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Autore: NevanMcRevolver    03/11/2010    1 recensioni
Il fatale suono dell’Atlantico del Sud.
La scia di sangue della Dolce Melodia di Requiem.
L’urlo muto di un’anima prodiga.
La seducente melodia dei mari, il cantore delle sirene.
“Mi chiamo Sorrento Seebacher. Sareste così gentili da voler ascoltare la mia storia?”
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1

Mi chiamo Sorrento Seebacher

 

 

Mi chiamo Sorrento Seebacher.

Sareste così gentili da voler ascoltare la mia storia?

Tranquilli, non vi spaventate! Non è poi così lunga.

A modo suo, nonostante i vari risvolti, è una storia che è andata a lieto fine.

Anzi, perché fine?

Che il Sommo Poseidone, signore dei mari, non si risvegli più? Non voglio crederci, e nutro la speranza che, prima o poi io possa tornare ad allietare le sue giornate con il mio flauto.

 

Sono nato il 10 settembre in Austria.

Di mio padre non so molto, ad essere onesti: ricordo che aveva un negozio di strumenti musicali.

Molto probabilmente proprio per questo mi innamorai sin da subito della musica.

Ricordo che mio padre mi regalò, da piccolo, un violino per il mio decimo compleanno.

Questo è l’ultima memoria che ho di mio padre: dopo sei mesi morì.

Andò a Vienna per partecipare ad una mostra di strumenti musicali. Il Fato volle, però, che il ponte che egli stava attraversando con il suo carro cedesse, e che precipitasse dentro.

Più semplicemente, annegò.

Chi avrebbe mai pensato che la mia vita sarebbe stata stravolta sin dall’infanzia dall’acqua, alla quale sarei rimasto legato per anni e anni al cospetto del grande Poseidone?

Il fato a volte è ironico, se non crudele.

Ricordo che il fiume non esitò a mangiare il corpo di mio padre, tanto da non poterlo più riavere indietro per offrirgli una sepoltura degna di questo nome.

La nostra situazione economica non era delle migliori, e mia madre dovette lavorare sodo per darmi un’istruzione adeguata.

Abbandonai i miei studi di violino e decisi di studiare il flauto traverso.

In realtà gli strumenti a fiato non mi avevano mai appassionato più di tanto, ma quella decisione veniva davvero dal mio profondo. Anzi, era più come se qualcuno me lo avesse suggerito.

All’età di dieci anni non sapevo quanto sarebbe valsa quella mia decisione!

A scuola mi dedicavo anima e corpo negli studi, e per questo non riuscii a socializzare molto con i miei compagni.

Forse era anche un po’ colpa del mio aspetto bizzarro: non è normale trovare sulla faccia della Terra un bambino dai capelli viola e gli occhi color amaranto!

Si sa: i bambini per certe cose sono piuttosto schizzinosi, non sono in grado di accettare come alcuni adulti gli “scherzi” di Madre Natura.

In ogni caso, anche se con qualche difficoltà riuscii a stringere amicizia con due ragazzi: Florian e Theresa.

Erano i miei migliori amici.

Ancora oggi, di tanto in tanto, mi chiedo che fine abbiano fatto.

Sono vivi? Sono morti? Sono Sposati? Hanno figli? Che lavoro fanno?

Ma soprattutto…

Si ricordano ancora di me?

Andiamo con ordine, però!

Conobbi Florian e Theresa il primo giorno di scuola. Me ne stavo appoggiato alla parete in fondo all’aula perso nei miei pensieri, senza ricordare davvero dove mi trovassi.

Mi lanciarono una pallina di carta. Mi chinai e la presi in mano. Poi mi guardai intorno per capire chi me l’avesse lanciata.

Sulla porta c’era un ragazzino che odiavo dal primo momento che vidi.

L’astio era tale che non ricordavo mai il suo nome, e nemmeno oggi riesco a ricordarlo: evidentemente la sua esistenza, per me, contava davvero poco.

Sghignazzò ed era curioso di vedere la mia reazione.

Vedendo che me ne restavo per i fatti miei senza considerarlo davvero più di tanto quello iniziò ad urlarmi contro.

-Mostro! Chi nasce con i capelli viola non è normale, lo sai?-

“Non considerarlo! Tanto prima o poi deve stancarsi!” pensavo.

-E forse nelle mutande non hai niente! Sei una femminuccia!- mi urlò, ridendo e coinvolgendo qualche altro.

Ero letteralmente mortificato.

Tremavo, non sapevo cosa dire, come reagire, se reagire.

Quello che riuscii a fare fu solo inumidirmi gli occhi e chinare il capo per terra.

Non volevo farmi vedere che stavo piangendo, per cui mi girai verso il mio giubbotto fingendo di cercare qualcosa nelle tasche.

La campanella, disgraziatamente, ritardava a suonare, e io non sapevo che fare.

Non potevo mica restare rivolto verso l’attaccapanni tutto il tempo!

Fu allora che mi sentii chiamare da una manina.

-Hey, lascialo stare…-

Era una voce femminile a parlare.

Mi girai che non riuscivo più a trattenere le lacrime, e piani.

Dopo qualche istante mi pulii il viso con la manica della divisa.

Mi rivolsi verso la ragazza, e notai che dietro ci stava anche un bambino, che mi guardava, incuriosito, senza odio, innocente.

Abbozzai ad un sorriso, e non riuscii a fare nulla di più.

-Theresa e Florian- disse, indicando prima sé stessa e poi l’altro.

