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Autore: Oducchan    25/02/2010    5 recensioni
*Non andava bene.
Non andava bene per niente. Kami solo sapeva cosa ne sarebbe scaturito.
Deidara si ravviò la chioma bionda sulle spalle, fissando nervoso la coppia di studenti appena formata al primo banco: no, non andava per niente bene che Kisame Hoshigaki fosse stato costretto da un professore ormai stufo a sedersi accanto alla silenziosa figura di Itachi Uchiha: uno, perché in quel modo metà della sua visuale della lavagna andava beatamente a farsi fottere; due, e non meno importante, perché da quella convivenza forzata non ne sarebbe nato un bel niente di buono, se lo sentiva. Oh, se lo sentiva.*

Itachi Uchiha, famiglia importante, un cervello geniale, una vita sociale inesistente, un segreto celato dietro due lenti di occhiali.
Kisame Hoshigaki, famiglia disastrata, impegno scolastico scadente, vita sociale sull'orlo della criminalità, un coraggio aggressivo ad infrangere gli specchi nel silenzio.
Una storia come tante, come dei compagni di banco qualunque. O forse no.
[seconda classificata ex aequo allo "scolastic yaoi contest" di rei murai e iaia86, vincitrice premio Ic personaggi]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Deidara, Itachi, Kisame Hoshigaki | Coppie: Itachi/Kisame
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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- Questa storia fa parte della serie 'Fumo di china'
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Devo chiedere immensamente perdono.
Non ho trascurato volontariamente questa storia. Solo, il mio pc si è infettato, ho dovuto rimuovere NVU, poi mi sono dimenticata d'installare il programma nuovo e alla fine ho avuto mole di cose da studiare.
Quindi chiedo scusa, gomen, gomn e ancora gomen
Bene, ora vi fornisco l'ultimo capitolo. quello che dovrebbe risolvere un po' di dubbi, ma che credo ne fornirà altrettanti.
buona lettura

Eyes - Fumo di china


3]


-Pein. Che sai dirmi su Kisame Hoshigaki?-
Esalando una sottile nuvola di fumo perlaceo, il ragazzo dagli insoliti occhi grigi studiò con attenzione il suo interlocutore, prima di fissare la sigaretta che stringeva tra indice e medio come in cerca d’ispirazione.
-Itachi Uchiha che viene a cercare informazioni… su un tipo simile, poi. Che sta succedendo?- chiese, vagamente curioso, prima di aspirare a fondo un’altra boccata. L’interlocutore non rispose, limitandosi ad accentuare l’aria gelida e imperturbabile che lo contraddistingueva, cosicché al giovane metallaro altro non restò che iniziare a snocciolare le sue informazioni.
-Dunque, vediamo… viene da una famiglia difficile. Il padre è dentro per spaccio, la madre tira avanti a stento… lui non è uscito un granché, anche come cervello. Ha fama di essere un attaccabrighe coi fiocchi, e di essere alquanto suscettibile. Va in giro con un gruppo di altri ragazzi dei quartieri bassi, si fanno chiamare i sette spadaccini, magari li hai già sentiti nominare…non hanno una bella nomea. Ne fa parte anche Zabuza Momochi, quello che è stato espulso in prima. Ah, e se si applicasse sarebbe il miglior quarterback della scuola-
Itachi corrugò le sopracciglia, osservando poco convinto un misero lichene che cresceva solitario ai suoi piedi.
-Quarterback?-
-Beh, sai com’è…è bello grosso. Comunque frequenta raramente gli allenamenti, quindi dubito che lo vedremo mai al Sei Nazioni. Poi…beh, a scuola fa schifo, ma questo lo saprai anche tu-
-Altro?-
-Non che io sappia- ennesima boccata, prima che l’aria venisse offuscata dal puzzolente odore di nicotina.
Annuendo tra se e sé, l’Uchiha non fece una piega, cavando di tasca un paio di banconote mal arrotolate e allungandole al fumatore. Ma prima che potesse allontanarsi, questi lo fermò, buttando a terra il mozzicone della sigaretta consumata.
-Uchiha, senti, questo è un consiglio spassionato, e te lo do’ volentieri gratis. Stai alla larga da quel tipo: non è il genere di persona che è bene farsi amica-
Itachi non fece una piega, serio come al solito. Si limitò ad annuire distrattamente, risistemando una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
-Non sarà un problema- mormorò, assente – non è mia intenzione, diventare… suo amico-


