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Autore: Bardunfula    09/01/2010    1 recensioni
Devo parte dell’ispirazione per questa fanfiction a ‘The Portrait of the Unknown One’, una fanfiction che l’utente Lemondropseverus ha pubblicato sul sito www.fanfiction.net .
Il resto è opera mia.
La fiction è ambientata nell'Inghilterra di Enrico VII, ma non segue necessariamente il corso 'veritiero' degli avvenimenti storici che tutti noi conosciamo.
Caterina d'Aragona ed Enrico Tudor sono sposati da cinque anni. Hanno già una primogenita, Maria, e sono in attesa del loro secondogenito.
Sarà, finalmente, un maschio?
I personaggi della fic, alcuni sono realmente esistiti, altri no.
Buona lettura, e commentate :)
Genere: Generale, Storico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Periodo Tudor/Inghilterra
Capitoli:
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A Queen's Daughter - Timeo Danaos et dona ferentes

Ottobre/ Novembre 1530 – Timeo Danaos et dona ferentes

 

“Allora!?”
Spazientito, infreddolito ed enormemente innervosito, Enrico Tudor andava avanti e indietro da un po’, in attesa che il suo generale gli desse notizie confortanti. L’assedio a Edimburgo durava da mesi, oramai, e la città non solo resisteva, pur con difficoltà, ma aveva fiaccato la tempra ed il coraggio inglesi e francesi. Quest’ultimi, suborando ormai una sempre più possibile e vicina ritirata, da qualche settimana avevano preso ad impegnarsi di meno nelle scaramucce che di tanto in tanto si verificavano con le milizie scozzesi a difesa delle città.
“Maestà, mi dispiace, ma non riusciremo a passare anche l’inverno qui. O l’assedio diventa conquista, o sarà bene ritirarci.” Affermò sir Dacre, comandante in capo delle forze inglesi. Il Sovrano guardò l’uomo di fronte a sé e non rispose. A dispetto della sua assai giovane età, egli era uno dei comandanti più esperti e capaci. Suo padre Thomas era stato uno dei comandanti delle forze inglesi che avevano combattuto contro gli scozzesi a Flodden, sotto il comando di Caterina, più di quindici anni prima, e conosceva come nessuno la Scozia.
“Cosa?!?” Gridò Enrico, all’improvviso. Era paonazzo in volto, e la vena sulla tempia destra pulsava pericolosamente. Le mani davanti a sé, quasi pronte a afferrare qualcosa, o qualcuno, il Re sembrava sul punto di svenire. Sir Dacre lo guardò impassibile, senza farsi intimidire dal quel comportamento. Sapeva che Enrico era abituato ad ottenere quello che voleva e che la collera era uno degli elementi propri del Sovrano, elemento che portava i suoi interlocutori a ritirarsi in fretta, dandogli così le battaglie vinte.
Il comandante tuttavia, era fermamente deciso a non cedere. Conosceva in modo più che approfondito la situazione dell’esercito e cosa le truppe desideravano, al di là del dovere e della formale obbedienza al Re. Inoltre sapeva fin troppo bene che le forze inglesi non avrebbe mai potuto permettersi un inverno lontano da Londra. Non dopo mesi d’assedio inconcludente, per giunta. I soldati erano allo stremo e fra di essi serpeggiava, notevole, il malcontento.
Mentre il Re andava senza costrutto da una parte all’altra, come un animale in gabbia, sir Dacre lo guardava in silenzio, rimpiangendo il fatto che al suo posto non ci fosse la moglie, la Regina Caterina.

“Che state facendo?”
La voce dello zio sorprese, e non poco, Anna. La giovane fece di tutto per nascondere la missiva che aveva fra le mani, ma gli occhi del duca di Norfolk la scrutavano con molta attenzione, non perdendo un solo gesto di quelli da lei compiuti.
“Che dite, zio?” Fece lei, per guadagnare tempo, e sfoderando uno dei suoi proverbiali e fintamente ingenui sorrisi. “Non sto facendo nulla..”
“Cos’è ciò che avete fra le mani? Datemelo un po’..” Ribatté lui. Tanto fece e tanto disse che riuscì a strapparle dalle mani la pergamena. Dopo una rapida occhiata vide il sigillo reale e capì il guaio in cui la nipote si stava cacciando, anzi in cui era dentro fino al collo. “Questo è tradimento, Anna!! Possibile che siate così sciocca?” La apostrofò, cercando di tenere il volume della voce basso, e trascinandola in un angolo del palazzo, nel tentativo di evitare occhiate indiscrete.
“Suvvia zio, non vorrete mettere nei guai la vostra nipotina prediletta..” Lo ammansì lei, facendogli gli occhi dolci e piegando da un lato il viso, in un broncio che lui le aveva visto fare migliaia di volte.

