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Autore: LadyMorgan    06/09/2010    5 recensioni
Ogni storia, grande o piccola che sia, ha un inizio. Un inizio a volte dimenticato, confuso, perduto. Ma non per questo meno importante. Questa è la storia di Lily Evans e del suo Inizio.
Dal Capitolo I:
"Non so quali pianeti si fossero messi d’accordo per rendere la mia nascita così difficile, ma fu così: trentasei ore di travaglio piene, in cui mia madre fece del suo meglio e del suo peggio per dare vita ad un essere di tre chili e mezzo che come primo ringraziamento la fissò con due occhi grandi come metà faccia."

Questa storia parla della vita di Lily Evans, raccontata da lei stessa in prima persona.
In particolare del suo primo anno ad Hogwarts e di come mano a mano si forma la sua brillante personalità.
Dal 3° Capitolo
"La cosa più irritante in assoluto, invece, erano Black e Potter, non necessariamente in quest’ordine: Remus aveva ragione, dovevano conoscersi già da prima, perché non passava momento senza che stessero insieme, normalmente al centro dell’attenzione. Erano diversi, però: Black più facilmente sogghignava invece di ridere, ed uno strano sguardo che ogni tanto gli spuntava negli occhi mi dava da riflettere, sembrava stesse cercando di trattenersi dall’urlare; Potter invece aveva sempre un sorriso che gli inghiottiva metà faccia, non uno di quei sorrisi che ti rendono spontaneo ricambiarlo, ma un sorriso che sembrava avvisarti che da un momento all’altro il soffitto ti sarebbe caduto addosso e lui avrebbe potuto sghignazzare in santa pace mentre tu ti liberavi delle macerie."
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Lucius Malfoy, Petunia Dursley, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
Capitoli:
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The Lost Years Of Lily

Posso credere a qualunque cosa, purché sia incredibile

Oscar Wilde

Premessa: Prima di Scuola

Capitolo I – Figlia Inglese e Figlia Irlandese

Tutorial Photoshop

Non so quali pianeti si fossero messi d’accordo per rendere la mia nascita così difficile, ma fu così: trentasei ore di travaglio piene, in cui mia madre fece del suo meglio e del suo peggio per dare vita ad un essere di tre chili e mezzo che come primo ringraziamento la fissò con due occhi grandi come metà faccia.

Dice che fu uno dei momenti più belli della sua vita, che un raggio di sole penetrò la spessa coltre di nubi che addobbava Dublino in quella uggiosa giornata di marzo, ma non so quanto sia realtà e quanto sia solo affetto materno.

So che mio padre mi prese subito in braccio e, dopo avermi guardata con grande attenzione ed aver ricevuto in cambio uno sguardo perplesso, esclamò compiaciuto: «Ha i tuoi occhi, Cecy! I tuoi stessi, bellissimi occhi!»

La terza persona che mi vide fu una bambina di poco più di due anni che, dopo essersi sporta sul braccio di mio padre per capire cosa stava guardando, incontrò come terza persona quegli stessi occhi e saltò indietro esclamando: «Bruuuutta!» Ma poi, guardando meglio, aggiunse: «Sembra bambola. È mia nuova bambola!»

I miei risero e io fui finalmente libera di gridare. Non credo che avrei smesso tanto preso, non fosse stato per il fatto che mi madre cominciò ad allattarmi a tradimento.

Quando era nata mia sorella, il primo commento del migliore amico di mio padre, William Caulfield, era stato “Ecco la tua figlia inglese, Alan. Quello che si ottiene a lasciarsi stregare dagli occhi verdi delle britanniche…” Entrambi i miei genitori avevano riso.

Quando gli presentarono me, invece, mi guardò con grande attenzione fino a quando io non mi risvegliai e lo fissai con quello che, mi dissero successivamente, era uno sguardo molto dignitoso. Lui scoppiò a ridere ed esclamò lanciandomi in aria e riprendendomi al volo – con gran scorno delle mie nonne, entrambe preoccupatissime che quel pazzo furioso di Irishman ferisse la loro piccola e preziosa nipotina – e guardando mio padre maliziosamente: «Ecco la tua figlia irlandese, Alan. Con gli occhi dell’inglese, ma dello stesso colore della nostra bandiera… Ah, lei la educherò io…»

«Certo che lo farai» ribatté mia madre – donna di estrema energia, dato che neanche un’ora dopo il parto era di nuovo in piedi. «Sei il suo padrino.»