Lo squillo della campanella che annunciava il termine delle lezioni venne accolto con enorme sollievo dai ragazzi sottoposti alla tortura scolastica: in ogni aula della scuola il trambusto delle sedie spostate, del vociare tra compagni e i colpi degli zaini che venivano riempiti e spostati si levarono all’unisono, mentre le centinaia di ragazzi sciamavano fuori dalle classi fino al cortile d’ingresso come formiche operaie in fuga dal formicaio pericolante. Con calma, Itachi terminò di infilare gli ultimi libri nella sua tracolla, prima di infilarsela sulla spalla e sistemare la sedia al suo posto, tenendo blandamente sotto osservazione con la coda dell’occhio i movimenti del suo vicino. Attese che gran parte dei compagni di classe uscissero, permise che Deidara gli si avvicinasse come al solito, sommergendolo di chiacchiere non richieste mentre si sistemava la capigliatura, annuì anche alcune volte alle sue domande retoriche: ma quando venne il momento di incamminarsi, notando con un rapido moto del capo che non era rimasto nessuno all’infuori di loro due e del terzo incomodo, prese la palla al balzo, interrompendo sul nascere un discorso insensato.
-Perdonami, Deidara. Purtroppo oggi ho un impegno, vai avanti senza di me. E salutami Sasori-
Il biondo ragazzo spalancò gli occhi, esterrefatto. Dell’intera popolazione maschile che componeva il gruppo di studenti della loro quinta, era, dacché avesse memoria, l’unico che ancora si sforzava di essere quantomeno civile nei confronti della figura di Itachi, se non altro perché era uno dei pochi che lo conosceva dai tempi in cui entrambi erano alti poco più di un soldo di cacio. Ogni giorno, quindi, Iwa si sforzava di mantenere la calma, accantonare qualunque malevola espressione frutto delle ore di tensione, e improvvisava su due piedi un discorso, magari senza capo né coda, per riempire il silenzio tombale che li scortava dalla porta dell’aula fino al parcheggio di fianco al cortile, dove le loro strade si dividevano. Lo faceva per spirito di dovere e sacrificio, ma mai, mai Itachi gli aveva rivolto la benché minima parola; soprattutto, mai gli aveva dato buca in maniera così spudorata! Salutargli Sasori, poi… era incredibile il solo fatto che si fosse ricordato il nome del suo migliore amico, figurarsi se gli mandava anche il buongiorno. Studiò con sospetto il viso pallido e gli occhi scuri, quasi vi cercasse una risposta insita: ma, notando che le pupille nere continuavano a dardeggiare sulla schiena di Kisame, ancora intento a litigare con la cerniera del suo zaino, increspò le labbra in uno sbuffo risentito, ruotò i tacchi borbottando qualcosa d’incomprensibile e marciò fuori dalla classe, rimuginando fra sé e sé se fosse meglio allertare la polizia per un probabile omicidio o chiudere a chiave la stanza. Niente di buono, non l’avesse mai detto…
Vedendolo sparire dietro l’angolo, Itachi trasse un sospiro più profondo, prima di voltarsi verso l’unico altro presente per ottenere la sua attenzione.
-Hoshigaki-
Con un sussulto, il ragazzo alzò il capo dalla sacca contro la quale stava sfogando la sua rabbia.
-Uchiha- rispose, rigido, mantenendo un tono difensivo. Il moro, invece, abbassò lo sguardo sul piano del tavolo vicino, poggiando un palmo aperto su di esso e lasciandovi scorrere i polpastrelli, sovrappensiero.
-Quello che è successo ieri….-
-Ieri? Ieri non è successo niente, Uchiha. Niente- e l’ultima parola venne sottolineata con un’occhiata talmente gelida che, nonostante non lo stesse direttamente fissando, l’interpellato non poté non notarla. Si morse un labbro, avvertendo inaspettatamente quel gelo scivolargli giù dalla bocca dello stomaco fino ai polmoni, ma si sforzò di non rivolgergli ancora lo sguardo.
-Questo non è…-
-Non è cosa, Uchiha? Non è un bel niente. È inutile parlare di un qualcosa che non è mai accaduto-.
Stavolta, non poté frenarsi, e alzò il mento con un moto repentino del capo, pronto a far fronte a qualunque cosa avesse trovato in quello sguardo blu mare. Perché Kisame non poteva entrare nel suo universo privato, non poteva accedervi, piantare le tende e poi andarsene fracassando quel che trovava sulla sua strada. Non poteva arrivare tanto vicino a infrangere gli infiniti strati di silenzio che aveva eretto come protezione dal mondo e poi lasciarlo a vacillare sull’orlo di essi. Non poteva fargli provare tutto quello – fastidio, irritazione, sconcerto, nervosismo, sdegno, stupore, rabbia – e poi far finta che non fosse successo niente.
-Hoshigaki- soffiò, la voce ridotta a uno stridore metallico. E quando l’interpellato già stava per voltarsi per tornare ad ignorarlo, decise di infrangere, lui stesso, con la sua sola forza, quegli strati, quello scudo. Fece un passo avanti, lasciando cadere a terra la sacca con i libri scolastici, afferrò tra le dita pallide la T-shirt stinta che copriva il torace sviluppato dell’altro ragazzo e lo strattonò finché non lo ebbe totalmente rivolto a sé; poi, alzandosi in punta di piedi, posò delicatamente le labbra sottili su quelle secche e screpolate che stavano vomitando ogni sorta d’insulto.
Tempo pochi secondi, giusto per sentire la propria mente andare in black-out, che due mani lo strinsero con energia per le spalle, sollevandolo quasi da terra, e lo sbatterono con foga contro il muro. Poi, il fiato che accelerava, una lingua umida che si faceva strada a forza nella sua bocca, la saliva calda che si mischiava quasi convulsamente, la certezza che sì, stava succedendo qualcosa, che era successo per davvero; e Kisame, quasi inorridito, si allontanò da lui schizzando come una cavalletta, correndo fuori dall’aula lasciando come segno tangibile del suo passaggio la porta sbattuta violentemente.
Itachi, ansante, seppe di aver appena perso.

