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Autore: ReaderNotViewer    18/06/2010    3 recensioni
ll 20 maggio 2003 Sunnydale sprofondò all’Inferno. Circa tre settimane più tardi un certo fantasma ossigenato comparve nell’ufficio di Angel a Los Angeles. Questa storia si situa in un momento imprecisato compreso tra i due eventi. Ognuno dei capitoli si ispira a uno dei prompt ereditati dalla Festa dei Folli. Infine, prima che veniate a chiedermelo: se l’hanno fatto Disney, Bill Murray e gli autori di In viaggio nel tempo, perché non lo posso fare io?
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Spike
Note: Cross-over | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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CAPITOLO 2



Prompt: Giardino



Spike aveva sempre odiato aspettare. Ultimamente, oltretutto, gli sembrava di non aver fatto altro: aspettare di ritrovare la ragione o che qualcuno ritrovasse lui e lo tirasse giù dalla parete di quella stramaledetta caverna, aspettare che Willow escogitasse un modo per battere il Primo, aspettare che Buffy venisse a fargli visita in cantina.
Camminò avanti e indietro dentro quella stupida anticamera finché non gli sembrò che il tappeto avesse conservato una traccia del suo passaggio. La finestra e la porta erano sempre ermeticamente chiuse. Magari se fosse riuscito ad aprirle si sarebbe trovato in un desolato deserto, alla mercé di enormi mostri pronti a divorarlo.
Chissà com’era l’Inferno.
Quando andava in chiesa la domenica insieme a sua madre, aveva sentito spesso il pastore descriverlo. Più tardi, aveva letto i fantasiosi tormenti scaturiti dalla fervida immaginazione dell’italiano Alighieri. Forse l’Inferno, però, era solo un posto noioso dove non succedeva mai niente e si restava completamente soli e abbandonati e sicuri di non valere niente e di non interessare a nessuno, per l’eternità. Nessuno da amare, nessuno da odiare, nessuno per parlare. Chissà se si trovava già all’Inferno, il posto dove finivano tutti quelli come lui.
Ricoprì il quadro con la tenda, pensando che magari il visitatore che stava attendendo non si sarebbe fatto vedere, finché non avesse rimandato, per così dire, il suo mezzo di trasporto al capolinea. Dopo un po’, constatando che non succedeva niente, scoprì di nuovo il quadro, che continuava a mostrare uno sbiadito paesaggio privo di figure umane. Quello sullo sfondo sembrava un tipico cottage della campagna inglese.
Forse invece il trucco era fissare il quadro intensamente?
“William.”
La voce era dolce, femminile. Non gli pareva di averla mai sentita prima.
Spike si voltò lentamente, perché ora che l’attesa era finita, improvvisamente non aveva più tanta fretta di scoprire chi fosse il primo dei visitatori che Darla gli aveva preannunciato. Non sapeva che cosa aspettarsi, veramente, ma gli pareva ragionevole che dovesse trattarsi di una delle sue vittime. Qualsiasi cosa si attendesse, di certo non era preparato a ciò che vide. Sbatté le palpebre, ma la visione non mutò d’aspetto. Eccola ancora lì, con il grembiule bianco, le guance rosse e gli occhi celesti come le porcellane allineate su una mensola di cucina: la tipica Nannie, un esemplare della vasta schiera di donne che avevano allevato generazioni e generazioni di danarosi rampolli britannici. Ne aveva avuta anche Spike una, quand’era piccolo: più magra, rossa di capelli e con gli occhi nocciola, ma vestita proprio in quello stesso, identico modo. Sebbene spesso le bambinaie restassero nella casa dove avevano servito anche quando l’oggetto delle loro cure era ormai diventato grande, la sua invece aveva preferito tornare al villaggio natio, dove era poi morta di tifo. Quando in collegio era arrivata la lettera che gli dava la triste notizia, il piccolo William aveva pianto e i compagni di scuola avevano rispettato il suo dolore, come se gli fosse morto un membro della famiglia. Spike non aveva mai più ripensato al profumo d’amido di un candido grembiule come quello, eppure il desiderio di sentirlo ancora una volta, di immergerci il naso proprio come quando era bambino, lo spinse istintivamente ad allargare le braccia verso la sua visitatrice.
