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Autore: Arts    10/02/2010    6 recensioni

Sono un'esperimento. Lo so. Suona strano. Sono cresciuta in laboratorio sotto terra, senza sapere niente del mondo di fuori. La mia vita è sempre stata quella di una cavia di laboratorio, di un qualcosa che non è considerato come vivo.
Ma sono riuscita a scappare. Ho scoperto che il mondo di fuori non è un'impresa facile come pensavo.
Ho scoperto che anche lì bisogna saper sopravvivere.
Ho scoperto da poco, inoltre, che la mia vita non è altro che un test.
C'è qualcosa da risolvere.
La cosa buffa è che se faccio il puzzle, questa volta, salvo il mondo.
E' una cosa ridicola, ma mi sembra di aver avuto una promozione: da esperimento a eroina dell'universo. Insomma, mica male per una ragazza alata, no?
[Dalla storia] 
«All’Istituto, che tipo di esperimenti fanno?»
Lo sguardo che gli rivolsi era freddo come il ghiaccio, quando risposi: «Cose tipo me, hai presente?»
«Cose orribili, insomma», replicò lui e mi fece un sorrisetto di superiorità che sentii di odiare assolutamente con tutto il mio cuore.
Gli lanciai uno sguardo sprezzante. «Non siamo fatti per essere belli, siamo fatti per saper uccidere».
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se c’era qualcosa che odiavo seriamente fare era esattamente ciò che stavo facendo in quel momento. Odio essere costretta a fare qualcosa che non mi piace, ma non è facile evitare di fare il volere degli Addetti all’Istituto e, a meno che non trovassi il modo d’ammazzarli tutti uno per uno, non c’era proprio nessun modo di sottrarmi alle torture di quella mattina.

«Uccidilo », disse l’Addetto guardandomi.

La stanza bianca sembrava essersi rimpicciolita da quando era entrato l’uomo. Eravamo in tre. Io, lui, e quella sottospecie di scimpanzé che si muoveva freneticamente, strillando e correndo da una parte all’altra della stanza come impazzito.

Sapevo che si riferiva allo scimpanzé. Voleva che lo uccidessi. Poi ne sarebbe arrivato un altro e avrei dovuto, che so, ammazzare anche quello e poi un altro, e un altro ancora. Andava avanti così da tutta la mattinata, e ne avevo abbastanza.

«Non ne avete uccisi abbastanza, di scimpanzé? Insomma, che fate se vi finiscono? Sarebbe più istruttivo provare a uccidere una forma di vita meno intelligente, e che quindi potrebbe essere eliminata molto più volentieri, come lei, per esempio», replicai.

Sarcasmo.

Lui non rise. Peccato.

Puntai lo sguardo verso l’uomo, anche sapendo che la sua immagine non era altro che una proiezione. Figuriamoci se un Addetto avrebbe mai corso il rischio di avvicinarsi a qualcuno come me. E faceva bene, perché se avessi potuto l’avrei incenerito.

E visto che gli Addetti non hanno senso dell’umorismo, la proiezione non fece altro che rivolgermi una sguardo truce per poi ripetere: «Uccidilo »

Sì, diciamolo seriamente, mi fai davvero molto paura. Come no. Okay, basta: mi sono stancata di uccidere scimmiette indifese.

Incrociai le braccia e mi girai verso la parete destra della stanza bianca. Sapevo che, anche se non si vedeva dal mio posto, c’era un vetro trasparente lì e ci dovevano essere sei o sette uomini in camicie bianco o da lavoro a guardarmi perplessi.

Era un trucchetto che utilizzavano spesso lì, nella stanza. Uno pensava di trovarsi semplicemente in una stanza completamente bianca – quasi accecante - e invece, a sua insaputa, era rinchiuso fra quattro pareti trasparenti piene di Addetti.

«No», dissi fermamente.

Fu a quel punto che la proiezione scomparve e io pensai, ingenuamente, che per quel giorno si fossero decisi a lasciarmi in pace.