Corse finché non iniziò a fargli male la milza, accecando la sua irrazionalità con un pulsare sordo e costante, e i polmoni non protestarono in maniera altrettanto insopportabile: allora rallentò progressivamente l’andamento fino ad appoggiarsi ansante al primo lampione trovato nel tentativo di riprendere fiato. E in quel momento, fissando la macchia di metallo scuro che appariva appannata davanti agli occhi mentre contraeva spasmodicamente i pugni chiusi cercando di regolarizzare il ritmo cardiaco, che l’enormità di quello che era successo gli apparve nella sua complessità.
Aveva baciato Itachi Uchiha.
No, meglio, era Itachi quello che l’aveva baciato, o aveva tentato di farlo, o aveva fatto un qualcosa di semplicemente simile senza un motivo apparente: no, lui gli si era letteralmente avvinghiato addosso, neanche fosse una bestia in calore o un assetato in cerca addosso. Gli era saltato addosso, dio, come se avesse atteso tutta la vita quel momento, come se avesse trovato finalmente un motivo per esistere, come se…
-Merda!- e un pugno si abbatté sul pilone ferreo risuonando secco
Per quanto tentasse di lottare per cancellare il ricordo, pregando disperatamente che non fosse mai avvenuto, non poteva far nulla contro il devastante tormento che gli si era avvolto addosso. Lo aveva sempre riconosciuto, Dio, che Itachi era particolare, che aveva quell’aspetto tanto fragile e tanto gelido in grado di attrarlo; lo aveva sempre saputo che in sua presenza non era capace di mantenere un briciolo di calma e che, invariabilmente, perdeva la pazienza ad ogni suo commento; lo aveva sempre saputo, che c’era una scintilla, nascosta sotto tutti gli strati d’indifferenza, che spettava solamente d’essere colta e che lo incuriosiva, spingendolo a continuare a suscitare delle reazioni differenti. Pensava di aver toccato il fondo, con quella dichiarazione tanto stupida, ma Dio, non s’era mai accorto di quanto oltre s’era spinto, di quanto fosse in realtà più complesso quella sorta d’interesse, di quanto restasse coinvolto da quelle reazioni…. E, cazzo, lo aveva baciato, Itachi lo aveva baciato, lui l’aveva baciato, e cazzo, non poteva nemmeno dire che era stato orribile, no, cazzo, lui gli si era gettato addosso, e lui, cazzo, cazzocazzocazzo, lui non gli piaceva, lui non poteva piacergli, lui non doveva piacergli, che cazzo stava succedendo?
Lentamente, si lasciò scivolare a terra, sul marciapiede gelido e lercio, infilandosi le mani tra i capelli continuando a fissare a terra, stralunato. Doveva restare calmo. Respirare, ed espirare, e non divagare. L’aveva baciato, va bene, non significava un bel niente, non significava niente, anche se Itachi era un ragazzo, anche se lo detestava e anche se avrebbe dovuto vederlo ogni santo giorno da lì alla fine dell’anno, anche se le sue labbra erano gelide e sapevano di… cazzo.
Si ritrovò a prendere a pugni l’asfalto, mentre lacrime di frustrazione gli rigavano il viso senza trovare freno.
-Che cazzo mi sta succedendo…?-