Pare che dalla sorpresa quel buontempone che doveva diventare il terzo adulto più responsabile della mia sicurezza mi abbia quasi lasciata cadere, con mio gran scorno. Ricominciai a piangere e mio padre mi riprese in braccio esclamando: «Col cavolo che nomino padrino questo deficiente, Cecy! Ci vuole qualcuno con la testa sulle spalle per questo genere di lavoro!»

«Se tu puoi fare il padre, io posso fare il padrino» aveva ribattuto William ancora su di giri andando a schioccare un bacio sulla guancia di mia madre. «E poi Cecy si fida di me, e se la nostra razionalissima, ponderatissima e intelligentissima Cecy si fida tu non puoi fare altro che attaccarti, Alan! La tua piccola figlia irlandese sarà il mio fiorellino!»

Non fu possibile toglierci quell’appellativo, “figlia inglese” e “figlia irlandese”, per molti anni.

Alan Evans era un uomo di trentacinque anni alto e sempre sorridente, laureato in letteratura e appassionato di cultura celtica. Aveva i capelli color mogano e lo sguardo franco e leale di una persona che non conosce sotterfugi. Era nato a Limerick e si era trasferito a Dublino per seguire i corsi della Dublin University. Intorno ai ventisette anni era andato a fare un seminario di qualche settimana a Cambridge e lì aveva conosciuto mia madre.

Cecilia Hallen era una bella donna, bionda e dagli stupefacenti occhi verde chiaro, piena di quell’ironia british che le valevano la nomea di donna di indubbio fascino. Nata a Plymouth nella casa di famiglia, una volta cresciuta si era iscritta, contro il volere del padre, all’università di Cambridge, ed aveva intrapreso con lode la facoltà di scienze matematiche. Malgrado questo, aveva anche un’indiscussa passione per la storia antica e in particolare la storia e la lingua latina: era stato seguendo un seminario sulla presenza romana in Britannia e gli influssi che aveva portato su lingua e abitudini che aveva conosciuto mio padre.

Inizialmente erano solo due ragazzi intelligenti uniti da una passione comune, ma successivamente avevano cominciato a frequentarsi e, anche quando mio padre era tornato in Irlanda, scriversi. Una volta che entrambi si furono laureati, tornarono ad incontrarsi e, dopo aver finalmente compreso che si erano innamorati, si sposarono (mio padre, sebbene irlandese, era di professione protestante).

Si trasferirono a Dublino quello stesso anno ed iniziarono entrambi a lavorare come insegnanti in una High School vicino a casa nostra.

Qualche anno dopo nacque Petunia, la “figlia inglese”, così nominata, probabilmente, perché aveva un carattere pignolo e ordinato e controllato che mal si accordava, secondo Will, almeno, all’esuberanza della gioventù irlandese.

Secondo lui io avevo un sorriso più aperto e ridevo più spesso, anche se come avesse fatto alla nostra nascita per indovinare tutto questo non l’ho mai capito.

Quando entrai nella loro vita, i miei genitori, oltre al loro lavoro, stavano seguendo un tirocinio sempre alla Dublin University, e fra università, figlie e lavoro era un miracolo, per loro, che i nostri nonni di Limerick ci facessero visita spessissimo per prendersi cura di noi. Will, poi, era sempre in casa.

Cominciai a parlare a sette mesi, e a detta di tutti non c’era modo di farmi star zitta, nonostante il mio vocabolario comprendesse solo le parole “mamma”, “papà”, “tata”, “pappa”, e, credo, “ciccia”, anche se non so a cosa allora fosse riferito. Forse a Will, dato che ogni volta che entrava nella stanza io mi illuminavo e lo salutavo con uno squillante “ciccia!” tutta orgogliosa di me stessa, tanto da valermi l’affettuoso appellativo di “figlioccia degenere”.

