2.
La notte
era difficile da trascorrere. La città era così buia e deserta – a parte i
night club gremiti di gente. Non potevamo dormire come umani, quindi dovevamo
trovare svariati passatempi per uccidere la noia.
Possedevamo
un piccolo appartamento in un quartiere tranquillo, composto solo da un
salotto, una stanza da letto – tanto per non dare nell’occhio – e una cucina –
per il medesimo motivo. Passavamo pochissimo tempo lì dentro. Ci piaceva
passeggiare nel buio delle strade. La notte era nostra amica e compagna. Ci nascondeva. Potevamo spassarcela alla
grande senza essere visti da nessuno.
« Che ne
dici di una corsa? », propose Ethan, gli occhi appena illuminati d’entusiasmo.
« Okay,
marmocchio. Chi arriva per ultimo beve quel latte scaduto da un mese che
abbiamo nel frigo », e iniziai a correre. Per quanto riguarda il latte scaduto…
Potevamo mangiare qualsiasi cosa, ma non ci saziava. Era come mangiare aria. E,
per di più, non aveva sapore – il più delle volte. Il latte scaduto, invece,
aveva un sapore acido che faceva smuovere le viscere.
Ethan mi
sorpassò con passo leggero e aggraziato. Sembrava appena sfiorare l’asfalto. I
capelli ramati gli svolazzavano frenetici intorno e il cappotto grigio si
gonfiava nel vento.
Era
piccolo, ma alla faccia se era veloce! E di certo non volevo bere quel latte!
Accelerai
la corsa, sentendo il vento negli occhi fastidiosamente furioso. Li chiusi. Non
avevo bisogno di vedere per camminare, mi bastava l’olfatto sviluppato e
l’udito.
« Ehi,
attento all’albero! », mi urlò la voce di Ethan da dietro. Mi fermai di colpo
per evitare di andare a sbattere contro all’ostacolo e aprii gli occhi.
Certo che
ero proprio idiota. In città mi preoccupo degli alberi?
Ovviamente
Ethan aveva avuto tutto il tempo di superarmi e di prendersi un certo
vantaggio.
« Davvero
astuto da parte tua, moccioso! », gli urlai dietro ricominciando a correre
quanto più veloce possibile. La sua risata fu come una brezza fresca sul viso.
Non
potevo avere il fiatone, per fortuna, altrimenti mi sarei ritrovato morto al
suolo a furia di correre a quella velocità e a quella costanza. Lo raggiunsi.
Gli ero esattamente dietro alle spalle. Ethan si girò a guardarmi e accelerò
ancora. Ero sicuro che un proiettile fosse più lento di lui quando correva.
Ormai
avevo perso. Il nostro appartamento era vicinissimo e Ethan era avanti a me.
Toccò il portone e segnò la sua vittoria.
« Mi dispiace,
mio caro, ma questa volta tocca a te » e mi allegò anche una bella linguaccia.
Lo
guardai in malo modo. Salii lentamente le scale – l’ascensore non era
esattamente il mio mezzo di trasporto preferito – e aprii la porta con le
chiavi.
« Mi hai
imbrogliato », lo incolpai gettando il giubbotto di pelle sul divano nero di
velluto.
« In
guerra e in amore tutto è lecito », recitò solennemente.
Scossi il
capo e mi diressi direttamente in cucina. Mi seguì come un’ombra, in attesa del
suo trofeo.
Aprii il
frigo con riluttanza e scelsi la bottiglia di latte scaduta da più tempo.
Svuotarla semplicemente nel lavandino no? No. Svitai il tappo e accostai la
plastica fredda alle labbra, per poi inghiottire a grandi sorsi il contenuto
freddo e acido. Sentivo le ondate di latte corrodermi l’esofago, bruciarlo e
arrivare nello stomaco dove ormai i succhi gastrici si erano estinti da troppo
tempo. Il bruciore si espanse e divenne insopportabile, ma continuai a bere
fino a svuotare la bottiglia. Masochista io?
Buttai la
bottiglia nel secchio della spazzatura. Lo stomaco ruggì violentemente e sentii
il contenuto lattiginoso risalire all’esofago.
Corsi in
bagno senza perdere tempo e vomitai tutto il litro di latte appena ingurgitato.
Bello schifo. Tanto il dolore del processo che mi lacrimarono gli occhi.
