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Autore: livia    01/09/2010    3 recensioni

Questo è un racconto che può essere definito autobiografico-fantastico, poiché mescola elementi della mia vita reale con altri inventati di sana pianta, e conditi con alcune delle ricette di cucina che amo di più. Non è una fan-fiction, ma si può dire che alcuni personaggi sono una vera "citazione" di altri ben noti, che sono sicura riconoscerete benissimo....
Ciao,
Livia
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Liviàààà! Liviaàààà!
Ogni volta che vengo qui mi riesce difficile abituarmi al tuo modo tutto francese di pronunciare il mio nome. Eppure è francese anche la mia mamma, tua figlia giustappunto, solo che lei mi ha sempre chiamato Livia, hai capito? Livia, senza quel dannato accento sulla “a” che lo fa assomigliare al nome di un detergente intimo femminile.
- Liviàààà!
Uffa, ma che avrai da urlare tanto? Lo so che sono quasi le dieci, ma ieri ho viaggiato per quasi tutto il giorno, abbi pietà. E poi, la colpa è tua. Ieri sera hai messo in tavola quel Paul Mas Sauvignon Blanc e ci abbiamo dato finché abbiamo potuto, solo che tu, vecchia filibustiera, era come se stessi bevendo acqua fresca, mentre io, dopo tre bicchieri, be'...
- Liviààààà!! Liviààà! Allegrììì!
E non chiamarmi per cognome, sempre con quell'accento, poi! Quando mi chiamano per cognome - un cognome dispettoso che dalla notte dei tempi dà adito agli scherni di amici e colleghi tutte le volte che mi girano a duemila, ma guarda com'è allegra oggi l'Allegri! – mi tornano in mente i tempi del liceo, quando mi interrogava la Bertoni. Apriva una pagina a caso del libro, e nove volte su dieci quella bastarda di pagina era la numero 200, 2+0+0=2: Agnesi....”Allegri”! Bingo. Mi indicava con l'indice della sua mano da strega di Biancaneve e mentre pronunciava il mio nome faceva scattare il pollice verso la lavagna alle sue spalle, me lo ricorderò per tutta la vita questo suo gioco tra indice e pollice, tra puntare me e puntare la lavagna, dio come lo odiavo! Anche perché all'epoca mi era molto difficile appassionarmi al Teorema di Lagrange, impegnata com'ero a trovare un'applicazione per quello di Le Bon: se staziono sul suo zerbino per 15 giorni, vale a dire per tutte le 360 ore che comporranno la mia vacanza-studio a Londra, le probabilità di incontrarlo sono pari a...
Ahia! Non importa che mi pizzichi, ma che modi sono? Mi alzo, mi alzo! Ma perchè gli altri hanno Nonna Abelarda, Nonna Quercia, Nonna Papera e io ho te?? Ho capito che il caffé è pronto, smettila di ripeterlo come se tu fossi un disco rotto. Tremo all'idea, sai? Il tuo caffè è un una vera ciofega, senza offesa ma voi francesi proprio non lo sapete fare, il caffè, anzi non sapete nemmeno cosa sia. Forse dovremmo correggerlo con un goccio di Armagnac per renderlo bevibile, ma non oso proportelo perché non ho il minimo dubbio che mi prenderesti in parola...
Eccomi, sono in piedi, mi vedi? Benone: allora piantala di gridare.
Scendo le scale dietro di te che ogni volta che ti vedo mi sembri più baldanzosa e pimpante, ma mi dici come cavolo fai, è forse l'aria della Provenza? Effettivamente qui si respira, mica come nell'afa umida e soffocante di Firenze, avvelenati dai vapori mefitici dello smog e di quella fogna a cielo aperto che ci ostiniamo a chiamare Arno. Con i tuoi passettini solleciti mi apri il varco fino alla cucina, neanche fosse la mattina di Natale e tu fossi la governante che sta scortando qualche Generalone di altri tempi al suo posto d'onore alla tavola imbandita. Mi godo la scena ridendo tra me e me finché il tuo corpo rotondetto ruota su se stesso e mi rivolgi un sorriso trionfante.
