Ottobre/
Novembre 1530 – Timeo Danaos et dona ferentes
“Allora!?”
Spazientito, infreddolito
ed enormemente innervosito, Enrico Tudor andava avanti e indietro da un po’, in
attesa che il suo generale gli desse notizie confortanti. L’assedio a Edimburgo
durava da mesi, oramai, e la città non solo resisteva, pur con difficoltà, ma
aveva fiaccato la tempra ed il coraggio inglesi e francesi. Quest’ultimi,
suborando ormai una sempre più possibile e vicina ritirata, da qualche
settimana avevano preso ad impegnarsi di meno nelle scaramucce che di tanto in
tanto si verificavano con le milizie scozzesi a difesa delle città.
“Maestà, mi dispiace, ma
non riusciremo a passare anche l’inverno qui. O l’assedio diventa conquista, o
sarà bene ritirarci.” Affermò sir Dacre, comandante in capo delle forze
inglesi. Il Sovrano guardò l’uomo di fronte a sé e non rispose. A dispetto
della sua assai giovane età, egli era uno dei comandanti più esperti e capaci. Suo
padre Thomas era stato uno dei comandanti delle forze inglesi che avevano
combattuto contro gli scozzesi a Flodden, sotto il comando di Caterina, più di
quindici anni prima, e conosceva come nessuno la Scozia.
“Cosa?!?” Gridò Enrico,
all’improvviso. Era paonazzo in volto, e la vena sulla tempia destra pulsava
pericolosamente. Le mani davanti a sé, quasi pronte a afferrare qualcosa, o
qualcuno, il Re sembrava sul punto di svenire. Sir Dacre lo guardò impassibile,
senza farsi intimidire dal quel comportamento. Sapeva che Enrico era abituato
ad ottenere quello che voleva e che la collera era uno degli elementi propri del
Sovrano, elemento che portava i suoi interlocutori a ritirarsi in fretta,
dandogli così le battaglie vinte.
Il comandante tuttavia,
era fermamente deciso a non cedere. Conosceva in modo più che approfondito la
situazione dell’esercito e cosa le truppe desideravano, al di là del dovere e
della formale obbedienza al Re. Inoltre sapeva fin troppo bene che le forze
inglesi non avrebbe mai potuto permettersi un inverno lontano da Londra. Non
dopo mesi d’assedio inconcludente, per giunta. I soldati erano allo stremo e fra
di essi serpeggiava, notevole, il malcontento.
Mentre il Re andava senza
costrutto da una parte all’altra, come un animale in gabbia, sir Dacre lo
guardava in silenzio, rimpiangendo il fatto che al suo posto non ci fosse la
moglie, la Regina Caterina.
La voce dello zio
sorprese, e non poco, Anna. La giovane fece di tutto per nascondere la missiva
che aveva fra le mani, ma gli occhi del duca di Norfolk la scrutavano con molta
attenzione, non perdendo un solo gesto di quelli da lei compiuti.
“Che dite, zio?” Fece lei,
per guadagnare tempo, e sfoderando uno dei suoi proverbiali e fintamente
ingenui sorrisi. “Non sto facendo nulla..”
“Cos’è ciò che avete fra
le mani? Datemelo un po’..” Ribatté lui. Tanto fece e tanto disse che riuscì a
strapparle dalle mani la pergamena. Dopo una rapida occhiata vide il sigillo
reale e capì il guaio in cui la nipote si stava cacciando, anzi in cui era
dentro fino al collo. “Questo è tradimento, Anna!! Possibile che siate così
sciocca?” La apostrofò, cercando di tenere il volume della voce basso, e
trascinandola in un angolo del palazzo, nel tentativo di evitare occhiate
indiscrete.
“Suvvia zio, non vorrete
mettere nei guai la vostra nipotina prediletta..” Lo ammansì lei, facendogli
gli occhi dolci e piegando da un lato il viso, in un broncio che lui le aveva
visto fare migliaia di volte.
“Maestà!! Maestà!!” Chiamò
a gran voce. “I francesi si stanno ritirando!! Il loro Re ha dato ordine di
ritirare le truppe!”
Per un istante Enrico
sentì la terra mancare da sotto i piedi. Era perduto! Senza l’aiuto e le forze
dei francesi non avrebbe mai potuto completare l’assedio, con l’inverno ormai
alle porte poi. Il suo ragionamento durò tuttavia solo lo spazio di pochi
secondi; qualche attimo dopo, il fuoco della collera lo investì in pieno. Senza
nemmeno rispondere alle domande dei suoi uomini, corse verso il primo cavallo
disponibile e partì al galoppo. Sir Dacre e Charles Brandon si guardarono
smarriti, ma con una successiva espressione del volto così chiara che non ci fu
bisogno di esprimere a parole ciò che sentivano. Ancora una volta, il Re
d’Inghilterra dimostrava di essere in totale balia di emozioni e sentimenti;
era talmente sopraffatto da essi che non si curava nemmeno di nasconderli ai suoi
sottoposti, dando costantemente l’idea di un uomo ondivago, umorale e
tutt’altro che fermo e deciso.