 

“Che diavolo succede?” Sbottò Enrico. In lontananza si udivano grida incomprensibili e rumori, come se qualcuno stesse protestando con una certa forza. Sir Dacre ed il duca di Suffolk fecero per avvicinarsi, ma poi un messaggero venne loro incontro.
“Maestà!! Maestà!!” Chiamò a gran voce. “I francesi si stanno ritirando!! Il loro Re ha dato ordine di ritirare le truppe!”
Per un istante Enrico sentì la terra mancare da sotto i piedi. Era perduto! Senza l’aiuto e le forze dei francesi non avrebbe mai potuto completare l’assedio, con l’inverno ormai alle porte poi. Il suo ragionamento durò tuttavia solo lo spazio di pochi secondi; qualche attimo dopo, il fuoco della collera lo investì in pieno. Senza nemmeno rispondere alle domande dei suoi uomini, corse verso il primo cavallo disponibile e partì al galoppo. Sir Dacre e Charles Brandon si guardarono smarriti, ma con una successiva espressione del volto così chiara che non ci fu bisogno di esprimere a parole ciò che sentivano. Ancora una volta, il Re d’Inghilterra dimostrava di essere in totale balia di emozioni e sentimenti; era talmente sopraffatto da essi che non si curava nemmeno di nasconderli ai suoi sottoposti, dando costantemente l’idea di un uomo ondivago, umorale e tutt’altro che fermo e deciso.

 

 
“Sono perduto Charles..”
Seduto su un tronco cavo, le mani alle tempie ed il viso basso, Enrico Tudor scuoteva il capo, mestamente. Era ormai notte alta e fino a pochi istanti prima di fronte a lui c’era un messaggero. Per tutto il giorno non aveva fatto altro che mandare missive su missive, alla moglie, a Francesco di Francia, a Thomas Bolena ed a Thomas More, e per tutto il giorno non aveva fatto altro che attende le loro risposte. La situazione era davvero sull’orlo del disastro completo.
“Non mi ha risposto nessuno.. Non Caterina, non Bolena.” Mormorò il Re, gli occhi bassi e sconsolati. Charles lo guardò con una pena infinita. In questi momenti Enrico sembrava mostrare tutta la sua inadeguatezza. “E nemmeno Thomas.. quanto a quel traditore di Francesco, gli ho detto chiaro e tondo che se non avrò le truppe promesse non esiterò a rompere il fidanzamento tra Maria e suo figlio.”
Il duca non rispose e continuò a fissare il Sovrano smarrito. Cosa poteva mai dirgli? Come poteva fargli capire che si stava mettendo in una posizione estremamente difficile, e che una decisione del genere poteva essere nociva per l’Inghilterra? Quali parole poteva usare per convincerlo a ragionare ed a non prendere tutto sempre di petto?
Certo, Francesco non era stato certo corretto a ritirar le truppe senza aver detto nulla al suo alleato, nonché futuro suocero. Brandon questo lo sapeva e non cercava giustificazioni per il sovrano francese, tuttavia.. tuttavia Enrico, come suo solito, si faceva prendere dai nervi, invece che organizzare un piano o blandire le persone che avevano abbandonato la sua causa. Invece di avvicinarsi a loro, finiva regolarmente con lo scontrarcisi. E questo, in politica e in amore, era sempre deleterio.
“Maestà, vi prego, ragionate..” Gli disse l’amico, asciutto e deciso. “Avete il Paese nelle vostre mani. Fate in modo che questo assedio non sia la nostra tomba e la nostra rovina.”

 

“Ne siete davvero sicuro, Gordon?” Giacomo V di Scozia fissò sir Gordon Fitzwilliam, il comandante in capo dell’esercito e suo amico di lunga data.
“Sì, sire.” Rispose quello, sicuro ed annuendo leggermente. “Enrico vuole la pace. Dice che ci siamo difesi con onore e che i due eserciti si bilanciano perfettamente, quindi per non fare altre vittime, ci offre la pace.” A quelle parole, gli occhi blu scuro del Re scozzese scintillarono di disprezzo e di orgoglio represso. La mascella si contrasse e poi rise sonoramente.
“I due eserciti si bilanciano perfettamente? E come è che lui ci offre la pace e non prosegue nell’assedio?” Chiese Giacomo. Sir Fitzwilliam sorrise a sua volta, senza rispondere alla domanda retorica del suo Sovrano.
“In realtà, sire, l’esercito inglese è sull’orlo della ribellione..” Confidò chinandosi verso di lui ed abbassando notevolmente il volume della voce. Il sorriso cui la bocca di Giacomo si aprì, illuminò il suo volto. Era oltremodo soddisfatto. Enrico aveva un esercito ben più numeroso e di sicuro meglio attrezzato, ma in un assedio la maggiore abilità non contava poi così troppo. Inoltre i soldati inglesi erano lì da mesi, con l’inverno ormai alle porte e senza l’appoggio degli improvvisati alleati francesi, la loro situazione era andata mano a mano peggiorando. La ribellione quasi minacciata dalle truppe, doveva essersi prima manifestata con un malcontento sempre più generalizzato e profondo, che alla fine aveva fatto abbassare la cresta al leoncello inglese. A Giacomo non parve vero di avere il destino di Enrico nelle sue mani. Il suo primo istinto fu quello di rifiutare l’offerta di pace del suo ‘collega’ e di fargli proseguire l’assedio fino alle estreme conseguenze. Ma poi pensò che anche Edimburgo non era messa molto meglio dei soldati di Enrico. La città non aveva rifornimenti da qualche settimana e le scorte non sarebbero durate che per poco tempo. La cosa più saggia era accettare l’offerta e sfruttare il fatto che fosse stato Enrico il primo a cedere ed a rendere in un certo senso le armi..
“Bene, sir Fitzwilliam, fate sapere a Sua Maestà che accettiamo la cessazione delle ostilità e ci rendiamo disponibili per negoziare i termini di un accordo vantaggioso, per entrambe le parti..” Disse solennemente Re Giacomo, alzandosi dal proprio scranno, ben deciso a sfruttare fin in fondo quell’opportunità. “Fate sapere a Sua Maestà che lo aspettiamo quanto prima a palazzo.”