Non mi tirai in piedi prima dei sedici mesi, e passai le mie prime esperienze su e giù per le scale di casa mia, facendo impazzire i miei genitori dato che i gradini erano quasi più alti di me. Tunia mi aiutava sempre a salire le scale, sembrava orgogliosa e fiera di prendersi delle responsabilità su di me, a patto che poi le successive tre ore potesse passarle a pettinarmi i capelli, infilarmi – o meglio provarci, visto che ero una bambina molto grossa – negli abitini striminziti delle sue bambole e rifilarmi il tè peggio preparato di tutta l’Irlanda e il Regno Unito, visto che usava quello liofilizzato in quantità tali che c’era più tè che acqua, anche se sembrava allora che io gradissi molto versarlo addosso a qualunque cosa si trovasse davanti a me in quel momento.

A due anni mi esprimevo più o meno correttamente, almeno per quanto ci si possa aspettare da una bimba di quell’età, e i nostri genitori erano talmente fieri di me e di Petunia che non era rado che ci portassero a delle cene di lavoro, a volte anche con i loro stessi professori. Erano felicissimi di poter mostrare la nostra educazione, dato che a quattro anni Tunia sapeva già quale forchetta scegliere fra le possibili e io non interrompevo mai qualunque discorso stessero facendo.

Quando fui in grado di cominciare a correre e a saltare, ci si rese subito conto che per qualche strano motivo la forza di gravità aveva meno effetto su di me che sugli altri comuni mortali: se volevo, potevo atterrare in modo da cadere sempre in piedi, anche se allora non me ne accorgevo: come si fa a considerare strana una cosa che risulta del tutto naturale?

Avevo cinque anni la prima volta che mi resi conto appieno di quel mio strano potere, e se me ne accorsi fu solo perché, a detta di tutti, avevo un inconsueto spirito di osservazione per la mia età e mi rendevo conto che cose che io davo per scontate, come l’atterrare sempre in piedi, come i gatti, non erano affatto normali nei miei coetanei.

Ma allora credevo ancora fermamente nei folletti, nei lepricani, nelle fate e nella magia che popolavano le storie di mio padre, e se c’era qualcosa che mi sembrava diverso dai miei compagni cominciavo a credere di essere una fata.

Comunque, i miei genitori coglievano solo di sfuggita l’aspetto per me assolutamente magico di quella strana capacità. Mi avevano addirittura iscritto a ginnastica artistica, per mettere meglio a frutto quelle mie “abilità innate”: era una delle poche palestre irlandesi, e già il fatto che fosse capitata vicino alla nostra casa veniva da me considerato un segno del destino. Mia madre aveva partecipato una volta ad una esibizione delle loro ragazze, e le ero subito venuta in mente io e i salti che facevo, credendo che fossero tutte doti naturali. In fondo, quando vedi un salto ben eseguito il tuo primo pensiero non è che provenga dalla magia. Io invece ne ero fermamente convinta. Mi divertivo a pensare di essere una fata in incognito, forse affidata dal re e dalla regina delle fate a dei comuni mortali per proteggermi da un grave pericolo.

Tunia mi prendeva sempre in giro per queste mie fantasie, quando gliele raccontavo. Ma io ribattevo mostrandole i miei voli, chiedendole di guardarmi la schiena per vedere se mi erano spuntate le ali, raccontandole storie straordinarie che erano frutto della mia sfrenata fantasia. Lei mi ascoltava sempre quando io volevo parlarne, si divertiva a inframmentare commenti sarcastici qui e là per smorzare quell’incontrollabile vena di fantasia che premeva in ogni mia parola. A Tunia la magia non piaceva, diceva che era solo un modo per farci dimenticare quanto squallida fosse la vita reale, ma che una volta realizzato che non esisteva si restava delusi per troppo tempo. Per i suoi sette anni e mezzo, era una delle persone più concrete che abbia mai conosciuto.

Io non davo retta a quella che Will definiva la sua “flemmatica razionalità inglese”.