“Sono perduto Charles..”
Seduto su un tronco cavo,
le mani alle tempie ed il viso basso, Enrico Tudor scuoteva il capo,
mestamente. Era ormai notte alta e fino a pochi istanti prima di fronte a lui
c’era un messaggero. Per tutto il giorno non aveva fatto altro che mandare
missive su missive, alla moglie, a Francesco di Francia, a Thomas Bolena ed a
Thomas More, e per tutto il giorno non aveva fatto altro che attende le loro
risposte. La situazione era davvero sull’orlo del disastro completo.
“Non mi ha risposto
nessuno.. Non Caterina, non Bolena.” Mormorò il Re, gli occhi bassi e
sconsolati. Charles lo guardò con una pena infinita. In questi momenti Enrico
sembrava mostrare tutta la sua inadeguatezza. “E nemmeno Thomas.. quanto a quel
traditore di Francesco, gli ho detto chiaro e tondo che se non avrò le truppe
promesse non esiterò a rompere il fidanzamento tra Maria e suo figlio.”
Il duca non rispose e
continuò a fissare il Sovrano smarrito. Cosa poteva mai dirgli? Come poteva fargli
capire che si stava mettendo in una posizione estremamente difficile, e che una
decisione del genere poteva essere nociva per l’Inghilterra? Quali parole
poteva usare per convincerlo a ragionare ed a non prendere tutto sempre di
petto?
Certo, Francesco non era
stato certo corretto a ritirar le truppe senza aver detto nulla al suo alleato,
nonché futuro suocero. Brandon questo lo sapeva e non cercava giustificazioni
per il sovrano francese, tuttavia.. tuttavia Enrico, come suo solito, si faceva
prendere dai nervi, invece che organizzare un piano o blandire le persone che
avevano abbandonato la sua causa. Invece di avvicinarsi a loro, finiva
regolarmente con lo scontrarcisi. E questo, in politica e in amore, era sempre
deleterio.
“Maestà, vi prego,
ragionate..” Gli disse l’amico, asciutto e deciso. “Avete il Paese nelle vostre
mani. Fate in modo che questo assedio non sia la nostra tomba e la nostra
rovina.”
“Sì, sire.” Rispose
quello, sicuro ed annuendo leggermente. “Enrico vuole la pace. Dice che ci
siamo difesi con onore e che i due eserciti si bilanciano perfettamente, quindi
per non fare altre vittime, ci offre la pace.” A quelle parole, gli occhi blu
scuro del Re scozzese scintillarono di disprezzo e di orgoglio represso. La
mascella si contrasse e poi rise sonoramente.
“I due eserciti si
bilanciano perfettamente? E come è che lui ci offre la pace e non prosegue
nell’assedio?” Chiese Giacomo. Sir Fitzwilliam sorrise a sua volta, senza
rispondere alla domanda retorica del suo Sovrano.
“In realtà, sire,
l’esercito inglese è sull’orlo della ribellione..” Confidò chinandosi verso di
lui ed abbassando notevolmente il volume della voce. Il sorriso cui la bocca di
Giacomo si aprì, illuminò il suo volto. Era oltremodo soddisfatto. Enrico aveva
un esercito ben più numeroso e di sicuro meglio attrezzato, ma in un assedio la
maggiore abilità non contava poi così troppo. Inoltre i soldati inglesi erano
lì da mesi, con l’inverno ormai alle porte e senza l’appoggio degli
improvvisati alleati francesi, la loro situazione era andata mano a mano
peggiorando. La ribellione quasi minacciata dalle truppe, doveva essersi prima
manifestata con un malcontento sempre più generalizzato e profondo, che alla
fine aveva fatto abbassare la cresta al leoncello inglese. A Giacomo non parve
vero di avere il destino di Enrico nelle sue mani. Il suo primo istinto fu
quello di rifiutare l’offerta di pace del suo ‘collega’ e di fargli proseguire
l’assedio fino alle estreme conseguenze. Ma poi pensò che anche Edimburgo non
era messa molto meglio dei soldati di Enrico. La città non aveva rifornimenti
da qualche settimana e le scorte non sarebbero durate che per poco tempo. La
cosa più saggia era accettare l’offerta e sfruttare il fatto che fosse stato
Enrico il primo a cedere ed a rendere in un certo senso le armi..
“Bene, sir Fitzwilliam,
fate sapere a Sua Maestà che accettiamo la cessazione delle ostilità e ci
rendiamo disponibili per negoziare i termini di un accordo vantaggioso, per
entrambe le parti..” Disse solennemente Re Giacomo, alzandosi dal proprio
scranno, ben deciso a sfruttare fin in fondo quell’opportunità. “Fate sapere a
Sua Maestà che lo aspettiamo quanto prima a palazzo.”