E invece no.

Non successe niente per qualche secondo, se non un leggero ticchettio che mi portò a guardarmi il polso. C’era sempre stato un braccialetto d’identificazione lì. Lo so, perché lo vedo praticamente dalla nascita. Eppure, ora erano comparsi due numeri in rosso sul display che facevano il conto alla rovescia e ogni secondo che passava il rumore di un leggero “biip” rimbalzava fra le pareti.

Nel mio mondo, un piccolo orologio rosso e lampeggiante - mi era sempre sembrato innocuo – che d’un tratto inizia misteriosamente a fare il conto alla rovescia con un piccolo biip a ogni secondo che passa non è per niente una buona cosa.

Segnava 2 minuti esatti. Meno un secondo, due secondi, tre secondi …

Esploderà!, disse una vocina piena di panico nella mia testa. Io la zittì violentemente; non perché non fossi della stessa opinione, ma perché in quel momento avevo bisogno di mantenere il sangue freddo e le vocine piene di panico non aiutavano.

«Esploderà, a meno che tu non decida di fare come ti abbiamo detto. A te la scelta», commentò la proiezione dell’Addetto.

Sarà per l’orgoglio, o per la poco modestia, decidete voi, ma mi convinsi all’istante che fosse tutta una balla. Mancava un minuto e mezzo e io me ne stavo lì, semplicemente a fissare il muro bianco degli Addetti con uno sguardo assassino.

Se gli sguardi potessero uccidere, loro sarebbero stati già morti.

Probabilmente si stavano chiedendo se la mia fosse ingenuità o testardaggine, o tutte e due le cose insieme. Me lo chiedevo anch’io, in realtà. Sapevo solo che quella volta, quell’unica volta, non gli avrei ubbidito e avrei messo fine a tutto.

Basta.

La proiezione mi si avvicinò inarcando un sopraciglio: «Davvero vuoi morire così, mocciosa?».

C’era un che di urgente nella sua voce e questo mi fece capire quanto costava loro perdere un esperimento importante come me, forse anche troppo di quello che potevano sopportare. Erano uomini di scienza dopotutto e perdere me sarebbe come perdere un grosso libro pieno d’informazioni utili e interessanti da cui potevano ancora imparare molto, a mio sfavore.

Guardai lo scimpanzé che d’un tratto si era fermato.

No.

Non avevo intenzione di ucciderlo. Non tanto perché fossi un ambientalista accanita o qualcosa del genere - vista la mia condizione sarebbe stato ridicolo – ma più che altro perché ero stanca di ubbidire, di quella vita, di essere nient’altro che una cavia.

Non avrei fatto come volevano loro oggi, non questa volta, e fu questo pensiero a spingermi a rispondere con decisione all’Addetto.

«Sì», dissi seria, «preferisco morire così che vivere altri due o tre anni solo per fare cavia per voi, luridi imbecilli bastardi».

Non avevo gridato, ma la mia voce sembrò comunque rimbalzare fra le pareti della stanza esattamente come faceva lo squittio dei secondi che passavano. Osservai i minuti che mi restavano. C’era qualcosa che non andava, non c’era qualcuno per cui sarei sopravvissuta. Non c’era niente per cui valesse la pena di restare, ma qualsiasi cosa per fare un dispetto a loro.

Meno dieci, nove, otto, sette…

«NO!», gridò un Addetto«FERMATELA! JEKINS, DISATTIVA IL BRACCIALE! ORA!»

E ancora sei, cinque…

«NO! E’ IMPORTANTE! JEKINS!», tuonarono stavolta due o tre Addetti disordinatamente.

Ma era tardi.

Quattro, tre…

«Ci vediamo». Spalancai le ali lunghe circa quattro metri, e alzai il dito medio verso il muro: il mio ultimo saluto.

Due, uno …

Zero.

E poi, semplicemente, fu il buio.

---- 

 

«Fire! Fire! Svegliati»

«Mhm… sono appena esplosa, lasciami in pace», mugugnai confusamente.