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“Mia Regina, e mia sposa adorata..”
Mormorò Enrico ponendo sul capo della moglie la corona che apparteneva alla moglie di Giacomo. Il Re aveva percorso il lungo corridoio della sala del trono lentamente e come se ogni passo fosse di vitale importanza. Caterina, in piedi davanti allo scranno e con indosso gli abiti più preziosi che aveva, l’aveva aspettato con un’espressione sul volto di orgoglio e di felicità.
Subito i consiglieri dei due sovrani, Maria ed Isabel ed i cortigiani che avevano trovato posto nella sala, proruppero tutti in grida di entusiasmo e di gioia. Quando Caterina ebbe completato la riverenza che spettava al Re, scoppiò un applauso fragoroso e di liberazione, mentre il ciambellano annunciava che i due Sovrani d’Inghilterra erano appena diventati anche Sovrani di Scozia.
Quando Enrico si sedette, prima Maria ed Isabel, quindi i consiglieri ed i nobili sfilarono uno ad uno a rendere loro omaggio. Successivamente fu la volta dei capi dell’esercito e della marina inglese, quindi di tutti coloro che collaboravano con Enrico e con Caterina, pur non avendo incarichi specifici a corte. Mano a mano che sfilavano coloro che avevano accompagnato il Re in Scozia, Isabel si sentì sempre più triste. Sir Knivert non era più fra loro e il suo cuore era davvero in lutto. Durante la lunghissima sfilata di fronte al Re aveva cercato di trattenere la commozione e le lacrime, riuscendo in modo egregio. Ma quando i valletti sfilarono reggendo dei cuscini su cui erano posate le insegne dei comandanti morti durante la guerra in Scozia, fu decisamente più dura. All’improvviso, all’inizio del lungo corridoio comparve il cuscino con le insegne di sir Anthony ed Isabel si sentì gli occhi in fiamme, letteralmente. Deglutì diverse volte e cercò in tutti i modi di ricacciar giù le lacrime, di secondo in secondo sempre più urgenti, ma badò contemporaneamente di non lasciar trasparire il proprio stato d’animo.
Quando il valletto che reggeva il cuscino arrivò davanti al trono, inaspettatamente, Enrico di scatto si alzò in piedi e poi, prima che potesse dominarsi, scoppiò in lacrime. Sconvolto dalla propria reazione, si coprì gli occhi con la mano, ma riuscì solo a piangere più forte.
Intuendo il momento difficile del marito, subito Caterina lo imitò, alzandosi a sua volta, seguita da Isabel e Maria. La Regina posò con dolcezza la mano sul polso del marito, stringendolo un poco, e dopo alcuni istanti egli si calmò, proprio mentre il cuscino sfilava via.

 