Mio padre, da buon irlandese, non smentiva né accoglieva mai le mie fantasie, ma era impossibile sbagliarsi sul luccichio del suo sguardo quando, la sera, gli raccontavo com’era andata la giornata facendo permeare in ogni avvenimento, ogni parentesi la magia che dicevo ci circondasse. Era lui che la sera, per farmi addormentare, mi raccontava le straordinarie leggende della sua terra, mimandomi ogni movimento con le mani o con piccoli oggetti attorno. Persino Tunia si divertiva in quei casi.

Mia madre, da brava inglese, di solito cercava di controbilanciare l’influenza del marito insegnandoci la logica, il ragionamento razionale, e io adoravo le sue lezioni quasi quanto i racconti di mio padre. Cecilia Evans era una donna gentile, affettuosa, intelligente: fin da bambine ci aveva trattato come adulte in miniatura, sostenendo che, sebbene fosse loro compito in quanto genitori guidarci sulla via migliore, lei e mio padre dovevano insegnarci a fare le nostre scelte da sole, come individui indipendenti. Non credo le sarò mai abbastanza grata per questo.

Volevo ad entrambi un bene immenso, e ne volevo anche a Tunia, sebbene mi dispiacesse che non riuscisse a condividere la mia vena irrimediabilmente fantasiosa.

Per lei tutto ciò che dicevo erano stupidaggini e che quando mi sarei risvegliata dal mio sogno incantato ci avrei sofferto tantissimo, e cercava quindi di dimostrarmi in tutti i modi che la magia non esisteva.

Ma io la sentivo dentro di me quando camminavo, quando correvo, quando mi destreggiavo con le parallele, la trave, il volteggio, persino nel corpo libero: la mia insegnante mi aveva fatto i complimenti quando, superato il primo anno e mezzo di semplice allenamento fisico, avevo mostrato la mia capacità di fare atterraggi perfetti senza nessun apparente sforzo. Ma per me era normale.

A scuola ero popolare per quello, se si può parlare di popolarità ai primi anni delle elementari: avevo un selezionato gruppetto di amiche intime che conoscevo fin dalla materna e stavo spesso con loro, ma quando andavamo nel piccolo giardino della scuola e facevo vedere loro cosa mi facevano fare a ginnastica, non erano in pochi quelli che mi venivano a vedere.

Era un periodo libero da qualunque preoccupazione, io ero felice, felice della mia vita, dell’affetto dei miei genitori, dell’amicizia dei miei compagni, del fatto che tutto sembrasse riuscirmi facile.

Tunia, da parte sua, stava diventando quella che mia madre definiva “una piccola damina”, teneva molto all’apparire perfetta, precisa e ordinata, la sua stanza, contrariamente alla mia, era sempre in ordine e si divertiva ad atteggiarsi a signora.

Io ero molto più per le corse, le gite, le arrampicate… alcuni dei momenti più belli della mia infanzia era quando arrivava Will per portare il suo “fiorellino” con sé a fare una gita mentre i miei genitori non potevano guardarci, perché lui sopportava e anzi incoraggiava la mia esuberanza, mi spingeva a mostrargli i miei esercizi, mi faceva salire sugli alberi avvicinandomi ai rami dove non arrivavo, mi faceva fare capriole lungo il suo corpo, e poi mi prendeva in braccio e mi faceva ballare: per me non esisteva felicità più grande che ballare con Will mentre Tunia, che veniva sempre con noi anche se non partecipava ai nostri rumorosi giochi, ci guardava con indulgenza. Di solito, quando uscivamo con Will, lei si faceva preparare una borsa da mamma con dentro una piccola merenda e una tovaglia da pic-nic. Completava il tutto portandosi una o più bamboline con cui giocare mentre Will mi faceva volare sugli albero o sopra la sua testa: per lei eravamo come due bambini che si stanno divertendo in maniera simpaticamente infantile, ma lei era superiore a queste cose, sebbene a volte avessimo provato a coinvolgerla rifiutava sempre con un sorriso e si preoccupava di farci trovare pane e marmellata quando tornavamo dal punto dove si era seduta.

In quelle occasioni, appena ci allontanavamo Will mi si avvicinava per sussurrarmi all’orecchio: «Figlia inglese…» e io ridevo e lo abbracciavo mentre cominciavamo una lotta scherzosa.