Lacrime rosse, sanguinolente, che macchiarono il liquido biancastro appena
rigettato.
« Bello
schifo », commentai scaricando.
« Ti è
sempre piaciuto mantenere un po’ di umanità. Be’, più umano di così ».
Lo
guardai ripulendomi il viso dalle lacrime con la carta igienica e gettandola
nel water.
«
Ricordami di non scommettere mai più il latte ».
Lo
sorpassai mentre lui sghignazzava. Il divano fu molto propenso ad accogliermi.
Accesi il televisore al plasma sulla BBC.
« Perché ti
interessa tanto sapere cosa accade nel mondo? », mi domandò Ethan,
accomodandosi al mio fianco. « Le notizie sono sempre le stesse, morti su
morti. Che sfizio c’è? ».
Il suo
ragionamento non faceva una piega, ma era proprio quello il punto. Non eravamo certo
gli unici della nostra specie sulla Terra. Più crimini di quanto si potesse
immaginare erano commessi da vampiri. Cosa potevo farne io? Nulla, ma vedere
quei corpi mutilati mi ricordava quanto fossi pericoloso e quanto fosse
necessario tutto quello che facevo ogni giorno.
Il senso
di colpa può essere la cosa più distruttiva che esista.
Mi
accoccolai meglio sul divano, togliendo le scarpe e quasi sdraiandomi
completamente. Era così grande da farci entrare me sdraiato e Ethan seduto.
Sospirò
pesantemente. « Kian, quando imparerai a sfogarti? Tenerti tutto dentro non
aiuta ».
Lo sapevo
bene, ma che potevo farci? « Non ho niente da dire ».
« Sì,
certo », alzò gli occhi al cielo.
« Notizia dell’ultimo minuto. Una
donna di trentacinque anni è stata ritrovata con la gola squarciata in un
quartiere periferico di Boston. La scientifica ha dichiarato che la ferita
mortale non è stata inferta da un’arma da taglio, bensì sembrerebbe essere
causata da un morso. I denti hanno lacerato la carne. Può un umano provocare un
tale danno? Parola alla nostra inviata ». La voce del presentatore si interruppe per dare la
linea all’inviata sul posto.
« Vampiro
», sussurrammo io e Ethan all’unisono. Io con noncuranza e noia, lui quasi
sconvolto. Poi mi fissò, girandosi verso di me con lentezza esasperante.
« E’ stato ritrovato pochi minuti fa il
cadavere di Melissa Kirkly, trentasei anni. La causa della morte risulterebbe
essere un taglio profondo alla gola, non inferno da nessun tipo di arma da
taglio, come ha dimostrato l’esperto. Vi è un morso su un lato del collo, da
cui sembrerebbe partire il taglio. Ma come possono denti umani squarciare la
carne in questo modo? Le impronte dei denti presenti sul collo risultano essere
puramente umane. Un nuovo serial killer con denti d’acciaio? Per ora è tutto,
linea allo studio ».
Denti
d’acciaio? Mi venne quasi da ridere, ma l’espressione sul volto di Ethan era
fin troppo seria. E scrutava me.
Lo
guardai a mia volta, aspettando che dicesse qualcosa, perché aveva proprio
l’aria di volermi dire qualcosa. Poi capii, senza che dicesse nulla.
Semplicemente perché guardò sulla mia testa, solo per un secondo, che però mi
bastò per capire.
« Tu… ».
Sentivo la mia voce piena d’accusa. « Tu pensi davvero che io possa…? ».
Il suo
sguardo non lasciava spazio a dubbi. Lui pensava davvero che avessi potuto
uccidere io quella donna, dopo tanti anni che non uccidevo più. Fu una
pugnalata al cuore, che scendeva sempre più giù, fino allo stomaco e mi
mischiava le budella.
« Kian »,
mi chiamò, con la voce colma di scuse nascoste. Come poteva dubitare di me?
Come?
« No, no.
Non sono stato io, che tu mi creda o no », dissi impassibile, di nuovo sulla
difensiva.
Mi alzai
dal divano, desideroso di allontanarmi da lui il prima possibile. Mi credeva un
mostro. Mi credeva quello che cercavo
di non essere più. Però, infondo, sapevo di essere un mostro. Fino a quando lo
sapevo io era okay, ma quando lo
credevano gli altri, peraltro senza fondamento, mi sentivo ferito.