Dopo tanti mesi, i Sovrani e le figlie cenarono assieme, in forma strettamente privata.
Isabel non ricordava nemmeno quale fosse stata l’ultima occasione che li aveva visti tutti assieme, ed al medesimo tavolo, ma ora, nel guardare i suoi genitori, si rese conto che era bellissimo ritrovarsi a quel modo. Suo padre, dopo la forte ed inaspettata commozione, si era ripreso assai bene, aiutato come sempre dalla Regina, che anche in quella occasione non gli aveva fatto mancare il suo supporto. Enrico era un pochino pallido, gli occhi erano ancora rossi, ma sul suo viso aveva cominciato a comparire un tenue sorriso. Seduto a capotavola, dopo aver chiacchierato con Maria, che gli sedeva alla destra, di cosa sarebbe stato dei preparativi del suo matrimonio, volse i suoi occhi blu su Isabel, che come sempre sedeva accanto a Caterina.
“Vi dobbiamo molto, Vostra Altezza..” Mormorò solamente, guardandola intensamente, dopo aver posato gli occhi sulla moglie. Isabel, che stava per mettere in bocca un pezzo di carne infilato in uno stecco, rimase con la sinistra a mezz’aria, la posata stretta ancora nella mano, incapace di rispondere. Aveva immediatamente percepito la solennità di quella frase. Con l’angolo dell’occhio vide sua madre girarsi verso di lei e guardarla con orgoglio ed affetto indicibili. “Vi dobbiamo davvero molto..” Ripeté suo padre con gli occhi lucidi ed Isabel, istintivamente, aprì la bocca per rispondergli e ringraziarlo. Ma poi le parole non vennero, tanta era l’emozione al ricordo dei giorni tremendi in cui la vita di sua madre era stata appesa ad un filo sottilissimo; lei abbassò lo sguardo, quindi il viso, restando in silenzio. Fu Caterina, ancora una volta, a fare da tramite fra il Re e le persone che lo circondavano, fossero essi consiglieri, nemici, sudditi in generale, o le proprie creature. La Regina allungò il braccio verso Isabel e posò la mano sul fianco sinistro della figlia, quasi volesse avvicinarla ancora di più a sé; le labbra di Caterina prima furono sulla sua tempia poi vicino all’orecchio, come a mormorarle qualcosa. Le guance di Isabel si colorarono di rosso e la fanciulla, piegando il viso verso la bocca della mamma, abbassò e poi chiuse gli occhi, commossa.
Enrico le osservò assieme e dovette ancora una volta ammettere con se stesso che avevano un’enorme confidenza ed un bellissimo e profondo legame. Il modo in cui la figlia aveva cercato in tutti i modi di salvare la vita della madre gli era stato raccontato, con dovizia di particolari da più parti. Ora l’una fonte, ora l’altra aveva esaltato questo o quel particolare aspetto della vicenda, ponendo in luce, di volta in volta, il coraggio, la ferma decisione, la dedizione, il geniale intuito della figlia, ma tutti avevano concordato su particolare: Isabel aveva davvero salvato la vita di sua madre, e molto probabilmente anche il suo regno.
Se Caterina fosse morta, Enrico se n’era reso subito conto, l’Inghilterra, con lui lontano, sarebbe precipitata nel caos ed i suoi nemici interni, non meno pericolosi e scaltri di quelli esterni, avrebbero cercato di prendere il sopravvento, e forse ci sarebbero pure riusciti. Enrico Tudor era consapevole che il suo mondo aveva rischiato la distruzione, non solo per opera del sudor. Il Sovrano aveva ammesso che la figlia da lui sentita distante sotto diversi punti di vista, incluso quello affettivo, era stata quella che aveva contribuito a rimettere le cose in carreggiata e gli aveva letteralmente permesso di continuare ad avere un regno. La sorte non era stata certo un accessorio in tutto questo, era ovvio; Isabel era stata fortunata, e non poco, ma si era resa più utile di Maria ed era stata più fredda nel gestire la sua parte di guai e di incombenze. Anzi, quasi s’era scelta il compito più difficile.
“A cosa pensate, amore mio?” Gli sussurrò Caterina, posando una mano sul suo polso ed accarezzandogli il viso. Come se si fosse risvegliato da un sonno lungo qualche istante, Enrico posò gli occhi su lei e rispose al suo sorriso.
“A quanto sono fortunato, Caterina.” Mormorò, accarezzandole una guancia con il dorso della mano. “A quanto io devo a voi, ai miei fidati consiglieri, ai nostri amici fedeli. Ed anche a nostra figlia..” Aggiunse, con un tono di voce che Caterina raramente gli aveva sentito. Non era solo dimesso e tenero, era davvero coinvolto e partecipe in quello che stava vivendo.