In modo del tutto infantile e privo di malizia, ero innamorata del mio padrino, pensavo che fosse la persona più bella del mondo e con lui mi sentivo felice e al sicuro, il suo sorriso era sempre in grado di rischiararmi la giornata, e in generale il suo arrivo era collegato per me ad un tale benessere che un giorno, dopo che stavamo tornando a casa da una lunga escursione nelle campagne intorno a Dublino, gli avevo chiesto con grande serietà: «Will, quando sarò più grande mi sposerai?»

Tunia aveva subito alzato gli occhi, stupita e indignata più dal fatto che fosse la donna a proporsi all’uomo che non che io stessi chiedendo in matrimonio un uomo dell’età di mio padre.

Lui invece era scoppiato a ridere e aveva levato una mano dal volante per stringere la mia dicendo: «Sì, fiorellino, quando sarai più grande ti sposerò, se tuo padre non mi ammazza prima!»

Io ero completamente fiduciosa sulla magnanimità di mio padre e quindi non mi porsi neanche il problema, anche perché quando annunciai a mia madre che da grande avrei sposato Will lei mi guardò con un sorriso e una risata appena trattenuta e disse a mio padre: «Alan, dì a quel pazzo scatenato del tuo migliore amico che è troppo vecchio per mia figlia!»

Io avevo protestato e loro avevano continuato a ridere, e mio padre aveva detto: «Quando sarai più grande, Lils, se ancora vorrai sposare quel cretino, vedrò di darvi la mia benedizione.»

Quindi per me non c’erano assolutamente problemi, anche se non capivo perché gli adulti dovessero ridere su quella che per me era una questione della massima serietà.

Fu quando ci trasferimmo a Manchester, in Inghilterra, che dovetti fare i conti con quella che mia sorella chiamava “realtà”: in Irlanda, in mezzo al verde ed alle tradizioni popolari, era facile immaginare che il mondo fosse pieno di fate e folletti, ma in quella città inglese caotica e non a caso chiamata “the town of the tall chimneys” tutto sembrava molto più cupo, più impossibile. Smisi di credere alle fate solo quando i miei nuovi compagni mi cominciarono a prendere spietatamente in giro, chiamandomi l’“Irlandese visionaria”. Avevo otto anni.

I miei genitori avevano entrambi terminato il tirocinio e pubblicato un paio di libri che avevano, a quando pareva, catturato l’attenzione di alcuni professori. Avevano ricevuto un’ottima proposta dalla University of Salford, un posto davvero buono per persone della loro età: a entrambi era proposta una cattedra fissa nella stessa sede, e quindi avevano colto al volo l’occasione. Inoltre, anche se questo lo capii solo dopo, erano entrambi inquieti per la situazione a Dublino: nel ’66 era stata fatta esplodere la colonna di Nelson e fin da quando ero piccola mi ricordavo che c’erano molte case che venivano abbattute; allora non sapevo che erano edifici giorgiani eliminati per un feroce senso di nazionalismo contro gli ex dominatori inglesi.

Per me, allontanarmi dall’Irlanda fu un tuffo al cuore, sebbene col tempo ci avrei fatto l’abitudine.

Per una persona abituata a muoversi per spazi vedi, a correre, ridere, dire quello che mi pareva, l’atmosfera pesante e grigia di quella città era opprimente. Magra consolazione, c’era una palestra di ginnastica non troppo lontano da casa nostra, grazie a dio. Ma intanto non avevo più nemmeno il conforto di Will e la felicità di poter credere nella magia che Tunia continuava a ripetermi non esisteva, come ormai avevo accettato anch’io per forza maggiore.

Eppure io sentivo ancora il mio potere, riuscivo ancora a fare quei salti e quegli atterraggi che mi erano valsi due medaglie d’oro alle gare di ginnastica artistica. Anzi, quando compii nove anni riuscii addirittura ad accendermi una fiammella sull’indice. La prima volta mi spaventai e la spensi cacciando un urlo. Solo Petunia accorse per vedere cosa fosse successo, mamma e papà erano in giardino e stavano discutendo, e io avevo soffocato il mio grido sul nascere.