Mormorò Enrico ponendo sul
capo della moglie la corona che apparteneva alla moglie di Giacomo. Il Re aveva
percorso il lungo corridoio della sala del trono lentamente e come se ogni
passo fosse di vitale importanza. Caterina, in piedi davanti allo scranno e con
indosso gli abiti più preziosi che aveva, l’aveva aspettato con un’espressione
sul volto di orgoglio e di felicità.
Subito i consiglieri dei
due sovrani, Maria ed Isabel ed i cortigiani che avevano trovato posto nella
sala, proruppero tutti in grida di entusiasmo e di gioia. Quando Caterina ebbe
completato la riverenza che spettava al Re, scoppiò un applauso fragoroso e di
liberazione, mentre il ciambellano annunciava che i due Sovrani d’Inghilterra erano
appena diventati anche Sovrani di Scozia.
Quando Enrico si sedette,
prima Maria ed Isabel, quindi i consiglieri ed i nobili sfilarono uno ad uno a
rendere loro omaggio. Successivamente fu la volta dei capi dell’esercito e
della marina inglese, quindi di tutti coloro che collaboravano con Enrico e con
Caterina, pur non avendo incarichi specifici a corte. Mano a mano che sfilavano
coloro che avevano accompagnato il Re in Scozia, Isabel si sentì sempre più
triste. Sir Knivert non era più fra loro e il suo cuore era davvero in lutto. Durante
la lunghissima sfilata di fronte al Re aveva cercato di trattenere la
commozione e le lacrime, riuscendo in modo egregio. Ma quando i valletti
sfilarono reggendo dei cuscini su cui erano posate le insegne dei comandanti
morti durante la guerra in Scozia, fu decisamente più dura. All’improvviso,
all’inizio del lungo corridoio comparve il cuscino con le insegne di sir
Anthony ed Isabel si sentì gli occhi in fiamme, letteralmente. Deglutì diverse
volte e cercò in tutti i modi di ricacciar giù le lacrime, di secondo in
secondo sempre più urgenti, ma badò contemporaneamente di non lasciar
trasparire il proprio stato d’animo.
Quando il valletto che
reggeva il cuscino arrivò davanti al trono, inaspettatamente, Enrico di scatto
si alzò in piedi e poi, prima che potesse dominarsi, scoppiò in lacrime.
Sconvolto dalla propria reazione, si coprì gli occhi con la mano, ma riuscì
solo a piangere più forte.
Intuendo il momento
difficile del marito, subito Caterina lo imitò, alzandosi a sua volta, seguita
da Isabel e Maria. La Regina posò con dolcezza la mano sul polso del marito,
stringendolo un poco, e dopo alcuni istanti egli si calmò, proprio mentre il
cuscino sfilava via.
Isabel non ricordava
nemmeno quale fosse stata l’ultima occasione che li aveva visti tutti assieme,
ed al medesimo tavolo, ma ora, nel guardare i suoi genitori, si rese conto che
era bellissimo ritrovarsi a quel modo. Suo padre, dopo la forte ed inaspettata
commozione, si era ripreso assai bene, aiutato come sempre dalla Regina, che
anche in quella occasione non gli aveva fatto mancare il suo supporto. Enrico
era un pochino pallido, gli occhi erano ancora rossi, ma sul suo viso aveva
cominciato a comparire un tenue sorriso. Seduto a capotavola, dopo aver
chiacchierato con Maria, che gli sedeva alla destra, di cosa sarebbe stato dei
preparativi del suo matrimonio, volse i suoi occhi blu su Isabel, che come
sempre sedeva accanto a Caterina.
“Vi dobbiamo molto, Vostra
Altezza..” Mormorò solamente, guardandola intensamente, dopo aver posato gli
occhi sulla moglie. Isabel, che stava per mettere in bocca un pezzo di carne
infilato in uno stecco, rimase con la sinistra a mezz’aria, la posata stretta
ancora nella mano, incapace di rispondere. Aveva immediatamente percepito la
solennità di quella frase. Con l’angolo dell’occhio vide sua madre girarsi
verso di lei e guardarla con orgoglio ed affetto indicibili. “Vi dobbiamo
davvero molto..” Ripeté suo padre con gli occhi lucidi ed Isabel,
istintivamente, aprì la bocca per rispondergli e ringraziarlo. Ma poi le parole
non vennero, tanta era l’emozione al ricordo dei giorni tremendi in cui la vita
di sua madre era stata appesa ad un filo sottilissimo; lei abbassò lo sguardo,
quindi il viso, restando in silenzio. Fu Caterina, ancora una volta, a fare da
tramite fra il Re e le persone che lo circondavano, fossero essi consiglieri,
nemici, sudditi in generale, o le proprie creature. La Regina allungò il
braccio verso Isabel e posò la mano sul fianco sinistro della figlia, quasi
volesse avvicinarla ancora di più a sé; le labbra di Caterina prima furono sulla
sua tempia poi vicino all’orecchio, come a mormorarle qualcosa. Le guance di
Isabel si colorarono di rosso e la fanciulla, piegando il viso verso la bocca
della mamma, abbassò e poi chiuse gli occhi, commossa.