-Sorrento…- mormorai; ero ancora così agitato da non scandire bene le parole; i due, infatti, si sporsero in avanti, non avendo sentito.

Mi schiarii la voce: -Sorrento- dissi, fiero del mio nome.

Mi sorrisero e poi se ne andarono ai loro posti.

Nei giorni a seguire parlavo con loro due sempre più spesso, e nacque fra noi un legame davvero forte, quasi fraterno, di cui ancora oggi ne conservo il dolce ricordo e assaporo la triste nostalgia.

Ogni volta che tornavo a casa, mia madre mi chiedeva come fosse andata la giornata a scuola; anche se ero piccolo, riuscivo a capire che la cosa non le interessasse davvero molto: la perdita di mio padre era ancora recente, e lei, in particolare, l’avvertiva ancora come une ferita che continua sempre a sanguinare senza mai rimarginarsi.

In ogni caso le rispondevo che tutto andava bene e che stavo stringendo amicizia con Theresa e Florian.

Allora lei mi accarezzava il viso e mi preparava da mangiare.

Ed io, vedendola, puntualmente, stavo male, nonostante fossi un semplice bambino di soli dieci anni avevo una fortissima empatia. Alla fine, col passare del tempo, mia madre se ne fece una ragione, e si riprese: ritornò alla vita dopo questo stato di pseudo-morte.

Tutto andava per il meglio, il lavoro di mia madre portava a casa i suoi benefici, e sotto il tetto di casa Seebacher non mancò mai nulla.

Un giorno, esattamente dopo sette mesi dalla morte di mio padre, ricordo che stavo in camera e suonavo il flauto: aveva appena finito la parte di solfeggio e iniziavo a dilettarmi nelle prime melodie.

Erano di una facilità sconcertante, ma per me, un novellino nell’uso del flauto, erano davvero impegnative.

Però ero comunque concittadino di molti compositori, Mozart su tutti.

“Ed io non sarò da meno!” pensai, mentre voltavo la pagina dello spartito, quando mia madre entrò in stanza e mi abbracciò forte.

Spaventato, mi ficcai anche il flauto nell’occhio, ma vedere mia madre ridere era uno spettacolo che valeva la pena di quel piccolo dolore.

-Che succede?- le chiesi, quando si calmò.

-E’ arrivata una lettera dall’Italia, è di tua zia Selene! Ci ha invitati a Venezia!-

Guardai mia madre stupefatto.

-Venezia…- le dissi, guardandola come se fosse una dea e con tutto lo stupore possibile.

“La città galleggiante!” pensai.

-Quando ci andiamo?- le chiesi, non appena riacquistai un filo di voce.

-Fra una settimana!- rispose lei, sistemandomi il vestito e esaminando l’occhio, che si era un po’ gonfiato.

Stupidamente, anzi, in maniera molto puerile, pensai: “Finalmente andrò in gondola”. Per me sarebbe stato il massimo!

Come stabilito, una settimana dopo partimmo alla volta della Laguna veneta.

La prima cosa che notai di Venezia, non appena misi piede in terra, era l’odore.

Dopo qualche minuto il mio corpo si era già abituato, e non ci feci più caso, anche perché ero troppo impegnato a guardarmi intorno.

Salutammo gli zii, a piedi, facemmo un rapido giro della città.

-In questi giorni, poi, la visiterete con più calma!- disse zia Selene.

Passammo davanti a Palazzo Seta, la Basilica di San Marco, la Torre dell’Orologio.

Ero stupefatto da tutta quest’arte che mi circondava, anche se i miei occhi di tanto in tanto guizzavano verso i canali, dove i gondolieri scorrazzavano la gente di qua e di là, fornendo anche indicazioni e descrizioni della città.

Gli altri evidentemente se ne accorsero, perché sentii dire mia madre dire: -Se non lo porto in gondola è capace che si ammazza!-

Fermarono la prima barca vuota, e il viaggio ebbe inizio.

Ricordo che dopo aver solcato un po’ quelli che erano i canali più importanti, zia Selene disse di andare verso il mare aperto, per vedere Venezia in tutta la sua interezza.

Ci lanciammo, allora, verso il mare aperto: fu allora che accade.

Uno scossone fece sussultare l’imbarcazione, tanto che, impauriti, tutti, gondoliere compreso, ci arpionammo letteralmente all’imbarcazione.

La barca, allora, prese inizialmente a girare su sé stessa, poi sempre più velocemente.

-SONO LE CORRENTI!- urlò il nocchiere, cercando di riportare la gondola su acque più calme.

I suoi tentativi, però, furono vani: la gondola girò sempre più velocemente, come una trottola impazzita e poi un colpo la prese dal basso.

La barca venne spezzata in due di netto, precipitando e portandoci con sé.

Non appena il mio corpo fu sott’acqua, non sentii più nulla.

La vista era annebbiata, ma scorsi le figure di mia madre e i miei zii che nonostante tutto, invece di risalire, andavano sempre più giù, e del gondoliere, che perdeva sangue dalla testa.

Non potevo respirare, ma i miei polmoni reclamavano ossigeno, la cui mancanza non fece altro che farmi perdere coscienza del mio corpo.

L’udito era come se non mi fosse mai appartenuto, e questo muto e umido silenzio mi spaventava.

Presi a tremare, e a perdere coscienza: dovevo respirare, ma non potevo.

“Muoio” pensai.

Sentii il mio corpo scivolare verso il fondo.

Svenni.

  
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