«Ma.. Fire! E’ urgente! Dai, sveglia! Non sei esplosa, okay? Il braccialetto era tutta una balla, quindi, alzati e cammina. James vuole parlarti.»

Mi alzai di botto.

Chi? Cosa? Come? Perché?.

Era stato tutto solo un sogno?

Probabilmente avevo pure parlato nel sonno, quindi Arijane sapeva esattamente cosa avevo sognato. Grandioso, davvero.

Socchiusi gli occhi, infastidita dalle luce fredda delle lampade al neon. La mia stanza poteva essere di tre metri quadrati, con gli unici mobili che erano: una sedia, il letto su cui ero seduta e uno specchio al muro. Nessuna finestra. Poi dite perché odio i posti chiusi a morte.

Provateci voi a vivere qui per quattordici anni, e poi mi raccontate.

Mi stiracchiai e poi, nel mio totale e incredibile stato confusionale mattiniero, mi concentrai sulla ragazzina che mi aveva svegliato.

Era una ragazzina sugli undici anni, pelle chiara, e capelli castano biondi. Arijane, la numero undici. Era una dei venti esperimenti alati dell’Istituto.

Eh, sì, miei cari.

Se in questo momento vi state chiedendo: cosa? In che senso esperimenti alati? Bè, esattamente quello che avete intuito: lei e altri sedici ragazzi hanno le ali. E non perché si sono bevuti Red Bull. Magari fosse per questo; no, decisamente peggio: siamo frutto di esperimenti genetici, metà umani metà uccelli nel mio caso. Ma varia da animale ad animale, cioè da persona a persona.

Molti di noi muoiono.

La maggior parte dopo tempo dalla nascita, e chi sopravvive ha una vita da cavia. Che vi aspettavate quando ho detto Istituto? Una scuola di danza?.

No, tanto per spiegarvi in che situazione si trova certa gente.

«Fire..», mi chiamò Arijane, con le ali sfumate di castano dorato dischiuse per l’impazienza, come se fosse pronta a volare via.

E intendo letteralmente.

«Arijane, hai detto che James mi vuole parlare? Ma poi, scusa, come hai fatto a entrare qui dentro?», chiesi inarcando leggermente le sopraciglia.

«Ho sviluppato un nuovo potere! Riesco a diventare intangibile e così sono passata attraverso la porta. Guarda, tipo così».

Arijane si alzò dalla sedia, chiuse il pugno, tirò indietro il gomito e fece per colpirmi. Non ebbi il tempo di schivare istintivamente che mi ritrovai il gomito di Ari completamente infilato nello stomaco, e il resto dell’avambraccio che fuoriusciva dalla mia schiena.

Non è una bella sensazione. Nessun dolore, più che altro percepivo semplicemente il tocco della ragazzina, come se mi avesse semplicemente appoggiato una mano sulla spalla.

«Grandioso, no?»

Arijane accennò a un sorriso, senza ritrarre il braccio.

«Sì, proprio bellissimo. Ora però togli la mano», commentai.

«Oh, sì, sì … fatto», replicò Arijane senza il minimo imbarazzo, e si affrettò a tirare indietro il braccio. «Credi che se per caso passassi la mano attraverso il collo di qualcuno, e poi tornassi normale di colpo, quello morirebbe? Ci pensi? Che forza!»

«Credo che sì, morirebbe. Quindi evita di dimenticare particolari importanti come, per esempio, il tuo braccio nel mio stomaco o cose del genere.»

Annuì.

Ci mancava solo una bambina fantasma, pensai. Sapevo che probabilmente gli Addetti avevano già messo in atto un modo per disattivare il suo potere, o almeno impedirle di usarlo per fuggire. Ero lì da troppo tempo per non immaginarlo.

Mi andai a guardare allo specchio, lavandomi la faccia con l’unica bacinella d’acqua che avevo a disposizione, poggiata a terra. Dischiusi le ali nello spazio che mi consentiva la mia stanza. Lo specchio rifletté una ragazza alta, esile, dai capelli rossi e selvaggi che le scendevano lungo la schiena, e affusolate e allo stesso tremende ali color ruggine, con le punte delle piume completamente bianche.