Enrico le osservò assieme
e dovette ancora una volta ammettere con se stesso che avevano un’enorme
confidenza ed un bellissimo e profondo legame. Il modo in cui la figlia aveva
cercato in tutti i modi di salvare la vita della madre gli era stato
raccontato, con dovizia di particolari da più parti. Ora l’una fonte, ora
l’altra aveva esaltato questo o quel particolare aspetto della vicenda, ponendo
in luce, di volta in volta, il coraggio, la ferma decisione, la dedizione, il
geniale intuito della figlia, ma tutti avevano concordato su particolare:
Isabel aveva davvero salvato la vita di sua madre, e molto probabilmente anche
il suo regno.
Se Caterina fosse morta,
Enrico se n’era reso subito conto, l’Inghilterra, con lui lontano, sarebbe
precipitata nel caos ed i suoi nemici interni, non meno pericolosi e scaltri di
quelli esterni, avrebbero cercato di prendere il sopravvento, e forse ci
sarebbero pure riusciti. Enrico Tudor era consapevole che il suo mondo aveva
rischiato la distruzione, non solo per opera del sudor. Il Sovrano aveva ammesso che la figlia da lui sentita
distante sotto diversi punti di vista, incluso quello affettivo, era stata quella
che aveva contribuito a rimettere le cose in carreggiata e gli aveva
letteralmente permesso di continuare ad avere un regno. La sorte non era stata
certo un accessorio in tutto questo, era ovvio; Isabel era stata fortunata, e
non poco, ma si era resa più utile di Maria ed era stata più fredda nel gestire
la sua parte di guai e di incombenze. Anzi, quasi s’era scelta il compito più
difficile.
“A cosa pensate, amore
mio?” Gli sussurrò Caterina, posando una mano sul suo polso ed accarezzandogli
il viso. Come se si fosse risvegliato da un sonno lungo qualche istante, Enrico
posò gli occhi su lei e rispose al suo sorriso.
“A quanto sono fortunato,
Caterina.” Mormorò, accarezzandole una guancia con il dorso della mano. “A
quanto io devo a voi, ai miei fidati consiglieri, ai nostri amici fedeli. Ed
anche a nostra figlia..” Aggiunse, con un tono di voce che Caterina raramente
gli aveva sentito. Non era solo dimesso e tenero, era davvero coinvolto e
partecipe in quello che stava vivendo.
“Sì..” Annuì Caterina.
“Tutti i nostri amici ci sono stati pienamente fedeli, Enrico. Ognuno ha
portato avanti il proprio compito al meglio..” Confermò ancora la Regina.
“Ma Isabel..” Sorrise
Enrico, guardando la figlia che nella sala accanto si esercitava con la sua
viola da gamba ed eseguiva un rondeau, mentre Maria le mostrava i passi che
aveva visto esser danzati in Francia.
“.. ci ha stupiti..”
Proseguì Caterina, seguendo lo sguardo di Enrico e osservando anche lei Isabel.
“Non hai idea di quanto sia maturata in questi mesi, e di come si sia impegnata
nei suoi uffici e nei suoi doveri..”
Enrico sospirò ed annuì
silenzioso. Sapeva tutto. Sir More, ma anche Mastro Hilliard ed il Vescovo
Fisher gli avevano detto della crescita della figlia, e del suo contributo
fattivo non solo nei suoi studi, ma anche nelle attività dei vari spedali.
Quello che Isabel aveva fatto a Lambeth non era stato un caso. Il posto che lei
aveva implorato con insistenza e durissima caparbietà non era stato
l’infatuazione di un istante per una disciplina del tutto particolare ed
affascinante come la medicina. Isabel aveva del talento e capacità vere. Come
Caterina mesi prima, anche Enrico giunse alla conclusione che la figlia si
stava avviando ad una splendida maturazione e poteva davvero migliorare la vita
delle persone con cui entrava in contatto. L’aveva spesso sottovalutata,
ritenendo che fosse semplicemente la piccola di casa, da coccolare e
vezzeggiare, oltre che educare e disciplinare. Fino a che lui era stato a
Londra la sua secondogenita era un cucciolo a cui dare comandi e moine, a
seconda dei momenti; testarda, cocciuta e sincera fin quasi all’impudenza,
Isabel alternava a questi atteggiamenti quelli in cui era solo una ragazzina
spaventata, pronta a saltare in grembo a sua madre al primo alito di vento, che
per anni aveva vissuto lontano dal luogo che chiamava casa, in balia di persone
che l’avevano percossa, umiliata e trattata male. In pochissimi mesi si era avviata
una trasformazione gigantesca. Caterina doveva esserne stata l’artefice
principale, Enrico lo sapeva, ma anche Thomas More, il Vescovo Fisher ed il
dottor Griffith dovevano aver avuto una parte considerevole. Per un attimo il
Re si intristì al pensiero che lui non aveva visto nulla di tutto questo, e si
trovava davanti al ‘prodotto’ finito. Per un istante il Sovrano avrebbe voluto
essere un padre che vede con i suoi occhi i primi passi incerti di sua figlia,
per poi osservarla andare sempre più sicura, sempre più spedita, sempre più
veloce.