“Sì..” Annuì Caterina. “Tutti i nostri amici ci sono stati pienamente fedeli, Enrico. Ognuno ha portato avanti il proprio compito al meglio..” Confermò ancora la Regina.
“Ma Isabel..” Sorrise Enrico, guardando la figlia che nella sala accanto si esercitava con la sua viola da gamba ed eseguiva un rondeau, mentre Maria le mostrava i passi che aveva visto esser danzati in Francia.
“.. ci ha stupiti..” Proseguì Caterina, seguendo lo sguardo di Enrico e osservando anche lei Isabel. “Non hai idea di quanto sia maturata in questi mesi, e di come si sia impegnata nei suoi uffici e nei suoi doveri..”
Enrico sospirò ed annuì silenzioso. Sapeva tutto. Sir More, ma anche Mastro Hilliard ed il Vescovo Fisher gli avevano detto della crescita della figlia, e del suo contributo fattivo non solo nei suoi studi, ma anche nelle attività dei vari spedali. Quello che Isabel aveva fatto a Lambeth non era stato un caso. Il posto che lei aveva implorato con insistenza e durissima caparbietà non era stato l’infatuazione di un istante per una disciplina del tutto particolare ed affascinante come la medicina. Isabel aveva del talento e capacità vere. Come Caterina mesi prima, anche Enrico giunse alla conclusione che la figlia si stava avviando ad una splendida maturazione e poteva davvero migliorare la vita delle persone con cui entrava in contatto. L’aveva spesso sottovalutata, ritenendo che fosse semplicemente la piccola di casa, da coccolare e vezzeggiare, oltre che educare e disciplinare. Fino a che lui era stato a Londra la sua secondogenita era un cucciolo a cui dare comandi e moine, a seconda dei momenti; testarda, cocciuta e sincera fin quasi all’impudenza, Isabel alternava a questi atteggiamenti quelli in cui era solo una ragazzina spaventata, pronta a saltare in grembo a sua madre al primo alito di vento, che per anni aveva vissuto lontano dal luogo che chiamava casa, in balia di persone che l’avevano percossa, umiliata e trattata male. In pochissimi mesi si era avviata una trasformazione gigantesca. Caterina doveva esserne stata l’artefice principale, Enrico lo sapeva, ma anche Thomas More, il Vescovo Fisher ed il dottor Griffith dovevano aver avuto una parte considerevole. Per un attimo il Re si intristì al pensiero che lui non aveva visto nulla di tutto questo, e si trovava davanti al ‘prodotto’ finito. Per un istante il Sovrano avrebbe voluto essere un padre che vede con i suoi occhi i primi passi incerti di sua figlia, per poi osservarla andare sempre più sicura, sempre più spedita, sempre più veloce.
“Mi chiedo se quello svedese imbecille riuscirà a farla felice..” Mormorò Enrico. Caterina, che stava osservando Isabel, si voltò verso di lui. Era la prima volta che Enrico nutriva perplessità nei confronti di sir Sten; le sue parole sembravano più un pensiero a voce alta, sfuggito per caso, che una considerazione vera e propria. La Regina, però, non si fece scappare l’occasione e dato che si era aperto un varco, pur minimo, decise di sfruttarlo a pieno. Con lui era inutile dirgli cosa fare o addirittura imporre una qualche volontà. Era molto meglio fargli balenare in mente un ventaglio di soluzioni e con astuzia instradarlo verso una in modo particolare, quasi che fosse stato lui a scegliere quella strada.
“Avete qualche dubbio, Maestà?” Chiese lei, fingendo un’ingenuità ed un candore che non aveva.
“Non so..” Rispose perplesso Enrico, come se già non fosse più sicuro. “E’ come se vedessi mia figlia per la prima volta. Non è la bambolina che pensavo. E’ una creatura dalle mille risorse.” Proseguì, ora più sicuro. Caterina cercò di mascherare ad ogni costo il proprio trionfo. Era una vittoria importantissima, pur in quelle condizioni. Il dubbio aveva iniziato a farsi strada nella sua mente e questo era già tanto.
“Sì, lo è.” Confermò Caterina. “E’ una creatura davvero meravigliosa, una figlia devota e amorevole, Enrico, ed una suddita fedele e tenace. La sua mente è una risorsa per questo Paese, e l’impegno che mette in ciò che fa è ammirevole, considerando che è ancora poco più che una bambina.”
A quelle parole Enrico sorrise. L’attaccamento di Caterina per la loro secondogenita era così evidente, tuttavia lo commuoveva.
“Fosse per te, la faresti stare sempre qui in Inghilterra, non è vero?” Disse, provocandola un po’, ma continuando a sorridere. Non la stava rimproverando e fece attenzione affinché anche Caterina lo notasse. La Regina spostò gli occhi dalla figlia a lui e sorrise, arrossendo e rendendosi conto della propria parzialità.