La nannie si tirò indietro d’un passo, mostrando la punta delle grosse scarpe stringate sotto la lunga gonna blu. “Mi spiace, tesoro” disse scuotendo la testa. “Anche a me piacerebbe abbracciarti, ma non si può fare. Ci sono delle regole.”
Spike non questionò sul fatto che gli si rivolgesse come se fosse un bambino, perché ciò era tipico delle donne che svolgevano la sua professione, soprattutto dopo che avevano raggiunto una certa età.
“Allora, Mary Poppins, saresti tu il visitatore che aspettavo?”
“Sono il fantasma…” iniziò a presentarsi.
“Guarda che mancano ancora sette mesi a Natale” la avvertì Spike.
“…della madre del passato!” concluse la donna.
“Di chi?”
“Della madre del passato” ripeté scandendo bene le parole, come se dovesse farsi intendere da un bimbo un po’ duro di comprendonio. ”Andiamo, adesso?”
‘Una storia di madri, proprio quello di cui avevo bisogno’ si disse Spike.
La bambinaia camminò fino alla porta e attese pazientemente che l’ombrello verde nel portaombrelli si sollevasse graziosamente e raggiungesse la sua mano forte e grassoccia.
Spike si chinò da un lato, per controllare che il manico non fosse il becco di un pappagallo, come quello dell’ombrello di Mary Poppins. A Drusilla piaceva il film con Julie Andrews, tant’è vero che l’aveva costretto a rivederlo molte volte. Se lo avesse desiderato, Spike sarebbe stato in grado di cantare tutta la colonna sonora dall’inizio alla fine. Non che ci tenesse a farlo.
La bambinaia si girò e gli tese la mano, proprio come se dovesse far attraversare la strada a un fanciullo.
“Cosa? No. Nemmeno per idea.” Spike rimase fermo dov’era e scosse il capo, risoluto. La nannie gli rivolse uno sguardo di mite rimprovero, come se lui avesse appena rifiutato una porzione di budino di riso, anzi avesse respinto proprio quel budino di riso che la sua devota nannie gli aveva appena preparato con tanto amore. Sospirando, Spike prese la piccola mano grassoccia tra la sua. La bambinaia nascose un sorriso sotto le labbra, lievissimamente baffute, e aprì l’ombrello.
“Hai visto? Ce n’è un altro” osservò lui. Non gli andava molto di viaggiare insieme a una bambinaia sotto lo stesso ombrello. Verde acceso, per di più. “Non sarebbe meglio se ognuno di noi avesse il suo ombrello magico person…”
Una folata di vento gli gelò le parole in bocca, mentre si sentiva sollevare e trasportare a grandissima velocità. Memore del racconto di Dickens e delle molte trasposizioni cinematografiche con cui glielo avevano ammannito durante gli anni, non appena riuscì a riaprire gli occhi Spike guardò verso il basso, aspettandosi di vedere scorrere sotto di sé città e campagne, mentre la sua accompagnatrice lo conduceva a destinazione. Invece, non c’era niente se non una leggera polvere grigiastra che vorticava intorno a lui, alla nannie e al loro ombrello verde, puntato in avanti più che verso l’alto. Si sarebbe detto che stessero percorrendo un tunnel dalle pareti lisce e curve, come se fossero due pacchetti spediti a tutta velocità dentro un condotto della posta pneumatica. Invece che sul pavimento di qualche ufficio della City, però, atterrarono sopra un prato alquanto bitorzoluto, per primo l’ombrello, con la punta ficcata nel terreno, poi la bambinaia e per ultimo Spike, che accorgendosi di essere all’aperto in pieno giorno si accucciò istintivamente, tentando di coprirsi la testa con la giacca per non essere incenerito. Poi gli tornò in mente che non solo quel giorno era già andato a fuoco una volta, ma che non c’era nemmeno il minimo indizio che quella spiacevole esperienza stesse per ripetersi, dal momento che non si sentiva bruciare, non avvertiva odore di fumo e, soprattutto, non provava neppure il più piccolo dolore. Dopo aver controllato che la sua bianca mano, esposta al sole di una bella giornata di primavera, non era diventata un moncherino nero e non era neppure un po’ arrossata, con un certo imbarazzo si rimise in piedi con vampiresca agilità e restò a guardarsi attorno cercando invano di capire da dove fossero arrivati.