«Lily, cos’è successo?» mi chiese precipitandosi in camera mia. Io mi stavo ancora guardando la mano, stupefatta. Tunia mi prese per le spalle e mi scosse. «Lily, rispondimi immediatamente! Cos’è successo?»

Io alzai gli occhi su di lei, ancora incredula, poi soffiai: «La mia mano… ha… preso fuoco!»

Lei mi guardò per un attimo come se temesse per la mia sanità mentale. «Oh, smettila con tutte queste sciocchezze, Lily» sbuffò alla fine lasciandomi andare. «Credevo che da quando fossimo qui avessi lasciato perdere tutte queste stupide fantasie!»

«Non è una stupida fantasia, Tunia!» esclamai offesa. «Era reale, è successo sul serio… guarda!» aggiunsi aprendo la mano e concentrandomi. Due secondi dopo, una fiammella mi brillava sul palmo, placida, calda ma senza essere ustionante.

Vidi Petunia impallidire. «Cosa…?» cominciò mentre si avvicinava per vedere la fiammella, osservandola da tutte le angolazioni possibili. «Come fai?» chiese in un soffio sfiorando appena il mio piccolo miracolo.

Io mi strinsi nelle spalle e il fuocherello si spense. «Non lo so, Tunia» risposi, ancora un po’ scioccata. «É… istintivo, quasi.»

Il suo sguardo era quasi bramoso mentre si fissava sulla mia mano. «Non lo deve sapere nessuno, Lily, lo capisci vero?»

Io rimasi confusa. Uno dei miei primi pensieri era stato quello di farlo vedere ai ragazzi che mi avevano preso in giro la prima volta per dimostrargli che la magia esisteva. Non sapevo neanche più se era vero, ma ero sicura che qualcosa fosse, e quindi potevo benissimo spacciarla per magia.

«Lily, mi hai capito?»

Io scossi il capo. «Perché?» chiesi infantilmente. «Cosa può esserci di male?»

Tunia sospirò. «Potrebbero credere che sei strana, che sei diversa…»

«Ma è vero!» protestai io vivacemente.

«Ma non lo devono sapere!» rispose lei. «Potrebbero farti del male, potrebbero essere pericolosi, potrebbero spaventarsi…»

Io stavo per ribattere quando una nuova scena mi apparve davanti agli occhi: un ragazzino di quarta della nostra scuola, magro e pallido, che veniva pestato a sangue da alcuni ragazzi poco più grandi di noi perché aveva fatto alcuni trucchetti di magia, forse per impressionare alcuni dei bambini lì attorno. E sebbene credevo che a me non sarebbe successo – oltre a essere abbastanza veloce, ero sicura che non avrebbero picchiato allo stesso modo una ragazza – accettai il consiglio di Petunia.

E non parlai a nessuno di quel mio piccolo dono.

Intanto la vita continuava più o meno tranquilla, sebbene continuassi ad odiare i miei compagni ed a rimpiangere l’Irlanda: non riuscivo ad omologarmi, ero più brava a scuola, stavo sempre per i fatti miei o con Petunia, quando credevo di non disturbarla. A nessuno, lì, interessavano le mie storie o i miei salti, ero poco più che invisibile, un’ombra abbastanza molesta che si aggirava attorno a loro. Non erano interessati o curiosi verso di me, ma indifferenti e in alcuni casi addirittura ostili. Non sapevo nemmeno se era per colpa mia o per colpa loro, ma ogni volta che incontravo altri ragazzi della mia classe mi sembrava sempre che mi guardassero stranamente o che sussurrassero alle mie spalle, tanto che a volte avrei voluto sbottare: “Sì, sono diversa, e allora?!”. Diventavo sempre più introversa, anche se cercavo di fare buon viso a cattivo gioco. Non dico che diventassi scontrosa, ma nascondevo i miei pensieri dietro una maschera più o meno sorridente.