Io.

La numero sei, un’altra sopravvissuta ai sadici esperimenti degli Addetti. Uno degli esperimenti riusciti, come avrebbero detto loro. Rabbrividii, ma non dal freddo. Lì non c’era mai freddo, né caldo. La temperatura, all’Istituto, era sempre orrendamente mite.

«James vuole parlarti. E’ importante. Me l’ha detto ieri sera, all’ allenamento, che vuole parlati. Strano, no? Cioè, lui non è un tipo che parla con la gente, no? Insomma non ha mai fatto così, no? Vero? E’ per questo che credo sia importante, capisci?»

Avendo capito soltanto la metà di ciò che aveva detto Ari, tanto aveva parlato in fretta, mi limitai ad annuire in modo serio.

M’infilai il mio pigiama bluastro. Uguale a quello che indossava Arijane e il resto degli esperimenti dell’Istituto. All’Istituto dall’altronde non c’erano colori; tutto era blu, verde, o bianco. Gli stessi colori che avrebbe potuto avere un qualsiasi ospedale.

«Fire? Forse dovrei tornare in camera mia. Presto suonerà la campanella delle sette. Se mi vedessero uscire dalla tua camera, insomma… non voglio avere guai. Io qui …»

«Tu qui? Perché, tu sei mai stata nella mia cella? Io non ti ho mai visto qui, sinceramente», commentai strappandole un sorriso.

«Esatto. Ci vediamo… alla mensa, okay?»

«Okay»

La differenza fra Arijane tangibile e Arijane intangibile stava – ma và? Non l’avevate immaginato – nel colore. Insomma, quando era tangibile Arijane appariva chiara, normale insomma, ma quando era intangibile sembrava come scolorirsi.

Sì, esattamente come un fantasma, o una proiezione: qualcosa di estremamente immateriale. Devo dire che mi fece un po’ impressione vederla attraversare tranquillamente il muro come se niente fosse; della serie: Si, sto passando attraverso un muro, e allora?

Proprio nello stesso momento in cui Arijane scompariva attraverso il muro, la campanella delle sette trillò per tutto l’Istituto.

Le serrature delle porte di ogni stanza scattarono contemporaneamente con un sonoro e familiare click. Con un sospiro, spalancai la porta e uscii fuori nello stretto corridoio dal pavimento di linoleum verde, mettendomi in fila insieme ad altri sedici ragazzi.

Sedici esperimenti riusciti.

No, se ve lo state chiudendo non siamo solo in sedici esperimenti riusciti. Ci fanno uscire in orari diversi per fare allenamento. A gruppi di sedici, tutti diversi tipi di ricombinanti, in modo che se mai ci fosse una ribellione potrebbero bloccarci facilmente.

Continuai a guardare dritto, fissando i capelli biondo sporco del ragazzo che mi stava davanti. Ero l’unica alata lì, e mi misi a osservare il resto dei sedici. Notai un ragazzo-lupo, un ragazzo-scimmia, una ragazza con la pelle maculata come un ghepardo.

E infine, primo della fila, un ragazzo che mi sembrò del tutto normale – niente coda, pelle leopardata, o orecchie pelose o cose del genere –, finché ovviamente non mi accorsi della lingua biforcuta e sottile come quella di un serpente e del sibilo annoiato mentre spalancava la bocca in uno sbadiglio.

Attraversammo il corridoio stretto in una fila ordinata e silenziosa, dove pure il rumore dei nostri passi sembrava sincronizzato. Mi sentivo tanto una carcerata e in fondo lo ero. Libera non lo ero mai stata, e tutto quello che avevo visto del mondo era stato quando avevo dovuto aiutare l’esercito americano e italiano in una battaglia contro il Giappone.

In realtà, del mondo di fuori avevo visto solo la guerra. Niente di più.