 
Il giorno dopo, Kisame non comparve a scuola, e neppure quello successivo. Itachi si ritrovò a ragionare su come avesse preso la notizia, se gli avessero detto che s’era definitivamente trasferito, magari in un altro stato: per quanto si ripetesse che la presenza o meno di un compagno di banco non avrebbe modificato di un millesimo la sua vita, lo sgradevole groppo che stazionava alla bocca dello stomaco da circa quarantott’ore pareva ricordargli che c’era un motivo per cui aveva fatto quel passo accettando il flebile legame che correva tra loro, seppur sottile e insicuro come una cima d’arrembaggio mal assicurata da un misero rampino *.
Il terzo giorno, il ragazzo ricomparve, arrivando con un cospicuo ritardo all’inizio della prima ora di lezione: ma il tonfo dello zaino sul pavimento e lo strascichio della sedia non furono sinonimi di gaudio. Attorno agli occhi blu, gonfi e iniettati di sangue, facevano mostra delle marcate occhiaie, a simboleggiare parecchie notti insonni; e l’espressione, tesa e rabbiosa, emanava un odio tale che nessuno dei ragazzi si meravigliò nel vederlo scostarsi dagli altri, come volesse stare lontano da tutti. Anche se Itachi sapeva benissimo, da chi in particolare si stesse allontanando.
-Hoshigaki- soffiò, frenando a stento l’irritazione – non fare il coglione-
Dal canto suo, il giovane non diede segno di averlo ascoltato, iniziando ad armeggiare con il proprio zaino per iniziare ad estrarre il materiale per la lezione. Vagamente risentito, Itachi si sporse maggiormente verso di lui.
-Hoshigaki, mi hai sentito? Se stai…-
La frase venne interrotta dall’improvviso ringhiare inferocito di Kisame, che con un celere movimento si voltò furioso verso di lui, assalendolo e spedendolo contro la parete, le dita serrate attorno al suo collo, in una presa ferrea, facendolo cozzare sonoramente col capo. L’intera classe iniziò a strillare, terrorizzata; qualcuno si alzò in piedi, cercando di fermare l’aggressore; il professore di turno, urlando, si precipitò a dividerli; ma di tutto quel fracasso Itachi non colse il minimo suono, essendo la sua attenzione risucchiata dagli occhi inferociti e dalla voce furiosa del ragazzo che lo sovrastava.
-Sto cosa, Uchiha? Vedi di starmi lontano, non osare toccarmi, hai capito? Sta lontano da me!-
Poi, finalmente, qualcuno riuscì ad allontanarlo a viva forza, mentre luce, suoni e colori parevano ritornare all’improvviso nella piccola classe in contemporanea col suono della porta che si chiudeva alle spalle di insegnante, alunni soccorritori e allievo uscito fuori controllo. Immobile e attonito, Itachi non riuscì a rispondere alle pressanti domande che la voce di Deidara continuava a porre insistentemente. A mala pena, le dita salirono alla pelle nivea della gola, dove erano rimaste impresse delle forme violacee, tastandola attonite.
Aveva appena perso tutto.