“Io odio la magia” sospirò, constatando che a quanto pareva erano finiti dentro un sereno angolo della campagna inglese: sembrava proprio un ritorno alla madrepatria in grande stile. Con tardiva galanteria, tese una mano per raccogliere da terra la corpulenta nannie, che si stava ancora dibattendo, con la candida cuffia tutta di traverso, nell’ingombro dovuto all’ampio grembiale e alla voluminosa gonna nonché a una sterminata sottoveste di rigida tela, la cui presenza era stata impudicamente rivelata dal capitombolo della sua proprietaria.
“La magia non c’entra” lo rimproverò la sua guida, mentre si rimetteva in ordine i vestiti. Pareva che le facoltà da vampiro non avessero abbandonato Spike nemmeno all’altro mondo, perché la sua vista straordinariamente acuta gli consenti di individuare una lunga forcina tra l’erba. Si chinò a raccoglierla e la restituì alla bambinaia, che l’infilò subito dentro le trecce strettamente arrotolate. La manovra ricordò al vampiro certi giochetti che gli era piaciuto fare, in tempi ormai lontani, con i grossi chiodi che di solito si usano per le traversine ferroviarie. La sua ottima memoria, sulla quale aveva sempre contato, ora gli si ritorceva contro, riproponendogli a tradimento tutti i dettagli delle sue gesta disumane, persino di quelle che aveva compiuto quand’era ubriaco fradicio e che in teoria non avrebbe dovuto rammentare affatto, ma che gli ritornavano invece alla mente come brandelli di incubi, ancora più angosciosi perché slegati da qualsiasi logica. Nei mesi appena trascorsi, si era reso conto che in dodici decenni si ha davvero il tempo di ammazzare un sacco di gente. Prima della battaglia, quando aveva considerato l’ipotesi che sarebbe potuto non tornare, aveva pensato che in quel caso, se non altro, avrebbe smesso di ricordare. Avrebbe dovuto immaginarselo, che non poteva essere così facile.
Senza dirgli nient’altro, la donna gli voltò le spalle e si avviò di buona lena su per un sentierino che serpeggiava lungo la collina.
“Ferma, Mary Poppins, dove vai?” le chiese invano Spike. Si rassegnò a seguirla, brontolando: “Facciamo questa scampagnata”. Come se stare in pieno sole non gli facesse nessun effetto. Si chiese per chi o per che cosa si prendesse la briga di fare la commedia. Perché non si sdraiasse invece in mezzo all’erba, con la faccia al sole e gli occhi chiusi, come un morto la cui bara fosse stata improvvisamente scoperchiata; per lasciar filtrare la luce attraverso le palpebre fino al preciso momento in cui nel sollevarle avrebbe visto solo un accecante chiarore. A proposito di bare, era oltremodo seccante essere morti per ben due volte e non avere mai avuto un vero funerale. Dovette affrettare il passo per stare dietro alla bambinaia, che era già un bel pezzo avanti. Spike non era sorpreso che una donna di quell’età e di quella corporatura fosse così in forma, perché prima dell’avvento dell’era dell’automobile, la maggior parte delle persone non poteva che camminare, se aveva bisogno di spostarsi per star dietro alle proprie faccende. I suoi scarponi neri e polverosi, ma neanche un po’ bruciacchiati, affondavano leggermente nel terreno morbido e umido, coperti dall’erba alta fin quasi alla caviglia, tra cui facevano capolino minuscoli fiori spontanei, dei quali il vecchio William avrebbe saputo dire il nome latino. Era la sfolgorante primavera inglese di quando era ragazzo, quella che erompeva senza preavviso alla fine delle fioche giornate invernali come se un ignoto pittore avesse deciso all’improvviso di cambiare tavolozza, passando dalle tinte pastello a quelle vivaci. E quella, sospirò Spike guardando giù dal colmo della collina, era proprio la casa di campagna dove trascorreva le vacanze primaverili, al tempo in cui frequentava la scuola.