Entrammo in una grossa stanza dal pavimento in legno, che assomigliava a una gigantesca palestra di scuola, se non fosse stato che i muri erano tappezzati di ogni tipo di arma, tenute tutte in teche di vetro agganciate al muro, e dotate di ogni tipo di allarme.

Ci disponemmo in fila orizzontale, rigidi e tesi.

Un Addetto e un Cacciatore, quest’ultimo con un sorriso sadico stampato in faccia, si pararono davanti a noi per spiegarci l’allenamento di oggi.

«Oggi niente pesi, e niente corse o cose del genere. Un combattimento, sarà questo l’allenamento di oggi. Con un'unica particolarità: sarà all’ultimo sangue. Siete in troppi nell’Istituto, e abbiamo bisogno solo dei migliori; non ci servono pesi, né esperimenti falliti. Dimostrate che siete degni di rimanere in vita. Chi è inutile si vedrà presto, abbastanza presto»

Grandioso.

Iniziamo bene la giornata.

Iniziò a elencare le coppie. La maggior parte delle quali era senza equilibrio. Esempio: un ragazzo lucertola contro un ragazzo-pantera. Che speranze di vita aveva il primo?. Gli Addetti volevano solo affibbiare a noi il lavoro sporco di uccidere gli inutili e c’erano riusciti.

Così, quando sentì il numero sei, il mio numero, contro il numero ottanta, mi si chiuse lo stomaco. Percorsi velocemente la stanza con gli occhi, alla ricerca del numero ottanta.

E indovinate un po’ chi era l’ottanta? Non lo sapete?

Bene, vi informo che il mio avversario era il ragazzo-serpente che in quello stesso momento mi osservava intensamente con i suoi occhi neri e lucidi.

Con passo lento e misurato si avvicinò a me, mentre tutte le otto coppie sceglievano un area dell’enorme stanza.

Una volta che fummo sistemati ognuno nel proprio spazio comparvero le familiari pareti di vetro scese dal tetto che divisero ogni coppia. Funzionava così. La palestra era divisa in otto spazi, e ogni spazio veniva racchiuso in un piccola stanzetta di vetro.

Questo solo quando c’era qualche combattimento.

Il ragazzo-serpente mi fece un largo sorriso insolente, leccandosi le labbra.

«Dovrei combattere contro di te? Inssshomma che cossa sshei? Un pulcino?», ironizzò alludendo alle mie ali leggermente dischiuse.

Incrociai le braccia al petto, cosa che facevo sempre quando m’incavolavo. «Può essere. E tu che sei? Il gemello del ragazzo lucertola?»

Sorrise ancora, stavolta divertito. «Può essshere».

E in quel minuscolo scambio di battute memorizzai tutte le informazioni possibili su di lui. Dal modo di usare la mano destra intuii che fosse destrimano, aveva un modo di muoversi flessuoso ed estremamente elastico come i serpenti, tanto che mi venne il sospetto che fosse velenoso, come loro.

La campanella suonò, annunciando l’inizio del combattimento.

«Ssshi inizia», sibilò il ragazzo-serpente.

«Già», replicai e feci un sorriso sfacciato e irritante, «Si inizia.»

 

 

 

 

 

Angoletto dell'Autrice

 

Ebbene sì, per vostra sfortuna sono tornata.

La storia si incentra su un gruppo di esperimenti alati di un istituto di scienziati, che riesce a fuggire e...

Leggete e saprete! =)

 

Bè, per il resto ho preso qualche spunto da Maximum Ride di James Patterson, ma spero che queste somiglianze con il libro andranno a sparire via vi che andiamo avanti nella storia.

O almeno lo spero.

 

Grazie a Lewaras, che è stata la prima a commentare. Adoro le tue storie su EEP!

Eh sì, so che i sono delle somiglianze fra questo e il libro. Spero riuscirò a mandarle via, ovviamente gradisco che tu me lo abbia fatto notare ^-^

 

Byeee

Angel

 

  
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