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Autore: Sophiae    30/03/2010    0 recensioni
Descrizione
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La tristezza ti colpisce come un pugnale, la malinconia ti avvolge come una coperta che profuma di un passato che non può più esistere.

Ricordo come se fossero ancora qui, fissi, puntati verso di me, quegli occhi dallo sguardo pungente, allo stesso tempo pieni e vuoti di sentimenti, che parlavano parole in un linguaggio che invano cercavo di comprendere.

Le sue parole uscivano dalla sua bocca e piombavano, come massi di rabbia, a terra.

Non lo riconoscevo. Uno sconosciuto di cui credevo conoscere tutto. Uno sconosciuto che conoscevo da una vita.

Mi guardava in un silenzio intervallato dai battiti rumorosi del mio cuore; forse aspettava una risposta ad una domanda che non aveva il coraggio di pormi.

Perché l’errore più comune in un uomo è non rendersi conto che chi ci sta vicino, anche coloro che amiamo, non possono sapere ciò che noi gli teniamo nascosto: i nostri sentimenti, le nostre emozioni, la verità.

E sbagliamo nel dar loro una colpa che è solo nostra.

Ed ora era lì, che ancora una volta cercava di nascondermi la verità, tanto vicina, ma ancora invisibile ai miei occhi poco obiettivi e paurosi di incombere in un’altra sofferente auto-illusione.

Vedevo la rabbia cimentarsi nel disegnare sul suo viso espressioni sempre più nuove e ancora mi chiedevo “Perché?”

Ogni azione, momento rappresenta un cambiamento nella vita di un uomo; ogni piccola scelta modifica, anche se sensibilmente, il nostro futuro. In quel momento mi chiedevo proprio cosa avrebbe comportato quel mio gesto, quella sua conseguente reazione nel nostro rapporto.

Mi guardava sapendo che un po’ di quella colpa che con tanta veemenza cercava di sputarmi addosso era anche sua, che cercava in me delle risposte a delle domande di cui io non ero conscia neanche dell’esistenza, che alla fin fine insieme a me stava rimproverando anche quella codardia che l’aveva accompagnato per anni.

Ricordo come se fosse ieri il suo sguardo come se ancora una volta, anche questa volta,le parole non fossero capaci di esprimere completamente quella verità che mi teneva nascosta.

E fu così che lo vidi guardarmi un’ultima volta, dritto negli occhi, forse come ultima richiesta di comprensione, per poi girarsi e attraversare il buio della sera; quel buio che ci aveva tenuto compagnia, simbolo di una calma allora sconosciuta alla mia anima, che ci aveva fatto credere per pochi minuti di esistere solo noi due. Quel buio che aveva raccolto e conservato entro di sé tutte quelle parole soppese in aria,che avevano sfiorato la sua bocca sotto forma di fiato incomprensibile.

Lo vidi scomparire tra l’ombra degli alberi mentre i miei pugni si facevano sempre più stretti, il mio cuore si spezzava e le lacrime ne attraversavano le crepe.

Mi voltai, cosciente che da quel momento sarebbe stato il mio pensiero fisso; mi voltai sperando di sentire i suoi passi dietro ai miei; mi voltai sapendo che non era ciò che volevo. Ma il mio cuore e  la mia testa avevano sempre preso strade divergenti, e io avevo sempre deciso di seguire con i fatti la mia testa, forse perché mi sembrava di essere più forte agli occhi degli altri, ma non ai miei che mi vedevano piangere di fronte ad uno specchio giorno dopo giorno, uno specchio a digiuno di sorrisi da troppo tempo.

Una corsa timida e involontaria mi portò fino a casa, fregandomene delle persone che si chiedevano dov’ero, che fine avessi fatto e soprattutto fregandomene di lui che avevo lasciato lì, accorgendomi di quanto fosse fragile tutta l’importanza di cui l’avevo ricoperto in questo periodo.

Fregandomene di quel bacio che avevo desiderato tanto tempo, che aveva occupato i miei pensieri giorno dopo giorno, ed era stato causa di insonnia notte dopo notte. E ora cos’era rimasto di quel bacio? Solo un terreno arido che le lacrime non riuscivano a rendere fertile: il mio cuore.

Avevo considerato quel momento come la fune che mi avrebbe permesso di raggiungere un’altra volta la cima della felicità, senza pensare che quella felicità che tanto avevo desiderato era intrappolata in un passato, a cui non avevo più diritto di accedere. E cercando di aggrappare quella fune, non mi ero resa conto che una nuova felicità, una felicità che non brillava di luce riflessa, ma di luce propria era lì ad attendermi. Ed io l’avevo lasciata andare via.

Arrivata a casa, andai in bagno guardai un’ultima volta il viso solcato dalle nere lacrime sporche di mascara. Non avevo voglia di struccarmi.

Mi buttai sul letto e per un attimo pensai alle urla che avrebbero accompagnato i pensieri di mia madre l’indomani mattina quando si sarebbe accorta del nero del trucco sul cuscino.

Ma come prevedibile quel futile pensiero fu subito sostituito da altri; avevo una sensazione di ribrezzo per quel bacio e una sofferenza immensa mi circolava al posto del sangue.

Mi sembrava che al posto del mio cuore ci fosse solo il vuoto e che ogni lacrima facesse più male di una pugnalata. Piansi e piansi per ore finchè l’ultima lacrima si asciugò sul palmo della mia mano,allora mi addormentai retta dai sogni di una notte, che avrebbe anticipato solo una triste giornata.

Era come se ogni mia lacrima venendo a contatto con il cuscino liberasse una sensazione di sollievo, avvolgendomi in un’atmosfera di pace, che cancellava o almeno evitava ogni problema.

Le lacrime sono la ninna nanna degli adolescenti, quando la ninna nanna che si conosceva da bambini ormai non si ricorda più.

La luce grigia entrante dalla finestra che mi ero dimenticata di chiudere, mi svegliò forse meno dolcemente di quanto avesse intenzione di fare.

Per mezzo secondo riuscii ancora a godere di quella pace che mi aveva accompagnato per tutta la notte, ma sentivo che stava per arrivare: la coscienza di quella triste realtà che ancora non sapevo come affrontare.

Mi buttai sotto la doccia sperando invano che il sapone potesse lavare la mia anima da quel malumore che la riempiva.

Non vedevo l’ora di sedermi dietro quella scrivania e buttarmi sui mille fascicoli che mi aspettavano, per non pensare a niente, per non aspettarmi niente.

Il mio lavoro estivo da segretaria non mi aveva mai appagato o servito come in quel momento, era sempre e solo stato un fine per ricavarmi qualche euro in più e per dimostrare a chissà chi la mia capacità di essere indipendente.

Adesso invece ringraziavo l’esistenza di quei documenti che fino ad allora avevo trattato con una relativa indifferenza.

Mi infilai la gonna nera a tubino e la camicia bianca e provai a nascondere le occhiaie, cercando di sfoderare qualche sorriso e presentarmi in modo accettabile anche se avrei voluto tanto indossare un’umile canadese.

Presi la cartella e uscii di casa, il freddo pungente del mattino mi pizzicò il viso. Abbottonandomi meglio la giacca salii in macchina.

Odiavo il rumore della portiera di quella vecchia macchina che era stata fonte di imbarazzo un sacco di volte da quando avevo iniziato a guidare con amici, parenti, con lui.

“Non pensarci Luna, non adesso!”

Infilai le chiavi e partii. In dieci minuti fui a lavoro.

  
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