Per qualche ragione, non ci era mai tornato. Nel cottage, appartenuto in origine alla famiglia di sua madre, avevano vissuto a quell’epoca due sorelle, una zitella e una vedova, che dovevano essergli cugine di terzo o quarto grado, insieme all’anziano padre, da loro accudito con filiale devozione, forse accresciuta dalla consapevolezza che alla sua morte avrebbero dovuto sloggiare. Che Spike sapesse, quando la sua esistenza aveva preso una svolta imprevista il vecchio era ancora vivo e vegeto, mentre la più giovane delle figlie, quella zitella, era morta un paio d’anni prima, per aver preso una polmonite andando in chiesa la sera di Natale. La casa doveva essere finita all’unico nipote maschio, sempre che fosse sopravvissuto al longevo zio. Molti anni più tardi, Spike aveva scoperto che al posto del cottage sorgeva ormai un complesso di villette a schiera, non troppo lontano dalla stazione su una delle nuove linee ferroviarie che erano state costruite tra le due guerre, per avvicinare Londra a sobborghi sempre più lontani, ma a quell’epoca raggiungere quel posto dalla città richiedeva un lungo e scomodo viaggio in carrozza.
La nannie, che stava già scendendo lungo il pendio dall’altra parte, usando l’ombrello verde per mantenere l’equilibrio, si girò e gli fece cenno di muoversi, schermandosi gli occhi con una mano. Il giardino posteriore, inondato dal dolce sole pomeridiano, era esattamente come Spike lo ricordava: il romantico gazebo di ferro battuto, le aiuole di bulbi e di fiori annuali intervallate da vialetti rettilinei nel mezzo, le piante perenni lungo la recinzione di legno verniciata di bianco e l’edera che si arrampicava sulla parete della casa, in apparenza invadente ma in realtà disposta a lasciare spazio ai fiori blu dell’ipomea, che si sarebbero fatti strada a luglio.
Rendendosi conto che era inutile stare fermo lì a guardare e a temere che da un momento all’altro comparisse il lembo di un vestito ben noto, Spike corse giù lungo il prato, verso le vacanze primaverili della sua adolescenza.
La porta a vetri del soggiorno si aprì proprio nel momento in cui raggiunse la sua guida, in piedi sul sentiero che passando dietro alla casa portava alla parrocchia. Aveva appoggiato i gomiti su una delle assi orizzontali della recinzione e si allungava per guardare nello spazio tra quella e il bordo superiore, come un ragazzino che sbircia lo spettacolo dei clown attraverso una fessura del tendone del circo. Spike notò che aveva appeso l’ombrello alla recinzione. Le girò attorno e si appostò al suo fianco, silenzioso e vigile come un gatto selvatico, così come aveva fatto infinite volte, mai però alla luce del giorno e mai in compagnia di una bambinaia. Quello che stava per apparire era più spaventoso dei mostri ai quali aveva dato la caccia negli ultimi anni, mentre aiutava Buffy a sventare tutte quelle apocalissi in serie.
Proprio in quel momento la porta a vetri che dalla casa portava in giardino si aprì e due donne, una dopo l’altra, passarono attraverso il vano, manovrando abilmente le ingombranti gonne. Non era ancora l’epoca degli abiti slanciati dell’ultima parte del secolo e le crinoline gonfiavano ancora i vestiti delle due signore. La prima, più anziana, portava cappello, ombrello e scialle, come se fosse pronta per uscire.
“Eccole” disse la nannie.
“Sst” l’ammonì Spike, che non riusciva a togliere gli occhi dall’altra donna, che indossava solo un semplice vestito grigio pallido e una cuffia guarnita di nastri viola. Era la padrona di casa, che stava accompagnando la sua amica al cancello.
“Non ci possono sentire” replicò la sua guida. “Neppure tu ci puoi sentire” aggiunse, indicando con il suo dito grassoccio la panchina mezza nascosta dall’edera, proprio sotto la finestra aperta. Un ragazzino smilzo, seduto scompostamente con un libro in mano. Il giovane William, a casa per i pochi, preziosi giorni delle vacanze primaverili, lontano dalle tetre aule scolastiche e dal cibo insipido del collegio per leggere al sole, esplorare i dintorni e ingozzarsi con le deliziose torte della cugina Sarah.
Spike fece una smorfia quando il se stesso quindicenne, nell’accorgersi che la madre e la sua amica erano uscite, scattò in piedi e si avvicinò per accomiatarsi educatamente dall’ospite. Sciocco ragazzino, che cosa sperava di ottenere, comportandosi sempre in modo così corretto?