“Mi chiedo se quello
svedese imbecille riuscirà a farla felice..” Mormorò Enrico. Caterina, che
stava osservando Isabel, si voltò verso di lui. Era la prima volta che Enrico
nutriva perplessità nei confronti di sir Sten; le sue parole sembravano più un
pensiero a voce alta, sfuggito per caso, che una considerazione vera e propria.
La Regina, però, non si fece scappare l’occasione e dato che si era aperto un
varco, pur minimo, decise di sfruttarlo a pieno. Con lui era inutile dirgli
cosa fare o addirittura imporre una qualche volontà. Era molto meglio fargli
balenare in mente un ventaglio di soluzioni e con astuzia instradarlo verso una
in modo particolare, quasi che fosse stato lui a scegliere quella strada.
“Avete qualche dubbio,
Maestà?” Chiese lei, fingendo un’ingenuità ed un candore che non aveva.
“Non so..” Rispose
perplesso Enrico, come se già non fosse più sicuro. “E’ come se vedessi mia
figlia per la prima volta. Non è la bambolina che pensavo. E’ una creatura
dalle mille risorse.” Proseguì, ora più sicuro. Caterina cercò di mascherare ad
ogni costo il proprio trionfo. Era una vittoria importantissima, pur in quelle
condizioni. Il dubbio aveva iniziato a farsi strada nella sua mente e questo
era già tanto.
“Sì, lo è.” Confermò
Caterina. “E’ una creatura davvero meravigliosa, una figlia devota e amorevole,
Enrico, ed una suddita fedele e tenace. La sua mente è una risorsa per questo
Paese, e l’impegno che mette in ciò che fa è ammirevole, considerando che è
ancora poco più che una bambina.”
A quelle parole Enrico
sorrise. L’attaccamento di Caterina per la loro secondogenita era così
evidente, tuttavia lo commuoveva.
“Fosse per te, la faresti
stare sempre qui in Inghilterra, non è vero?” Disse, provocandola un po’, ma
continuando a sorridere. Non la stava rimproverando e fece attenzione affinché
anche Caterina lo notasse. La Regina spostò gli occhi dalla figlia a lui e
sorrise, arrossendo e rendendosi conto della propria parzialità.
“Fosse per me, non
dovrebbe mai lasciar Londra.” Corresse lei, con un sorriso malinconico e la
sensazione che il tempo stesse scorrendo via ad una velocità pazzesca. “Né
questo palazzo.” Ammise infine ridacchiando. Enrico rise a sua volta. In quei
mesi anche Caterina aveva subito una trasformazione, o almeno così gli
sembrava. La moglie era più portata al sorriso, meno depressa, e aveva come
sempre mostrato un piglio da vera Regina guerriera. Aveva tenuto il Paese in
mano al meglio, considerando le molteplici sollecitazioni ricevute.
“Mamà, sentite che impudenza!” Esclamò Maria avvicinandosi a Caterina
e lasciando Isabel a ridere nell’altra stanza. Nonostante l’interruzione di un
momento decisamente importante, la Sovrana accolse immediatamente la
primogenita, cingendole la vita con un braccio, e stando in attesa di ulteriori
spiegazioni. “Mamà, non potrete
davvero credere a cosa mi ha detto Isabel..” Ripeté Maria.
Nell’altra sala, intanto,
la secondogenita dei due sovrani rideva e scuoteva la testa, come se sapesse di
non aver detto nulla di male.
Caterina guardò la
promessa sposa del Delfino, incoraggiandola a parlare. Maria si fece tutta
rossa e poi, dopo diversi secondi, si convinse ed aprì la bocca.
“Mi ha spinto a ondeggiare
e saltare un po’ più, vedete?, in questo modo.” Spiegò e danzò come la sorella
le aveva suggerito. “Dice che, se non sono riuscita ancora a farmi notare da
Francesco, questo è certamente il modo migliore per colpirlo e tenermelo ben stretto.”
Continuò a spiegare, seguitando ad alternare movimenti sensuali e lenti, e
balzi vivaci ed allegri.
Nella sala calò un
silenzio quasi tombale, rotto solo dal rumore dei piedi di Maria e dal fruscio
della sua veste. La Sovrana guardò in silenzio quello spettacolo, troppo
sbigottita perfino per proferire verbo. Non reagì nemmeno quando la giovane
Principessa si fermò e, ansante, attese il suo giudizio. All’improvviso eruppe
la risata di Enrico.