Dopo una settimana, l’ospedale decise di aver eseguito sufficienti controlli e di averlo rimesso sufficientemente in forma: il lieve trauma cranico era del tutto rientrato, costringendo a far ammettere anche la madre più ansiosa che non era più il caso di stare ossessivamente in ansia per il suo adorato primogenito; sciolta la prognosi, rassicurati genitori che il loro bambino non rischiava assolutamente più nulla, il primario aveva firmato la cartella di dimissioni, fissandole per l’indomani. Ma in quel momento, Itachi era ancora seduto, rigido come una mummia, nel bianco e asettico letto, una vestaglia linda sul corpo glabro e i residui di un inutile flebo incerottati al braccio destro. Muto e silenzioso ancor più del solito, ascoltava senza attenzione il resoconto sull’andamento scolastico di Deidara, che quotidianamente veniva ad aggiornarlo su quello che accadeva a scuola.
-Itachi? Mi stati ascoltando?-
Senza distogliere lo sguardo dalla finestra che stava contemplando, l’interpellato ripose meccanicamente.
-Certo, Deidara. Certo…-
Con un sospiro rassegnato, il ragazzo chiuse il quaderno che teneva appoggiato sulle gambe e si alzò dalla poltroncina su cui era accomodato, afferrando il proprio cappotto.
-Va bene, ho capito. Per oggi ho finito- sbuffò, infilandoselo sulle spalle, prima di soffermarsi ad osservarlo con un’occhiata molto strana. Studiò con attenzione l’altero profilo del malato, prima di azzardarsi a sospirare un: - È stato sospeso-.
Bingo. Gli occhi scuri di Itachi si allargarono di un micromillimetro, mentre le narici venivano attraversate da un lieve spasmo. Sicuro del fatto suo, proseguì, attento a calare la voce nei momenti più opportuni del suo discorso.
-Sai? È da una vita che ti conosco. Eppure, di sicuro non siamo amici, o almeno non quel tipo di amici che si possono definire confidenti. Tuttavia, anche un cieco capirebbe che è successo qualcosa, tra voi due... buona o brutta che sia, Itachi, dovreste parlarne. Insomma, uno non arriva a tentare di ammazzare qualcun altro senza un valido motivo, no? È un consiglio da amico, quello che ti do. Parlagli – si frugò per qualche secondo nelle tasche del giubbotto, prima di allungargli un bigliettino stropicciato, depositandolo sulle lenzuola bianche – Tieni, questo è il suo numero e il suo indirizzo. Stammi bene, ci vediamo a scuola-
Si voltò in uno svolazzo biondo, ma le sue dita erano ancora strette sulla maniglia che una singola parola, giunta velata al suo udito, lo fece piacevolmente sobbalzare, facendo fare una capriola al suo stomaco.
-Grazie-
Iwa annuì appena, con un sorriso, poi s’incamminò a passo rapido, assaporando la soddisfazione che si riceveva a fare un favore da Itachi Uchiha. Brutta o bella fosse stata la conclusione di quella storia, ne sarebbe stato lieto comunque.