“Fosse per me, non dovrebbe mai lasciar Londra.” Corresse lei, con un sorriso malinconico e la sensazione che il tempo stesse scorrendo via ad una velocità pazzesca. “Né questo palazzo.” Ammise infine ridacchiando. Enrico rise a sua volta. In quei mesi anche Caterina aveva subito una trasformazione, o almeno così gli sembrava. La moglie era più portata al sorriso, meno depressa, e aveva come sempre mostrato un piglio da vera Regina guerriera. Aveva tenuto il Paese in mano al meglio, considerando le molteplici sollecitazioni ricevute.
Mamà, sentite che impudenza!” Esclamò Maria avvicinandosi a Caterina e lasciando Isabel a ridere nell’altra stanza. Nonostante l’interruzione di un momento decisamente importante, la Sovrana accolse immediatamente la primogenita, cingendole la vita con un braccio, e stando in attesa di ulteriori spiegazioni. “Mamà, non potrete davvero credere a cosa mi ha detto Isabel..” Ripeté Maria.
Nell’altra sala, intanto, la secondogenita dei due sovrani rideva e scuoteva la testa, come se sapesse di non aver detto nulla di male.
Caterina guardò la promessa sposa del Delfino, incoraggiandola a parlare. Maria si fece tutta rossa e poi, dopo diversi secondi, si convinse ed aprì la bocca.
“Mi ha spinto a ondeggiare e saltare un po’ più, vedete?, in questo modo.” Spiegò e danzò come la sorella le aveva suggerito. “Dice che, se non sono riuscita ancora a farmi notare da Francesco, questo è certamente il modo migliore per colpirlo e tenermelo ben stretto.” Continuò a spiegare, seguitando ad alternare movimenti sensuali e lenti, e balzi vivaci ed allegri.
Nella sala calò un silenzio quasi tombale, rotto solo dal rumore dei piedi di Maria e dal fruscio della sua veste. La Sovrana guardò in silenzio quello spettacolo, troppo sbigottita perfino per proferire verbo. Non reagì nemmeno quando la giovane Principessa si fermò e, ansante, attese il suo giudizio. All’improvviso eruppe la risata di Enrico.
“Parola mia, figlia adorata, se tuo marito vedesse questi… questi movimenti sono pronto a scommettere che non avrà mai nulla da ridire su di te!!” Ridacchiò divertito. L’espressione di Maria, già in partenza assai poco convinta, dopo le parole del padre si fece a dir poco dubbiosa. Era ovvio che il suo parere fosse quanto di più ‘pericoloso’ e meno credibile, ma ovviamente non poteva dirglielo in faccia. La giovane si voltò verso sua madre, che stava ancora taciturna, con le mani intrecciate in grembo. Maria le si avvicinò titubante e le posò una mano sulla spalla.
“Madre..” azzardò a chiamarla, a voce bassa. Ma Caterina non rispose. Strinse ancora di più le mani, quindi alzò gli occhi sulla figlia, che ora la guardava davvero preoccupata.
“Farai meglio a dimenticare quei passi prima che tu parta per la Francia, Maria.” Sentenziò con un tono che non dava alcuna possibilità di replica né tantomeno di appello. Maria si girò verso la sorella, che si stava alzando dalla sedia ed annuiva, sorridente.
“Che ti avevo detto Maria?” Esclamò Isabel. “Meno di tre minuti alla reazione..” Ridacchiò affacciandosi sulla soglia e guardando Caterina che pian piano si stava rendendo conto di essere stata buggerata.
“Che rabbia, pensavo avrebbe resistito di più prima di sbottare..” Le fece eco la sorella andandole vicino e godendosi da lì la scena.
Vedendole così palesemente in accordo, Caterina si girò verso il marito e lo guardò come a chiedere conferma di quanto le due monelle avevano tramato alle sue spalle.
“Sì, mia cara, credo proprio che queste due mascalzone vi abbiano combinato un bello scherzo.” Rise lui.
“Un momento..” Protestò Maria, alzando le mani davanti a sé. “Io non ho fatto nulla. L’idea è stata..”
“Sì, sì, sono io la colpevole..” Ammise subito Isabel. “Chi mai potrebbe essere l’autrice di una cosa come questa, se non io?” Aggiunse, in tono scherzoso, ma facendo capire che quella nomea, per quanto corretta, le dispiaceva un po’. E mentre Maria andava subito ai piedi di sua madre, a scusarsi e in qualche modo ricomporre la cosa, almeno per quanto spettava a lei, Isabel rimase sulla soglia, appoggiata allo stipite della porta, come se non volesse interferire in quel quadretto. Vedendole parlottare e spiegarsi ed Enrico guardarle assorto, Isabel tornò nella sala accanto e rimise la viola da gamba nella sua custodia e poi si voltò per osservare di nuovo i tre. Sua madre la guardava con dolcezza, mentre Maria parlava con Enrico, quasi in attesa che lei le si avvicinasse. Incerta sul da farsi, Isabel rimase ferma dove era, fino a che Caterina non allungò un braccio nella sua direzione, come faceva quando era bambina, per chiamarla a sé. La Principessa, obbediente, le si avvicinò, accosciandosi di fianco a lei.