“Parola mia, figlia
adorata, se tuo marito vedesse questi… questi movimenti sono pronto a
scommettere che non avrà mai nulla da ridire su di te!!” Ridacchiò divertito.
L’espressione di Maria, già in partenza assai poco convinta, dopo le parole del
padre si fece a dir poco dubbiosa. Era ovvio che il suo parere fosse quanto di
più ‘pericoloso’ e meno credibile, ma ovviamente non poteva dirglielo in
faccia. La giovane si voltò verso sua madre, che stava ancora taciturna, con le
mani intrecciate in grembo. Maria le si avvicinò titubante e le posò una mano
sulla spalla.
“Madre..” azzardò a
chiamarla, a voce bassa. Ma Caterina non rispose. Strinse ancora di più le
mani, quindi alzò gli occhi sulla figlia, che ora la guardava davvero
preoccupata.
“Farai meglio a
dimenticare quei passi prima che tu parta per la Francia, Maria.” Sentenziò con
un tono che non dava alcuna possibilità di replica né tantomeno di appello.
Maria si girò verso la sorella, che si stava alzando dalla sedia ed annuiva,
sorridente.
“Che ti avevo detto
Maria?” Esclamò Isabel. “Meno di tre minuti alla reazione..” Ridacchiò
affacciandosi sulla soglia e guardando Caterina che pian piano si stava
rendendo conto di essere stata buggerata.
“Che rabbia, pensavo avrebbe
resistito di più prima di sbottare..” Le fece eco la sorella andandole vicino e
godendosi da lì la scena.
Vedendole così palesemente
in accordo, Caterina si girò verso il marito e lo guardò come a chiedere
conferma di quanto le due monelle avevano tramato alle sue spalle.
“Sì, mia cara, credo
proprio che queste due mascalzone vi abbiano combinato un bello scherzo.” Rise
lui.
“Un momento..” Protestò
Maria, alzando le mani davanti a sé. “Io non ho fatto nulla. L’idea è stata..”
“Sì, sì, sono io la
colpevole..” Ammise subito Isabel. “Chi mai potrebbe essere l’autrice di una
cosa come questa, se non io?” Aggiunse, in tono scherzoso, ma facendo capire che
quella nomea, per quanto corretta, le dispiaceva un po’. E mentre Maria andava
subito ai piedi di sua madre, a scusarsi e in qualche modo ricomporre la cosa,
almeno per quanto spettava a lei, Isabel rimase sulla soglia, appoggiata allo
stipite della porta, come se non volesse interferire in quel quadretto. Vedendole
parlottare e spiegarsi ed Enrico guardarle assorto, Isabel tornò nella sala
accanto e rimise la viola da gamba nella sua custodia e poi si voltò per
osservare di nuovo i tre. Sua madre la guardava con dolcezza, mentre Maria
parlava con Enrico, quasi in attesa che lei le si avvicinasse. Incerta sul da
farsi, Isabel rimase ferma dove era, fino a che Caterina non allungò un braccio
nella sua direzione, come faceva quando era bambina, per chiamarla a sé. La
Principessa, obbediente, le si avvicinò, accosciandosi di fianco a lei.
“Non volevo offendervi..”
Disse subito, scusandosi e temendo che sua madre potesse esser rimasta oltraggiata
per quanto aveva detto. Ma Caterina la sorprese del tutto, aprendo la bocca ad
un sorriso enorme e posando una mano sulle sue labbra, come per zittirla.
“Il mio adorato buffoncello
di corte..” Mormorò prendendole tra le dita il mento, e poi stringendola a sé.
“Questo l’ha preso da
me!!” Eruppe Enrico, costringendo madre e figlia a sciogliere il loro
abbraccio. “La mia vena comica è di sicuro più preminente della vostra,
Caterina!!”
Isabel si voltò e lo
guardò per alcuni istanti, sorridendo lievemente. Si chiedeva se stesse dicendo
sul serio o meno, e quando lo vide convinto di quanto aveva affermato, si voltò
immediatamente verso sua madre, che lo assecondò subito, annuendo e sorridendo
a sua volta. Soddisfatto per il successo riscosso, Enrico mandò le figlie alle
loro stanze e poi guardò la moglie.
“Ogni qual volta in Scozia
non ho ricevuto vostre notizie e le risposte alle mie missive, mi son
seriamente spaventato. Poi ho pensato che voi non..” Si interruppe, guardandola
intensamente. Caterina gli posò una mano sul polso, e sorrise comprensiva, come
spesso faceva in quei frangenti. Sapeva che il marito si era verosimilmente
prima adirato molto per il suo silenzio, e che solo dopo era subentrata la
paura, ma non lo disse, sorvolando con la solita discrezione sul reale
andamento degli avvenimenti.
“Enrico, non mi sono mai
arrivate le vostre lettere..” Rispose lei paziente, come se nei tre giorni precedenti
non avessero mai affrontato l’argomento per ore e come se non avessero mai
analizzato la cosa nei minimi particolari.
