Quando, a undici anni, Rosnake partì per iniziare gli studi in campo magico, fu subito chiaro che la sua infanzia trascorsa in gran parte in compagnia di gatti e peonie aveva lasciato qualche segno. Apriva bocca di rado, e quasi sempre per pronunciare brevi frasi contorte che sembrava aver ponderato per molto tempo. Si nutriva di succo di zucca, caramelle al rabarbaro e burro. E, cosa più sconvolgente di tutte, non faceva minimamente caso a cosa indossava, come si comportava e che impressione dava. Con gli anni, tutte queste bizzarrie si erano molto stemperate, anche grazie agli amici che la ragazza si era fatta: l’essere strana non bastava a distogliere l’attenzione dal suo cervello vivace e dal temperamento affettuoso e gentile. Quello che non era cambiato per nulla, a parte la passione per il rabarbaro, era l’assoluto disinteresse che Rosnake ostentava nei confronti dei numerosi privilegi impliciti nella sua condizione di figlia di una grande stirpe della nobiltà magica. Soldi, potere; nah, non era roba per lei. A Ros piaceva andare in giro in jeans, montare a cavallo, camminare per ore e stare a guardare gli insetti tra l’erba. E appena arrivavano alla tenuta la sua cara mammina, che di solito accettava senza fiatare qualunque stravaganza, di colpo pretendeva di far diventare “la sua ragazza” una sorta di damina uscita dalla penna di Jane Austen.

Assorta in cupi pensieri, Ros si trovò spiazzata quando la carrozza si fermò con uno scossone.

“Eccovi nelle terre che vi appartengono da cinquecento anni!” esclamò orgogliosa Ariadne. Eccoli nelle terre che erano il suo terrore da sedici anni.

Si massaggiò la fronte con le dita, e ricevette uno scappellotto dal suo adorabile fratello minore. “Muoviti, Snake, scendi!” Rabastan aveva l’aria decisamente provata; chiaramente non vedeva l’ora di rimettere i piedi sulla solida terra. Poverino, aveva sempre sofferto di malesseri legati al movimento. Dal canto suo, Rodolphus aveva aperto la portiera alla madre con un piccolo inchino, e sorrideva, perso nella nube del proprio non trascurabile fascino. Che figlio perfetto. Passando, la ragazza gli allungò una bella gomitata nelle costole. La signora Lestrange, già del tutto immedesimata nel suo ruolo di nobildonna delle Highlands, si volse composta verso il castello che, splendido nella sua severità, li osservava, abbarbicato al promontorio roccioso. Ros, girata nella direzione opposta, fissava il ponte di pietra che avevano appena attraversato, unico collegamento tra il mondo e l’isola petrosa su cui si trovava Scarburough Castle. In quel momento, i signori McPherson, secolari domestici dei Lestrange, vennero ad accoglierli tra mille sorrisi. Il signor McPherson, un uomo massiccio, dal viso nodoso come un tronco d’albero, si fece aiutare da un Jean-Jaques dignitosamente contrariato a trasportare i numerosi bauli nelle camere da letto. Rab si vuotò lo stomaco dietro una siepe, sua madre andò a massaggiargli la fronte con piccole pacche di conforto, l’anziana cameriera corse dentro insieme a Rodolphus, a cercare pezzuole imbevute d’acqua di colonia e simili. Era il momento. Nessuno poteva notarla. Nessuno badava a lei.

Con il cuore che pulsava nelle orecchie, Rosnake si sfilò le scomodissime scarpe e corse tra i cespugli, controllando di non essere vista. Aggirò il castello senza rallentare e si gettò dentro da un ingresso posteriore, che dava su una ripida scalinata di pietra. La salì a due a due, il fiato corto, e finalmente si trovò nel corridoio su cui si affacciava la sua camera. Entrò, silenziosa e tesa, e si chiuse la porta alle spalle. Era al sicuro.