I miei genitori ne erano consapevoli, anche perché glielo raccontavo io il più delle volte, ma non sapevano bene cosa fare: si erano trasferiti perché tutti e due per il loro lavoro e, per quanto riguardava solamente loro, andava tutto benissimo. Quindi si dispiacevano per me e mi consolavano, sollevavano e facevano ridere, ma non potevano cambiare la situazione presente nella mia scuola. E di fatto era colpa mia se prendevo tutto così male: il posto non era orribile, non avevamo preso una casa in centro e quindi c’erano alcuni prati attorno alla nostra casa, la mia scuola era molto più grande di quella in Irlanda e c’erano molti più bambini della mia età. Forse era semplicemente il fatto che io mi trovavo meglio con le persone più grandi, gli adulti o a volte anche i vecchi. E poi ero piombata fra capo e collo a metà delle elementari in una scuola in cui già tutti si conoscevano da tempo, con cognizioni diverse, e spesso più approfondite, grazie al fatto di avere due insegnanti come genitori ed una smodata passione per le ricerche e gli approfondimenti. Il fatto che fossi in poco tempo diventata la prima della classe non mi aiutava, anzi, faceva sì che quelli che prima del mio arrivo erano i più bravi mi guardassero di sbieco e spingessero anche gli altri a considerarmi una So-tutto-io snob. Ho paura che ad un certo punto lo fossi diventata sul serio, anche se cercavo di rimanere più imparziale possibile verso di loro.

Normalmente mi rifugiavo nei miei mondi immaginari, creandomi amici fra le creature fantastiche che avevo imparato a considerare solo frutto della mia fantasia. Adoravo Carnevale e Halloween, quando potevo mascherarmi e recitare e fingere di essere solo una dei tanti bambini che passavano da porta a porta.

Anche Tunia stava cambiando: per lei l’arrivo a Manchester non aveva significato una sorta di autoimposta emarginazione, ma un cambiamento più profondo. Aveva fatto amicizia con alcune ragazze della sua età che io consideravo tremendamente superficiali e, per adattarsi meglio ed essere accettata nel loro gruppo, aveva cominciato a comportarsi come loro, esasperando la sua abitudine alla precisione in una maniacale attenzione per il suo aspetto e per l’ordine delle sue cose, ostentando un atteggiamento che aveva dello sprezzante verso gli altri ragazzi e parlando con vocaboli elaborati che le davano solo un’aria obsoleta, anche perché la maggior parte delle volte non sapeva nemmeno cosa volessero dire. Inoltre, poiché relazionarsi da pari con una sorella minore era considerato da sfigati, raramente mi rivolgeva la parola in pubblico.

Tutto questo mi urtava e a volte mi faceva anche piangere, tuttavia non sarebbe stato giusto definirmi infelice: ero troppo giovane per crogiolarmi in una malinconica depressione perpetua. Dopo il primo periodo di riassestamento, in cui era risultato che provare a fare amicizia con i miei compagni era un tentativo fallimentare, avevo accettato il fatto che la situazione era cambiata radicalmente dall’Irlanda ed avevo quindi cambiato completamente prospettiva; non provavo più a farmi degli amici fra persone che consideravo prevenute nei miei confronti, e era più facile che mi ritirassi nel mio mondo fantastico, popolato dagli amici immaginari con cui potevo parlare liberamente e di tutto e che mi salvavano dalla solitudine, e poi avevo cominciato a divorare dozzine di libri e riuscivo ad immedesimarmi tanto bene nei personaggi che potevo piangere quando un amico moriva come ridere di gusto per una battuta divertente.

In base a questa nuova realtà, io e Tunia restavamo insieme molto meno rispetto a quando eravamo più piccole, e spesso, soprattutto in presenza dei suoi compagni, Petunia assumeva nei miei confronti un atteggiamento di superiorità davvero irritante. Credevo di capirne le cause, e provavo ad accettarlo, ma era veramente difficile.

Anche se ormai nessuno ci chiamava più così, eravamo rimaste la “figlia inglese” e la “figlia irlandese” che Will aveva riconosciuto così tanto tempo prima.




ANGOLO AUTRICE

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera, lettori. Un saluto a tutti quelli che sono arrivati fin qui, e un paio di note per chi vuole prendersi la briga di leggerle.