“Non volevo offendervi..” Disse subito, scusandosi e temendo che sua madre potesse esser rimasta oltraggiata per quanto aveva detto. Ma Caterina la sorprese del tutto, aprendo la bocca ad un sorriso enorme e posando una mano sulle sue labbra, come per zittirla.
“Il mio adorato buffoncello di corte..” Mormorò prendendole tra le dita il mento, e poi stringendola a sé.
“Questo l’ha preso da me!!” Eruppe Enrico, costringendo madre e figlia a sciogliere il loro abbraccio. “La mia vena comica è di sicuro più preminente della vostra, Caterina!!”
Isabel si voltò e lo guardò per alcuni istanti, sorridendo lievemente. Si chiedeva se stesse dicendo sul serio o meno, e quando lo vide convinto di quanto aveva affermato, si voltò immediatamente verso sua madre, che lo assecondò subito, annuendo e sorridendo a sua volta. Soddisfatto per il successo riscosso, Enrico mandò le figlie alle loro stanze e poi guardò la moglie.
“Ogni qual volta in Scozia non ho ricevuto vostre notizie e le risposte alle mie missive, mi son seriamente spaventato. Poi ho pensato che voi non..” Si interruppe, guardandola intensamente. Caterina gli posò una mano sul polso, e sorrise comprensiva, come spesso faceva in quei frangenti. Sapeva che il marito si era verosimilmente prima adirato molto per il suo silenzio, e che solo dopo era subentrata la paura, ma non lo disse, sorvolando con la solita discrezione sul reale andamento degli avvenimenti.
“Enrico, non mi sono mai arrivate le vostre lettere..” Rispose lei paziente, come se nei tre giorni precedenti non avessero mai affrontato l’argomento per ore e come se non avessero mai analizzato la cosa nei minimi particolari.
Il marito la osservò con attenzione: stava forse mentendo? E, nel caso, a che pro? Quale tornaconto avrebbe mai potuto ricavare dalle proprie menzogne? Forse che una volta tornato, non avrebbe scoperto il misfatto? E poi, da che la conosceva, Caterina non aveva mai mentito, non aveva mai agito contro quello che considerava il proprio Paese, né aveva mai messo in pericolo la vita di una sola delle persone che le era stata affidata. Possibile che in questo caso avesse ignorato un suo preciso ordine e gli avesse negato le truppe che esigeva e comandava arrivassero? No, no, Caterina gli era fedele. Enrico lo sapeva. Di più, ne era certo.
“Sire, voi pensate che non ci sarebbero nemici così forti e infidi da attentare alla stabilità del vostro Regno?” Chiese Caterina, prendendo in mano la situazione. Sapeva che avrebbe potuto costarle caro farsi vedere così sicura e decisa nell’incolpare altre persone quando la situazione non era chiara per nulla, ma non poteva fare altrimenti. Il fatto che Enrico non avesse ricevuto le risposte sue, di sir More e di tutti coloro cui aveva scritto, significava che qualcuno aveva tentato di isolarlo, riuscendoci pienamente, creando così un vuoto tra il Re e i suoi collaboratori intollerabile ed eversivo. Chiunque aveva agito a quel modo sapeva perfettamente cosa avrebbero significato le sue azioni ed era quindi impensabile si fosse trattato di un gesto momentaneo o di un incidente.
“Voi credete…” Chiese, improvvisamente spaventato da quella eventualità. “Io non.. ecco io non.. non pensavo che qualcuno potesse volere la mia rovina, e il mio trono. Non dopo Buckingham, almeno..”
Dopo quelle parole, piene di sconforto e quasi rassegnate, Caterina gli accarezzò il viso.
“Maestà, voi siete un re amato e benvoluto.” Gli disse in modo risoluto. “Il vostro Paese vi ama e vi rispetta, e questi sono gli atti di pochi ribelli. Avete il dovere di capire di chi si tratti, trovarli ovunque si nascondano e comminare la massima pena. Ma fareste un torto a milioni di sudditi se pensaste che l’Inghilterra non vi è fedele.”
Enrico la guardò in silenzio, ammirato, come molte altre volte. Gli occhi della moglie scintillavano di orgoglio e di intelligenza. Era stato un pazzo a pensare che una sciocca ragazzina potesse prima o poi diventare ciò che Caterina era, per nascita e per natura: una regina intelligente, misurata, astuta e brillante.