Non è una colazione, è...di più. Pane fresco, marmellata, frutta. E un aroma di caffé che riempie la stanza: caffé spruzzato di scaglie di cioccolato scuro e con un biscotto alla cannella di fianco alla tazza. Ooohhh....
Ci sediamo nella grande cucina in muratura, e penso che tutte le volte è sempre una scoperta ritrovare le padelle di rame appese vicino al vecchio lavello di porcellana, la stufa di ghisa, i grossi armadi di pino. Mi piace il senso del tempo che emana da queste cose, il modo in cui ogni segno e ogni traccia raccontano una storia. Soprattutto adoro un grosso stipo per le spezie in robusto legno di quercia, i cui cassetti sono scrupolosamente etichettati in inchiostro marrone, sbiadito dal tempo: Cannelle, Poivre Rouge, Menthe Verthe...parole scritte nelle calligrafia arzigogolata e leggermente inclinata a destra di nonno Armand, e che da bambina mi sembravano magiche.
I tuoi occhi sorridono soddisfatti dietro gli occhialetti tondi mentre mi guardi passare dal pane e marmellata alla frutta, dalla frutta al caffè, dal caffè al pane e marmellata come se non avessi mangiato da secoli.
Non mi hai ancora chiesto niente di Filippo. A dir la verità, mi sei sembrata quasi sollevata quando mi hai vista arrivare da sola. Diciamocelo: a te Filippo non è mai piaciuto, troppo intellettuale, e sto preparando un seminario sul Lazarillo di qua, e sto pubblicando un saggio su Bernarda Alba di là. Ti ha sempre dato l'idea di un pallone gonfiato che ostentava una competenza e una cultura ben al di sopra di quelle che erano le sue reali capacità. Tant'è vero che quando eravamo sole ti sei sempre divertita a chiamarlo Monsieur le Professeur in tono di scherno. Troppo presuntuoso, per te, troppo a tre metri da terra.
Tu, invece, sei sempre stata una creatura terrestre, anzi terragna. Ti ricordo insieme a nonno Armand con le braccia immerse nella terra fino ai gomiti, leggeri come due bambini mentre mi mostravate le meraviglie dell'orto, patate novelle, ravanelli, zucchine, Livià, viens ici, bébé, e intanto ti pulivi le mani al grembiule e con un gesto rapido ti risistemavi i ciuffi di capelli che ti erano sfuggiti dalla cuffietta, ricordi quanto ti prendevo in giro per quella cuffietta bianca, toglitela, dai, mi sembri la nonna di Cappuccetto Rosso...? Ma tu niente, hai sempre detto che era la cosa più pratica e igienica per lavorare nell'orto e continuavi a esibirla orgogliosa, proprio come fai adesso.
Sono le dieci e mezza e sono sazia. Chiudo gli occhi e respiro la fragranza di questo luogo mentre mi stiro sulla sedia. Sembra tutto così lontano, da qui, quasi la vita di un'altra: Filippo, la traduzione che non mi viaggia, quel buco in Oltrarno che mi costa un affitto spropositato. E sembra facile anche pensarci.
Un mese qui. Neanche mi sembra vero. Non accadeva da quando ero alle elementari e la mamma e il babbo mi spedivano da voi appena finita la scuola.
Un mese con te, piccola maga rotondetta, fata madrina occhialuta, nonnina stregata. Io e te da sole, alla faccia di tutti e tutto. Quasi mi esce una risata maligna mentre ripenso alla faccia della mia collega Cristina quando le ho detto che avrei trascorso le vacanze con mia nonna. Cosa vuoi che ne sappia, lei.
Ti alzi da tavola e con i tuoi passettini rapidi raggiungi l'armadio e tiri fuori una bottiglia di Calvados; ne versi un po' nelle tazze del caffé e mi inviti a un brindisi, e allora mi alzo anch'io, perché la solennità del momento lo richiede. Le tazze fanno dlin quando si toccano, e trangugiamo il loro contenuto senza troppe cerimonie. Poi mi rivolgi uno sguardo da ragazza birichina e io mi lancio verso di te, ti prendo a braccetto e usciamo all'aperto.
  
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