La signora Manners accolse gli educati saluti del collegiale con un sorrisetto di condiscendenza e spinse la sua compiacenza fino a congratularsi con l’amica. “Anne, vostro figlio diventerà un uomo garbato in società, se saprete tenere a freno la sua immaginazione” sussurrò a voce molto bassa, ma non abbastanza perché i suoi invisibili spettatori non la ascoltassero. Se la madre di Spike non gradì questa implicita critica al suo unico figliolo, non lo diede a vedere. “Spesso rimpiango che egli non abbia avuto la guida né di un padre né di uno zio” convenne con un modesto sorriso “purtroppo il destino ha deciso altrimenti.” Anne richiuse il cancello dietro le spalle della sua visitatrice con un po’ più di energia di quanto non sarebbe stato necessario e si girò verso il figlio. Il suo sorriso si allargò: “Abbiamo un po’ di tempo tutto per noi prima di cena, che cosa desideri fare?”
“Vuoi che ti legga qualcosa?” chiese William, con un sorriso speranzoso che fece arrabbiare Spike. Stupido ragazzino, perché non andava a correre tra i prati come avrebbe fatto qualsiasi quindicenne? “Quello che stavi leggendo tu, qualsiasi cosa sia!” disse Anne accennando al libro che il ragazzo aveva abbandonato sulla panchina. “Che cos’è?” chiese ridendo mentre andava a prender posto sotto il piccolo gazebo di ferro battuto.
“Coleridge, naturalmente” rispose William, correndo a recuperare il libro dalla panchina.
“Naturalmente” sorrise Anne, mettendo mano alla borsa da lavoro, appesa al bracciolo della sedia. Prese in mano il suo ricamo e cercò il punto in cui l’aveva lasciato. Aveva le guance rosee, la pelle vellutata e i capelli luminosi, e la semplice cuffia da casa la faceva sembrare ancora più giovane. No, era giovane, pensò Spike. Era giovane e, soprattutto, stava ancora bene.
“Perché mi fai vedere questo?” chiese alla nannie.
“Non ti ricordi questo giorno?”
“Non in particolare” ammise Spike.
Il giovane William sedette con il libro in mano, lo aprì e lo richiuse.
“Mamma.”
“Scegli pure tu la poesia che preferisci, William” disse lei senza alzare gli occhi dal ricamo.
“Io… non ho potuto fare a meno di ascoltare quello che ti diceva la signora Manners.”
“William…”
“Non ho fatto apposta, te lo giuro. Credo di essermi addormentato al sole, poi il suo tono di voce mi ha destato. Mi spiace, mamma.”
“Non erano discorsi intesi per le tue orecchie” osservò Anne, arrossendo leggermente. “Ma se dici di non aver fatto apposta, io ti credo.”
“Conosco Charles Denton, mamma.”
Anne smise di ricamare e lo guardò interrogativamente, con l’ago in aria: “E…?”
“La storia che racconta lui è diversa.”
“Diversa, in che senso?”
“Non so davvero se dovrei parlartene…”
“Certo che devi” rispose Anne fermamente.
William sospirò: “È quello che pensavo anch’io. La signora Manners ha detto che questa parente dei Denton è stata… allontanata per certe ragioni, che hanno a che fare con Charles.”
“Non è una bella storia, ragazzo mio.”
“Non è nemmeno una storia vera, mamma. Charles è a Oxford, perciò io non ci avrei niente a che fare, se suo cugino Terence Hamilton non fosse del mio corso.”
“È un tuo amico?”
“Charles Denton? Non si degnerebbe mai.”
“Terence Hamilton.”
“Nemmeno lui. Non direi proprio che sia mio amico” storse la bocca William. Anne non insistette. No, pensò Spike, Hamilton non era mai stato suo amico, né a scuola né in seguito. Nemmeno lui gli avrebbe dimostrato molta amicizia, d’altra parte, circa quindici anni più tardi.
“Ci ha raccontato tutto” spiegò William. “Eravamo nella camerata, saremo stati dieci o dodici. Tutti abbiamo sentito, quelli che erano interessati alla sua storia, ma anche quelli, come me, che avrebbero preferito non ascoltare affatto. Saranno passati forse due mesi, era subito prima del compito di latino su Sallustio… sei settimane fa, quindi. Hamilton, sai, è uno di quelli che deve sempre trovare qualche ragione per vantarsi – non intendo parlare male di lui, ma…”
Anne annuì.
“Quando non ha niente di cui vantarsi per conto suo, allora si gloria delle imprese altrui, senza rendersi conto che spesso tali fatti potrebbero suscitare nel suo uditorio, invece di ammirazione, imbarazzo se non addirittura riprovazione” continuò William.
