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Autore: Melanto    23/03/2010    0 recensioni
Piccola bishot con stessi protagonisti e stessa ambientazione.
I - C’era l’idea di tornare dai piccini lasciati alla nursery, c’era l’idea di riunirsi tutte per condividere le attività domestiche e l’idea di riparo, rifugio.
II - Lo stesso, querulo urletto spaventato seguito da repentini passi in fuga e sbattere di porte. Altre voci cercavano di rabbonire la bambina, ma non avevano molto effetto.
«Sta’ bbona, cocca, nun te fa gnente!»
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Storia scritta per la “Caccia alle uova!” di Fanworld.it
Uovo #13 | Prompt: scrivi una storia di qualsiasi tipo che parli di api e fiori, ma che non contenga allusioni sessuali.

Seconda parte di questa piccola bi-shot o microraccolta, come preferite.
Anche qui, indirettamente, c’è autobiografia pura.

E’ un mondo difficile

II - E' un mondo difficile

«L’ape d’acqua! L’ape d’acqua
Ed ogni estate era la stessa storia.
Lo stesso, querulo urletto spaventato seguito da repentini passi in fuga e sbattere di porte. Altre voci cercavano di rabbonire la bambina, ma non avevano molto effetto.
«Sta’ bbona, cocca, nun te fa gnente
Ma il vero problema non era il ‘fare’ o ‘non fare’ qualcosa.
Se loro avessero potuto usare il linguaggio degli uomini, avrebbero già chiarito da anni che – d’acqua o meno – non erano api. Erano vespe.
VES-PE.
Le cugine povere, quelle ritenute inutili o dannose.
Quelle che non importava se lasciavano all’alba i propri nidi andando in cerca di campi fioriti per procurarsi il cibo, ma sapevano anche accontentarsi di piccoli insetti; quelle che non importava se lavoravano tutto il giorno, se per i loro nidi non sceglievano solo il legno, ma qualsiasi materiale adatto, con molta umiltà; quelle che non importava se avevano decine e decine di larve accudite con amore, sarebbero sempre state considerate un pericoloso fastidio da eradicare senza pietà.
Era così ogni anno. S’instaurava una sorta di guerra fredda, con le loro cugine, non già combattuta a colpi di aculei quanto di odio profondo e rancore.
Ed avevano anche la sfortuna di averne una comunità come vicina di casa: nel campo dell’Ortolano c’era un alveare. Uno di quelli creati dall’uomo, però, non naturale.
Le api venivano accudite con cura ed attenzione. Venivano lasciate libere al mattino per andare in giro a lavorare per i due-zampe; un po’ come loro, che abbandonavano il nido sotto al terrazzo della mansarda, ma che avevano almeno la soddisfazione di non essere al servizio di nessuno se non di loro stesse.
Si vedevano girare con una certa altezzosità per le campagne sterminate e bruciate dal sole, che picchiava con fervore dal cielo terso e limpido. Sceglievano con meticolosità i fiori più adatti ai loro gusti, quelli con le corolle più variopinte e gli odori più invitanti. S’adagiavano, si riempivano le zampe di pollini, si nutrivano di nettare e poi, via!, appena sazie si libravano in volo pronte per il fiore successivo.
Loro erano meno selettive. Meno… raffinate.
«Oh! Sua maestà l’Ape non avrebbe mai scelto quel fiorellino così bruttino! Guarda che colori tristi ha!»
Per loro anche quel fiore andava bene come qualsiasi altro. Il cibo era cibo, sempre e comunque.
Eppure, questo non le rendeva più nobili agli occhi degli umani, che coccolavano le api perché avevano qualcosa che loro volevano. E quel qualcosa, a loro vespe, mancava. Mancava nelle quantità, troppo misere per gli ingordi due-zampe, e nel gusto, che poco si sposava col palato fine dei coltivatori.
Così, questo era ciò che accadeva: si trovava un alveare? Bene, benissimo! Vigili del fuoco, apicoltori, chiunque in grado di farlo e se li venivano a prendere. Interamente. Api comprese.