Kisame imprecò, al suono del campanello, e gettò malamente il libro di storia giù dal letto per avviarsi, strascicando i piedi ad aprire. Si pentì amaramente di non aver lasciato il disturbatore a morire assiderato dal freddo, però, quando si vide spuntare davanti al naso il viso pallido di Itachi uchiha e i suoi occhi neri.
Fece per richiudergli la porta in faccia, ma l’improvvisa opposizione di un braccio magro e di un paio di iridi insolitamente brillanti lo trattenne, facendolo comunque sibilare dalla stizza: mossosi in aventi e mettendo un piede all’interno dell’abitazione, Itachi gli impediva fisicamente di serrare l’uscio e di cacciarlo fuori dalla sua vita. Prima che potesse valutare se eseguire un placcaggio e sbatterlo a terra o meno, il ragazzo aprì bocca per primo.
-Non è semplicemente una questione di diottrie-
Nel sentire la sua voce bassa e melodica, appena appena rauca, Kisame non poté evitarsi di sobbalzare. Era più forte di lui, da quel punto di vista; ma riuscì abilmente a nascondere la reazione provocatagli, annuendo con fare scocciato per invitarlo a continuare. Itachi serrò le palpebre, prese un respiro profondo e iniziò a parlare a raffica, senza nemmeno prendere fiato per respirare.
-è una malattia del bulbo oculare chiamata cheratocono**, che provoca il progressivo assottigliamento e incurvamento verso l’esterno della parte centrale della cornea. Le immagini mi appaiono distorte, sempre più sfocate, sia che siano distanti sia che siano vicine; la luce mi crea fastidio e irritazione, e il dolore aumenta gradualmente, ogni giorno sempre di più. L’unico rimedio efficace, sarebbe sottoporsi a un trapianto della membrana, solo che… che non voglio. Non voglio perché i donatori sono estremamente pochi e mettersi in lista significherebbe perdere anni e anni in attesa, perché mio zio è impazzito, in quell’attesa, e ha ammazzato suo fratello nella vaga convinzione che le sue cornee andassero bene per lui. Non voglio perché se mio padre lo venisse a sapere s’infurierebbe dando la colpa a mia madre e ai suoi geni, perché non sarei più il figlio perfetto che da lei esigeva e perché vedrebbe distrutto il suo sogno di vedermi al vertice del clan. Non voglio perché sposterebbe tutta la pressione su mio fratello, e gli rovinerebbe l’esistenza così come ha fatto per me, e lo spezzerebbe, perché, cazzo, Sasuke è così fragile… Non voglio, perché entrare in quella sala operatoria con la consapevolezza che fuori non ci sia nessuno ad aspettarmi è una cosa che non riesco a tollerare, per quanto io mi sforzi di dirmi che provare terrore è una cosa da stupidi.-
Di tutta quella sfilza di parole mal incrociate tra loro Kisame non comprese praticamente nulla, se non una soltanto: paura. Itachi, cazzo, aveva paura. Aveva paura, paura, paura, paura, paura.
Cazzo, anche lui aveva paura
-Perché mi hai baciato, l’altro giorno?- chiese, all’improvviso, tentando disperatamente di restare lucido.
-Io…non lo so. Ne ho avvertito la necessità, perché…tu sei entrato- e di scatto, sollevò lo sguardo per incontrare il suo, con una vaga disperazione ad incrinargli la voce – Ho tenuto tutti quanti fuori dalla mia vita per anni, e tu adesso sei entrato, hai fatto disastri e hai cambiato tutto. Non… non puoi andartene, non... non così-.
Lottando con se stesso, per mantenersi ancorato ai pensieri coerenti, Kisame lo afferrò stretto per le spalle, scuotendolo appena.
-Io… non... non me ne vado. Non vado da nessuna parte. Se vuoi che resti, io resto. Se vuoi che… che ti aspetti, io aspetto. Ma diventare ciechi, non è una soluzione. Devi provarci. Devi… dobbiamo darci un’opportunità. Ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza, ci vorrà… calma. Mi dovrai dare tempo, parecchio tempo. Ma posso farcela. Possiamo farcela.-
Itachi chiuse le palpebre, abbandonando il capo contro il suo petto, sospirando appena mentre i suoi occhi si riempivano di perle salate.
-Mi va bene. Mi va bene qualunque cosa. Però, resta-