Il marito la osservò con
attenzione: stava forse mentendo? E, nel caso, a che pro? Quale tornaconto
avrebbe mai potuto ricavare dalle proprie menzogne? Forse che una volta
tornato, non avrebbe scoperto il misfatto? E poi, da che la conosceva, Caterina
non aveva mai mentito, non aveva mai agito contro quello che considerava il
proprio Paese, né aveva mai messo in pericolo la vita di una sola delle persone
che le era stata affidata. Possibile che in questo caso avesse ignorato un suo
preciso ordine e gli avesse negato le truppe che esigeva e comandava
arrivassero? No, no, Caterina gli era fedele. Enrico lo sapeva. Di più, ne era
certo.
“Sire, voi pensate che non
ci sarebbero nemici così forti e infidi da attentare alla stabilità del vostro
Regno?” Chiese Caterina, prendendo in mano la situazione. Sapeva che avrebbe
potuto costarle caro farsi vedere così sicura e decisa nell’incolpare altre
persone quando la situazione non era chiara per nulla, ma non poteva fare
altrimenti. Il fatto che Enrico non avesse ricevuto le risposte sue, di sir
More e di tutti coloro cui aveva scritto, significava che qualcuno aveva
tentato di isolarlo, riuscendoci pienamente, creando così un vuoto tra il Re e
i suoi collaboratori intollerabile ed eversivo. Chiunque aveva agito a quel
modo sapeva perfettamente cosa avrebbero significato le sue azioni ed era
quindi impensabile si fosse trattato di un gesto momentaneo o di un incidente.
“Voi credete…” Chiese,
improvvisamente spaventato da quella eventualità. “Io non.. ecco io non.. non
pensavo che qualcuno potesse volere la mia rovina, e il mio trono. Non dopo
Buckingham, almeno..”
Dopo quelle parole, piene
di sconforto e quasi rassegnate, Caterina gli accarezzò il viso.
“Maestà, voi siete un re
amato e benvoluto.” Gli disse in modo risoluto. “Il vostro Paese vi ama e vi
rispetta, e questi sono gli atti di pochi ribelli. Avete il dovere di capire di
chi si tratti, trovarli ovunque si nascondano e comminare la massima pena. Ma
fareste un torto a milioni di sudditi se pensaste che l’Inghilterra non vi è
fedele.”
Enrico la guardò in
silenzio, ammirato, come molte altre volte. Gli occhi della moglie
scintillavano di orgoglio e di intelligenza. Era stato un pazzo a pensare che
una sciocca ragazzina potesse prima o poi diventare ciò che Caterina era, per
nascita e per natura: una regina intelligente, misurata, astuta e brillante.
“Perfetto
sir Fitzwilliam. Fate entrare Sua Maestà.” Giacomo si alzò in piedi e restò in
attesa.
Quattro
ore prima aveva accettato formalmente la proposta di pace di Enrico e aveva
mandato una delegazione affinché preparasse una bozza assieme alla delegazione
inglese, che poi i due Sovrani avrebbero firmato.
“Enrico
Tudor, Re di Inghilterra!!” Annunciò il ciambellano a gran voce. Giacomo
contrasse la mascella per un istante e chiuse gli occhi. Era nervoso ed
eccitato assieme. Enrico Tudor aveva abbassato la cresta, finalmente, e di
fronte a sé vedeva arrivare un leoncello scornato e vagamente irritato per la
conclusione di quella vicenda. Il Re scozzese represse un sorriso e facendo
appello a tutto il suo sangue reale, andò incontro a colui che fino a pochi
giorni prima avrebbe voluto vedere ucciso in qualsiasi modo, piuttosto che
avere come alleato.
“Caro
fratello!” Gli disse, aprendo le braccia e sorridendogli quanto più poté.
Enrico rimase per un attimo impassibile e poi sorrise a sua volta.
“Maestà..”
Gli rispose inchinandosi in modo cerimonioso e sottraendosi allo stesso tempo
al suo abbraccio. Giacomo perse per un istante il sorriso, ma dopo pochi
istanti si riprese. Per quanto fosse furente non avrebbe mai dato la
soddisfazione di rendere visibile questo suo stato d’animo. Non la avrebbe data
né ad Enrico, né a chi era assieme a lui.
“Accomodiamoci.”
Propose gentilmente Giacomo, mentre gli ufficiali inglesi continuavano a entrar
nella sala. Il Re scozzese istintivamente si sentì disturbato e distratto da
tutte quelle persone. Non si aspettava che Enrico si portasse dietro il seguito
delle grandi occasioni, ed invece non meno di cinquanta persone sfilarono
ordinatamente e si disposero a ferro di cavallo, lungo il muro della sala, alla
destra, alla sinistra e davanti ai due sovrani, che sarebbero stati al centro.