Si trovava un nido di vespe? Male, malissimo! Dannate bestiacce fastidiose! Via! Sciò! Una fiamma ossidrica, subito! E di loro non restava nemmeno la più piccola delle larve.
Quell’anno sembravano destinate ad essere graziate o, almeno, lo speravano, ma ogni giorno era un combattere con la morte che arrivava improvvisa senza dar loro il tempo di poter almeno tentare di fuggire. Così, nell’attesa, continuavano il laborioso andare e venire come sempre facevano.
E quel giorno non aveva fatto eccezione. Erano appena rincasate, stanche ma soddisfatte, sul morire del tramonto. Era stata una giornata ricca di tanti piccoli insettini succulenti da lasciare al nido e di fiorellini poco invitanti, ma dal sapore delizioso. Sicuramente, ci sarebbero tornate anche il giorno dopo alla vasca dei rospi, vista l’abbondanza di cibo.
Il fattaccio, l’attacco infame, avvenne che avevano da poco varcato la soglia del nido e stavano provvedendo ad accudire le larve ancora chiuse e deposte nelle celle.
Un sospetto sibilare le fece allertare, ma non fu sufficiente, e la fiamma si insinuò nel loro condotto, tappando ogni via di fuga. Le più disperate, in preda alla confusione, tentarono di guadagnare l’esterno, gettandosi contro la sorgente di fuoco, ma avvamparono in un attimo, carbonizzandosi.
Le altre si dibatterono stordite, le sottili ali in fiamme, contro le pareti del nido, scontrandosi in volo con altre operaie terrorizzate. Le larve bruciarono senza la possibilità di vedere, almeno per una volta, la luce del sole. L’aria venne divorata dal fuoco, che ormai aveva fatto presa su tutto ciò che era stata la loro casa costruita faticosamente pezzo dopo pezzo, cella dopo cella. Non sarebbe rimasto più niente su cui cercare di ricostruire.
E così, anche quell’anno, la guerra venne perduta e loro distrutte in quella sorta di sterminio razzista senza una ragione che fosse davvero valida.
«Ah! V’ho pizzicato! Ecco dove v’eravate nascoste! ‘Ste disgranite!» aveva borbottato il due-zampe e loro ex-padrone di casa, sancendo quella che poteva essere una sorta di sfratto esecutivo.
E mentre ormai nessuna di loro, che non fosse già morta, era più in grado di volare, si videro chiudere definitivamente, coperto da una spessa passata di stucco, l’ultimo spiraglio di tramonto.
Magari, in un più fortunato altrove, qualche altra comunità di sorelle era riuscita a sopravvivere, quell’estate, forse perché ben lontana dagli uomini o forse perché era stata miracolosamente ignorata dagli stessi.
Chissà. A loro, invece, che stavano lentamente morendo in una terribile agonia, non rimase che realizzare ancora e con più forza che era un mondo difficile.
Troppo difficile per chi era così sfigato da non produrre quel maledetto vomito chiamato ‘miele’.

Poco distante, disinteressate da quello che nei pressi si stava consumando, le api rientravano altezzosamente all’alveare: le pance piene di nettare, le zampe piene di pollini di mille fiori.

 

Fine

NoteFinali: Non pensavo che mi sarei trovata a fare dell’angst sulle VESPE.
Premettiamo: io ODIO api, vespe e compagnia. Detesto gli insetti tranne: farfalle, falene, libellule e coccinelle.
Inoltre, il miele mi fa schifo. XD
Però… ecco, se proprio devo prendere le parti di qualcuno, prendo quelle delle vespe. X3 perché sono SFIGATE e ‘Sfigato è bello’, altrimenti non sarei una brava Paladina degli Sfigati, o no?! XD
Poverine, tutti preferiscono le api solo perché producono il miele che altro non è che: rigurgito di nettare, ovvero, vomito. XD
Anche le vespe producono miele, ma, come detto, ne producono solo un quantitativo necessario al proprio fabbisogno ed inoltre non è 100% composto da elementi vegetali, ma anche animali, visto che le vespe sono predatrici di piccoli insetti e carcasse. Ergo, il sapore del miele di vespa non credo sia piacevole come quello di ape. X3

 

   
 
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