Sospirando di sollievo, si strappò di dosso con autentica furia l’abito di broccato color sabbia che aveva rinvenuto con orrore sul letto quella mattina, contenta di veder saltare due bottoni. “Completo da viaggio”, l’aveva definito sua madre, con un enfatico sorriso. Orrenda costrizione che le impediva di rilassarsi, divertirsi e, nel peggiore dei casi, fuggire agli stupratori. Per fortuna, i domestici di famiglia erano selezionati in base alla loro efficienza, e il suo baule, peraltro un po’ ammaccato, era già lì, insieme al cesto di Midnight. La ragazza liberò il gatto, che si stiracchiò con voluttà prima di acciambellarsi sul grande letto a baldacchino. Almeno lui era di buon umore. Sul fondo del bagaglio, ben nascosti agli occhi di sua madre, Ros aveva sistemato un paio di vecchi jeans sdruciti, camicia a quadri appartenuta a Rodolphus e scarpe da ginnastica così distrutte da aver perso parte dell’imbottitura. Meravigliosi abiti. Ti trafiggono il cuore. Si cambiò, afferrò Middy sotto il braccio e uscì di nuovo, silenziosa come ombra.

Le scuderie del castello erano poco lontane dall’edificio principale, oltre un pezzo di prato. Le raggiunse in pochi attimi e, lottando per prendere il respiro, si gettò verso l’ultimo box, che conteneva una delle sue migliori amiche al mondo.

“Artemis!” gridò, ma molto piano, per non farsi sentire. La giovane femmina di mustang nitrì di gioia, il muso marrone scuro levato al soffitto. La sua padrona era tornata! Non vedeva l’ora di galoppare, di galoppare lontano, verso l’orizzonte. Rosnake non la deluse. Le mise i finimenti con pazienza, le diede una mela, sistemò il gatto nella bisaccia della sella. Stava per prendere le redini e portare fuori la cavallina, ma la porta della scuderia si aprì.

“Sapevo che eri qui!” Rabastan, ancora un po’ pallido, le sorrise. Non sembrava armato di cattive intenzioni, ma sua sorella gli rivolse lo stesso uno sguardo truce.

“Io non torno!” sibilò. “Non puoi obbligarmi, non voglio rientrare fino  all’ora di cena, possibilmente anche oltre, chiaro? Se vuoi acciuffarmi, okay, ma dovrai farlo con la forza!”

“Veramente” rispose il ragazzo, amabile “Ti ho portato dei biscotti.”

Con una traccia di strisciante senso di colpa, Rosnake notò la scatola di latta che suo fratello teneva in mano, ma decise di non abbandonare del tutto la linea del sospetto.

“Bene” borbottò, brusca, sfilandoglieli di mano. “Sparisci.”

“Neanche un grazie?”

“Non dire a nessuno che mi hai vista!” gli ordinò, mandandogli un bacio veloce.

Cavalcò per miglia e miglia, la schiena a pezzi, sorretta solo dalla smania di allontanarsi il più velocemente possibile da tutto ciò che riguardava Scarburough Castle. La voglia di fuga le bruciava nei polmoni come acido, la spingeva avanti, miglio dopo miglio. Lontano. Lontano da quei vestiti odiosi, dai cerimoniali avvolti nella polvere, lontano dalla propria vita. Era così che Rosnake sopravviveva, in Scozia: scappando. Passava le giornate persa nella brughiera, stordendosi di fatica per non pensare a nulla, o contemplando il mondo, appollaiata sul glicine.

Il glicine era un ricordo del tempo che fu, piantato, a quanto si diceva, dalla trisavola dei tre ragazzi, e cresciuto forte e rigoglioso, nonostante il rigore del clima. A maggio, nella stagione della fioritura, si ricopriva di fiori viola dall’odore stradolce, gravidi di nettare, ma ora, in pieno agosto, altro non era che un tronco ritorto, coronato di rami spogli. Arrampicarsi era facile. Ros tolse le scarpe, e dopo aver liberato Middy e Artemis (non si allontanavano mai troppo, proprio lì vicino c’era una sorgente d’acqua fresca che li attirava entrambi) si issò sui rami più alti, comoda come in una poltrona. Sarebbe riuscita a sopravvivere lassù fino all’arrivo dei Malfoy?

  
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