“Vostre
Maestà, affinché possiate uniformarvi a questo trattato di amicizia e concordia
perpetue, con i vostri sigilli ratificate la pace tra Inghilterra e Scozia.. In
qualità di legato Papale sono testimone delle firme che le Vostre Maestà apporranno
su questo trattato di reciproca amicizia e che nulla lo romperà. Così Dio vi
aiuti.” Il Vescovo Stuart, primate della Chiesa Scozzese avanzò con in mano la
pergamena su cui Enrico e Giacomo avrebbero dovuto firmare. Arrivato davanti ai
due Re, il prelato sorrise e poi porse il trattato. Cavallerescamente Giacomo
lasciò che fosse il collega a prenderlo e sistemarlo sul leggio, poi assieme
presero la penna d’oca, la intinsero nell’inchiostro e, dopo un ultimo sguardo
reciproco, si prepararono alla firma.
Poco
prima di firmare, Enrico tossì un paio di volte. Giacomo non se ne preoccupò,
né ci fece troppo caso, ma poi un sibilo corse per tutta la sala. Quando il
Sovrano scozzese alzò gli occhi non vide che le porte della sala
improvvisamente chiuse, e poi il massacro dei suoi da parte degli inglesi.
Gli
accompagnatori di Enrico fecero in modo di disporsi dietro agli uomini di
Giacomo, con un rapporto di due a uno. La sorpresa, la buona sorte e a velocità
dalla parte dei primi, ed i secondi vennero sgozzati uno per uno, praticamente
in modo simultaneo. La maggior parte dei soldati scozzesi non ebbe nemmeno il
tempo di accorgersi cosa stesse succedendo che già il sangue aveva cominciato a
scorrere giù dalle loro gole, lungo il loro collo e gli abiti, fino a terra.
Bloccato
prima dal terrore e poi da due uomini di Enrico, il Re scozzese non ebbe modo di
reagire in alcun modo. Oltre e più di tutto, era sconvolto e disgustato allo
stesso tempo. Enrico gli aveva teso una trappola, aveva abusato del credito che
gli era stato concesso, mentendo volutamente su una delle cose più sacre, ossia
un’offerta di armistizio. Aveva tradito la fiducia di due Paesi e le speranze
di pace dell’intera Europa. Inoltre agli occhi di Dio era uno spergiuro ed un
falso. Difficilmente avrebbe potuto essere assolto dopo una cosa del genere,
non importa chi avrebbe ascoltato la sua confessione e la sua richiesta di
perdono.
Da
fuori si sentivano le urla disperate della sua gente, i colpi di mazza e di
spada contro le colonne, i pilastri ed i muri del palazzo reale, contro le ossa
delle persone.
“Vi
darò tutto quello che volete, ma vi prego, fermate tutto questo. Risparmiate la
mia vita.” Implorò Giacomo.
“Dì
le tue preghiere, e chiedi perdono a Dio..” Gli rispose Enrico, sprezzante. Dopo
pochi istanti, afferrò la spada di Charles Brandon, che teneva fermo Giacomo, e
lo trafisse. Il corpo senza vita di Giacomo si afflosciò ai suoi piedi. Enrico
si girò verso uno dei suoi soldati e gli ordinò di decapitarlo. L’uomo rimase
per qualche istante interdetto, ché non si aspettava un gesto così brutale, ma
poi lo sguardo feroce di Enrico lo fece obbedire assai velocemente.
Nelle
settimane che seguirono, gli uomini di Enrico uccisero i personaggi più
influenti della nobiltà scozzese, sia quelli notoriamente fedeli a Giacomo, sia
coloro che erano più distanti dall’ex Sovrano, quando non addirittura ostili.
Per giorni e giorni fecero bella mostra di sé le teste mozzate e fissate sulle
picche agli angoli più frequentati delle città, o i corpi penzolanti dagli
alberi. Fu un monito nemmeno troppo velato, ma efficace. Il popolo scozzese,
solitamente riottoso e restio ad ogni giogo, si piegò abbastanza in fretta alla
sistematica e metodica brutalità di Enrico e non oppose praticamente
resistenza.
Una
volta decapitata la nobiltà ed asservito il popolo, Enrico pensò al ritorno a
Londra. Per un paio di giorni rifletté in totale solitudine su chi lasciare a
Edimburgo, in sua vece. Inizialmente pensò a Brandon, ma poi si disse che il
duca gli avrebbe fatto comodo nel viaggio di ritorno, così decise di lasciare
lì sir Dacre. Era il giusto premio per il suo comandante, ed essendo un soldato
di lungo corso la cui risolutezza e decisione erano ben note, la sua presenza
avrebbe di sicuro scoraggiato eventuali ribellioni, sia da parte dei nobili,
che da parte della popolazione.
Fu
così che, poco meno di un mese dopo la vittoria su Giacomo, Enrico si preparò
per tornare a Londra, con la corona di Scozia in regalo per Caterina.