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“Perfetto sir Fitzwilliam. Fate entrare Sua Maestà.” Giacomo si alzò in piedi e restò in attesa.
Quattro ore prima aveva accettato formalmente la proposta di pace di Enrico e aveva mandato una delegazione affinché preparasse una bozza assieme alla delegazione inglese, che poi i due Sovrani avrebbero firmato.
“Enrico Tudor, Re di Inghilterra!!” Annunciò il ciambellano a gran voce. Giacomo contrasse la mascella per un istante e chiuse gli occhi. Era nervoso ed eccitato assieme. Enrico Tudor aveva abbassato la cresta, finalmente, e di fronte a sé vedeva arrivare un leoncello scornato e vagamente irritato per la conclusione di quella vicenda. Il Re scozzese represse un sorriso e facendo appello a tutto il suo sangue reale, andò incontro a colui che fino a pochi giorni prima avrebbe voluto vedere ucciso in qualsiasi modo, piuttosto che avere come alleato.
“Caro fratello!” Gli disse, aprendo le braccia e sorridendogli quanto più poté. Enrico rimase per un attimo impassibile e poi sorrise a sua volta.
“Maestà..” Gli rispose inchinandosi in modo cerimonioso e sottraendosi allo stesso tempo al suo abbraccio. Giacomo perse per un istante il sorriso, ma dopo pochi istanti si riprese. Per quanto fosse furente non avrebbe mai dato la soddisfazione di rendere visibile questo suo stato d’animo. Non la avrebbe data né ad Enrico, né a chi era assieme a lui.
“Accomodiamoci.” Propose gentilmente Giacomo, mentre gli ufficiali inglesi continuavano a entrar nella sala. Il Re scozzese istintivamente si sentì disturbato e distratto da tutte quelle persone. Non si aspettava che Enrico si portasse dietro il seguito delle grandi occasioni, ed invece non meno di cinquanta persone sfilarono ordinatamente e si disposero a ferro di cavallo, lungo il muro della sala, alla destra, alla sinistra e davanti ai due sovrani, che sarebbero stati al centro.
“Vostre Maestà, affinché possiate uniformarvi a questo trattato di amicizia e concordia perpetue, con i vostri sigilli ratificate la pace tra Inghilterra e Scozia.. In qualità di legato Papale sono testimone delle firme che le Vostre Maestà apporranno su questo trattato di reciproca amicizia e che nulla lo romperà. Così Dio vi aiuti.” Il Vescovo Stuart, primate della Chiesa Scozzese avanzò con in mano la pergamena su cui Enrico e Giacomo avrebbero dovuto firmare. Arrivato davanti ai due Re, il prelato sorrise e poi porse il trattato. Cavallerescamente Giacomo lasciò che fosse il collega a prenderlo e sistemarlo sul leggio, poi assieme presero la penna d’oca, la intinsero nell’inchiostro e, dopo un ultimo sguardo reciproco, si prepararono alla firma.
Poco prima di firmare, Enrico tossì un paio di volte. Giacomo non se ne preoccupò, né ci fece troppo caso, ma poi un sibilo corse per tutta la sala. Quando il Sovrano scozzese alzò gli occhi non vide che le porte della sala improvvisamente chiuse, e poi il massacro dei suoi da parte degli inglesi.
Gli accompagnatori di Enrico fecero in modo di disporsi dietro agli uomini di Giacomo, con un rapporto di due a uno. La sorpresa, la buona sorte e a velocità dalla parte dei primi, ed i secondi vennero sgozzati uno per uno, praticamente in modo simultaneo. La maggior parte dei soldati scozzesi non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi cosa stesse succedendo che già il sangue aveva cominciato a scorrere giù dalle loro gole, lungo il loro collo e gli abiti, fino a terra.
Bloccato prima dal terrore e poi da due uomini di Enrico, il Re scozzese non ebbe modo di reagire in alcun modo. Oltre e più di tutto, era sconvolto e disgustato allo stesso tempo. Enrico gli aveva teso una trappola, aveva abusato del credito che gli era stato concesso, mentendo volutamente su una delle cose più sacre, ossia un’offerta di armistizio. Aveva tradito la fiducia di due Paesi e le speranze di pace dell’intera Europa. Inoltre agli occhi di Dio era uno spergiuro ed un falso. Difficilmente avrebbe potuto essere assolto dopo una cosa del genere, non importa chi avrebbe ascoltato la sua confessione e la sua richiesta di perdono.
Da fuori si sentivano le urla disperate della sua gente, i colpi di mazza e di spada contro le colonne, i pilastri ed i muri del palazzo reale, contro le ossa delle persone.
“Vi darò tutto quello che volete, ma vi prego, fermate tutto questo. Risparmiate la mia vita.” Implorò Giacomo.
“Dì le tue preghiere, e chiedi perdono a Dio..” Gli rispose Enrico, sprezzante. Dopo pochi istanti, afferrò la spada di Charles Brandon, che teneva fermo Giacomo, e lo trafisse. Il corpo senza vita di Giacomo si afflosciò ai suoi piedi. Enrico si girò verso uno dei suoi soldati e gli ordinò di decapitarlo. L’uomo rimase per qualche istante interdetto, ché non si aspettava un gesto così brutale, ma poi lo sguardo feroce di Enrico lo fece obbedire assai velocemente.
Nelle settimane che seguirono, gli uomini di Enrico uccisero i personaggi più influenti della nobiltà scozzese, sia quelli notoriamente fedeli a Giacomo, sia coloro che erano più distanti dall’ex Sovrano, quando non addirittura ostili. Per giorni e giorni fecero bella mostra di sé le teste mozzate e fissate sulle picche agli angoli più frequentati delle città, o i corpi penzolanti dagli alberi. Fu un monito nemmeno troppo velato, ma efficace. Il popolo scozzese, solitamente riottoso e restio ad ogni giogo, si piegò abbastanza in fretta alla sistematica e metodica brutalità di Enrico e non oppose praticamente resistenza.
Una volta decapitata la nobiltà ed asservito il popolo, Enrico pensò al ritorno a Londra. Per un paio di giorni rifletté in totale solitudine su chi lasciare a Edimburgo, in sua vece. Inizialmente pensò a Brandon, ma poi si disse che il duca gli avrebbe fatto comodo nel viaggio di ritorno, così decise di lasciare lì sir Dacre. Era il giusto premio per il suo comandante, ed essendo un soldato di lungo corso la cui risolutezza e decisione erano ben note, la sua presenza avrebbe di sicuro scoraggiato eventuali ribellioni, sia da parte dei nobili, che da parte della popolazione.
Fu così che, poco meno di un mese dopo la vittoria su Giacomo, Enrico si preparò per tornare a Londra, con la corona di Scozia in regalo per Caterina.

  
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