Con un sibilo forzato e uno sferragliare assordante, il treno della metropolitana ripartì dalla fermata, fagocitato dal buio tunnel che si apriva nelle profondità del sottosuolo. Infilandosi in fretta sulle spalle la giacca blu che aveva viaggiato ripiegata sotto il suo gomito, risalì in fretta i gradini dell’uscita, proteggendosi il viso dai raggi solari che lo colpivano in pieno viso man mano che risaliva in superficie.
-Sei in ritardo-
Kisame, suo malgrado, sorrise, saltando l’ultimo gradino e fermandosi a un passo dal ragazzo che lo stava aspettando poggiato contro il muretto laterale: camicia bianca, a maniche corte per la temperatura primaverile; capelli neri, raccolti in una coda bassa sulla nuca, e i ciuffi che ricadevano scomposti sul viso creando un gioco di chiaroscuri sulla pelle nivea; gli occhi neri, profondi e pensosi, che accarezzavano la sua persona.
-Chiedo scusa, mister perfezione – ringhiò, fingendosi arrabbiato, mentre litigava con le proprie dita per infilare correttamente al loro posto tutti i bottoni neri – Il metrò era in ritardo, non io.-
-Certo, come al solito- mormorò il ragazzo, in risposta, depositando a terra la cartella grigia che portava con sé e avvicinandosi quel tanto che bastava per completare al suo posto l’ardua operazione; Kisame, malizioso, ne approfittò per afferrarlo giocosamente per la cravatta scura e alzargli il viso, impossessandosi vorace delle sue labbra.
Non prima di aver ammirato, grazie ai giochi di luce creati dal sole, il sottile disegno arzigogolato che ritrovava immancabile delle iridi color pece.
Itachi si concesse qualche secondo di tranquillità, prima di svicolare via dall’abbraccio improvvisato per recuperare i suoi beni.
-Forza, lumaca. Altrimenti facciamo tardi per davvero- chiosò, prima d’incamminarsi verso la facoltà universitaria, osservando con fare svagato gli alberi che costeggiavano il percorso. Kisame si affrettò a raggiungerlo, imprimendo alle sue gambe lo stesso moto rilassato, beandosi di essere al suo fianco e di essere riuscito, finalmente, ad arrivare fin lì.
Aver paura assieme, in fondo, era assai meglio che restare soli.






*rampino: sorta di uncino utilizzato, annodato in fondo a una cima, al momento dell’abbordaggio, per unire tra loro due navi.
**cheratocono: malattia del bulbo oculare, che produce i sintomi descritti. Tra l’altro, sono sintomi anche gli occhi brillanti, e la forma conica del bulbo oculare.

Ah, sì. Il Sei Nazioni è il maggiore torneo di rugby a quindici, che si disputa tra Irlanda, Inghilterra, Scozia, Galles, Francia e Italia. Ovviamente qui pein lo cita ironicamente XD


Grazie per le loro recensioni a
slice: il momento della smaltatura è sacro U_U Yatta, sono molto felice che ti siano piaciuti è sempre il traguardo più importante *_*
Miharu Ozukawa: ma guarda, a me va bene anche così *_* grazie davvero infinite <3
miyuk: oscuro, oscuro, oscuro...aspetta, accendo la luce XD No, dai, spero si sia chiarito molto di quanto non detto in precedenza, anche se ammetto di aver raffazzonato il tutto. fortunatamente, no cancro
Amaerize: Itachi ha disegnato il volto di Itachi - sì, lo so che non si capiva, ma non so come nella redazione finale no tolto due parole chiave =_= -. Spero che Ita-san continui a reggere anche qui ^^
sweetkonan: non posso che darti ragione, mea culpa. Grazie mille per il commento e i suggerimenti - per la questione Deidara : diciamo che avrebbe dovuto essere presente solo nel primo paragrafetto, giusto per fare da introduzione. Poi però mi è scappato di mano ed è spuntato qui e lì =_= -. in ogni caso ti ringrazio davvero di cuore, e sono felice che ti sia piaciuta - anche perchè, non si trovano fan della coppia facilmente, oggidì **

bene. e con questo, prendo congedo. grazie a chi ha letto, a chi l'ha inserita tra i Preferiti e le Seguite e a tutti coloro che sono riusciti a reggere fin qui. merci <3
besitos, vostra wolvie



   
 
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