“Parlavo davvero in quel modo?” chiese Spike, disgustato.
La nannie lo zittì e gli fece cenno di continuare ad ascoltare.
“Mi stai dicendo che ha raccontato ai compagni di scuola le azioni di suo cugino Charles?” dedusse la madre.
“Sì, senza forse pensare che tali azioni non rendevano più onore a chi le riferiva di quanto potessero procurarne a colui che le aveva compiute” sentenziò ampollosamente il ragazzo, per poi proseguire, più affrettatamente e con crescente imbarazzo, a narrare come Charles Denton avesse confidato a suo cugino Terence di avere approfittato di una giovane orfana, che i suoi genitori ospitavano nella loro casa di Londra quasi per carità, dal momento che non aveva né mezzi economici né parenti più prossimi che si occupassero di lei. Poiché la fanciulla si schermiva e resisteva a tutte le sue profferte (“cosa che non sorprenderà” aveva osservato William a questo punto “chiunque abbia frequentato Charles Denton anche solo per cinque minuti”) era arrivato al punto di ricattarla, minacciando di nascondere una spilla tra le sue cose e accusarla di furto presso la signora Denton.
“In questo modo ottenne quello che voleva, almeno in parte” concluse William, ormai rosso come un peperone, senza entrare in particolari, “perciò non è vero quello che ti diceva la signora Manners poco fa, cioè che i Denton avrebbero allontanato quella poveretta per averla sorpresa mentre tentava di esercitare le sue perfide mire sul loro… innocente rampollo.”
Perplesso, William inclinò la testa di lato in un’espressione che Spike avrebbe certamente riconosciuto come propria, se solo avesse potuto specchiarsi negli ultimi centoventicinque anni, prima di aggiungere: “È vero solo nel senso che probabilmente la signora Denton è convinta di sapere da che parte sta la colpa, perché Charlie dev’essere riuscito a far sembrare la situazione del tutto differente dalla realtà.”
Anne allungò il braccio attraverso il tavolo e diede una pacca affettuosa sul dorso della mano del figlio: “Hai fatto bene a parlarmene, William.”
“Temevo avresti pensato male di me per aver ascoltato i vostri discorsi” sorrise il ragazzo, rinfrancato. “Poi ho pensato che non dovevo farmi sfuggire la possibilità di aiutare una creatura calunniata e priva di qualsiasi appoggio. Perché tu farai qualcosa, vero?” chiese ansiosamente. “Avevi un animo generoso e cavalleresco” osservò la bambinaia, guardando Spike dalla testa ai piedi con poco lusinghiera incredulità.
“Sono sempre stato un idiota.”
“Lei scrisse a qualcuno, lo sapevi?”
“No, mi disse soltanto che sarebbe stato meglio se non ne avessi saputo più niente.”
“Andò a finire che diedero una piccola dote alla ragazza e mandarono il figlio in Marina…”
“Finalmente un po’ di giustizia a questo mondo!”
“…il che permise a Charles Denton d’incontrare una ricchissima ereditiera a Cadice.”
“Come non detto. E la ragazza?”
“Sposò un ricco bottaio, mise al mondo cinque figlie e morì di polmonite a cinquantasette anni, non prima di aver conosciuto i primi otto dei suoi dodici nipoti, il più giovane dei quali sarebbe poi emigrato negli States e avrebbe dato un contributo essenziale all’invenzione del… come si chiama?, computer personale, ecco” recitò diligentemente la nannie.
“Un altro delitto da aggiungere alla mia già lunga lista” commentò Spike, per niente impressionato.”A che cosa dovrebbe servire esattamente questo viaggio nel passato?”
“Questo è ciò che eri. Qui è da dove sei partito, le tue radici affondano in questo posto…” gli spiegò la sua guida, alzando l’ombrello per indicargli il giardino.
“Radici del cavolo, sono londinese...” protestò Spike. Intendeva aggiungere purosangue ma non ne ebbe il tempo, perché del tutto inaspettatamente e senza che egli potesse reagire, la mite governante lo stese con una violenta ombrellata sulla testa.


***


Un grande grazie a Kiki May per aver recensito. Come si sarà capito, Spike è anche il mio personaggio preferito.

  
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