Allora, che io sappia non ci sono notizie sul luogo di nascita di Lily né su dove ha trascorso la sua infanzia. Riguardo al primo ho lavorato di fantasia, riguardo al secondo ho scelto Manchester perché, come ho già detto nel capitolo, veniva chiamata “la città delle alte ciminiere”. Inoltre, nello spazio del Lexicon dedicato all’identificazione di Spinner’s End, Manchester viene identificata come la più probabile località proprio per la sua natura industriale. Ciò nonostante, si dice anche che è improbabile che fosse in centro (ho pensato che il quartiere di Salford fosse il più indicato). Mi sono attenuta ad entrambe le descrizioni, basandomi anche sulla necessità di trovare un fiume vicino. Effettivamente c’è un fiume che scorre a Manchester, l’Irwell, e ci sono anche numerose fabbriche, molte delle quali di natura tessile (uno dei significati di “Spinner” in inglese è filatore). In base a quanto ho scritto io, Lily non vive direttamente a Spinner’s End, ma solo abbastanza vicino; stando alla descrizione infatti Spinner’s End sembra un quartiere operaio, e per mia scelta ho preferito fare i genitori di Lily professori e non operai o comunque lavoratori del settore industriale. In questa scelta sono stata anche supportata dall’evidente disprezzo di Petunia per Spinner’s End ne “La Storia del Principe” di Harry Potter e i Doni della Morte.

L’Irlanda è una scelta che può avere numerose motivazioni. Volevo qualcosa che rendesse Lily più propensa a credere alla magia, che le desse un temperamento nettamente contrapposto a quello della sorella, e la nota – non me ne vogliano gli esperti – “vena magica” dell’Irlanda è giunta fino alle mie orecchie. Inoltre, mi sembrava un posto molto migliore per crescere di una grigia città industriale inglese. Il trasloco mi serviva, oltre che per tornare nel Canon, anche per poter dare a Lily quel senso di spaesamento che, secondo me, l’avevano portata a comprendere ed apprezzare Severus Piton, anche se di questo parleremo nel prossimo capitolo.

William Caulfield è, di fatto, la personificazione dell’Irlanda. È l’amico adulto, introdotto fra l’altro un po’ successivamente a livello cronologico, e devo dire che per descriverlo un po’ mi sono ispirata ad un altro famoso padrino di Harry Potter, a.k.a. Sirius Black, anche se la crudeltà della Rowling ci ha impedito di vederlo in tale veste.

La ginnastica artistica è un omaggio a mia madre, da sempre appassionata di questo sport. Inoltre, per un personaggio dinamico come la Lily che ho sempre immaginato io, uno sport bello e coreografico come questo era l’ideale. Di nuovo, gli esperti o gli appassionati mi perdonino le possibili ingenuità in materia.

Le università/scuole citate sono effettivamente esistenti, e spero che il fatto che nei loro annali non siano riportati i coniugi Evans non sia considerato oltraggio alle cattedre.

Bene, credo sia tutto.

Ciao a tutti coloro che hanno letto!


ANGOLO PUBBLICANTE


Salve a tutti!

Dato che quel gran genio di mia sorella ha già sviscerato ogni singolo punto del capitolo, come è giusto che sia, io non ho molto da dirvi...

Ringrazio subito chi ha letto l'avviso iniziale e chi leggerà questo capitolo (sempre che qualcuno lo faccia... EVVIVA L'OTTIMISMO! -.-)

Grazie a...

purepura: sono felice che la storia di interessi e se adori il personaggio di Lily... questa è veramente la storia giusta dato che è interamente concentrata su di lei e sui suoi pensieri, e non lo dico solo per fare pubblicità (o forse sì... vi lascerò il beneficio del dubbio!)


Grazie anche alle persone che hanno inserito la storia tra le seguite.


Ho ricevuto scrupolose e arrabbiate istruzioni in cui mi si intimava di aggiornare ogni DUE settimane, io obbedisco e mi dispiaccio per il mio errore nella presentazione. Alla prossima!

(Tutto questo rivolgermi ad un inesistente pubblico non giova alla mia, poca, sanità mentale...)

  
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