Nell’orgoglio, nell’anima che forse non possedevo più, nel fisico. Ovunque.
« Kian,
ti prego, non fraintendermi… ».
« E come
potrei? Sei stato chiarissimo, Ethan ». Detto ciò, uscii di casa con le scarpe
e il giubbotto di pelle in mano. Speravo di aver tracciato un confine con quel
gesto umano, ma che non avrebbe di certo fermato un vampiro. Non potevo fuggire
da Ethan, mi avrebbe ritrovato comunque. Speravo che recepisse il messaggio.
Infilate
le scarpe e indossato il giubbotto, uscii da quel palazzo, a quell’ora di notte
desolato, nessun rumore percepibile – a parte il televisore acceso in casa
nostra, ovviamente.
Non
sapevo dove andare, avevo solo bisogno di stare da solo a pensare. Ancora.
Avevo
visto un sacco di uccisioni provocate da vampiri, con il solito metodo:
squarcio della gola. Serviva solo per eliminare le prove, quei due fori tanto
graziosi e innocui. Ma tutti i vampiri badavano bene a non lasciare alcuna
impronta di denti nel farlo. Di solito usavano davvero un pugnale per eludere
le tracce. Perché questo vampiro era stato tanto stupido da lasciare impronte
dentarie? E come mai non avevo percepito la sua presenza in città?
Vagai per
più di mezz’ora per le strade deserte della città, senza pensare a nulla. Già,
oltre a pensare eccessivamente potevo anche sgombrare la mente da qualunque
pensiero. Una gran dote, a dirla tutta.
Sarei
voluto ritornare a casa e perdonare Ethan, ma non potevo. Avevo l’orgoglio
troppo ferito, come poteva accusarmi dopo tantissimi anni che mi conosceva?
Sapeva che non uccidevo mai spontaneamente. L’avrei ammesso, se avessi ucciso
io quella donna. Una in più, una in meno, ormai per me non faceva più la minima
differenza. O meglio, forse sì, ma non così tanto da perdere Ethan per una vita
umana. Era l’unica cosa che avevo. L’unica cosa che mi rimaneva. L’unica cosa
che mi tratteneva dal lasciarmi sopraffare dalla follia.
Un suono
improvviso irruppe nel silenzio notturno. Era un suono strano, che avevo già
udito in precedenza. Che avevo udito per troppo tempo.
Corsi
verso quel suono come una saetta e mi misi dietro un bidone dei rifiuti per
capisci qualcosa.
C’era
un’ombra nera, scura, che non riuscivo a distinguere benché al buio vedessi
benissimo. Poi c’era un uomo, in ginocchio, che aveva perso i sensi. Lo
percepivo dal rumore del suo sangue che velocemente correva a concentrarsi
nella carotide…
L’ombra
si accorse della mia presenza. Aveva forma umana, perché vidi chiaramente la
sua testa – o quello che pensavo fosse la testa – girarsi verso la mia
direzione e a quel punto due occhi rosso fuoco mi fissarono a lungo. Non avevo
mai visto occhi così rossi, così luccicanti di sangue. Per un attimo sentii un
brivido di paura scivolarmi lungo la schiena, ma poi ricordai che io non potevo
aver paura, io ero un vampiro, e
scusatemi se è poco!
I suoi
occhi continuavano a fissarmi, senza espressione, semplicemente rossi,
luccicanti. Non riuscivo a capire cosa
era. Non riuscivo a capacitarmi di non distinguerne la forma. Era come tutt’uno
con il buio. Faceva davvero impressione. Conoscevo vampiri capaci di
dissolversi nella notte, ma non ne avevo mai visto uno capace di confondersi
con essa mantenendo le sue sembianze. In realtà non sapevo nemmeno se fosse un
vampiro, ma siccome stava bevendo il sangue di quel povero disgraziato…
Insomma, quante creature mitologiche bevono il sangue degli umani? Due più due
fa quattro, gente!
Eppure,
non poteva essere un vampiro. Perché? Perché Boston era il mio territorio,
ormai, e io percepivo quando un vampiro si trovava nel mio territorio. Il rito
del sangue conciliato alla terra di quella città doveva pur servire a qualcosa.
Fino ad ora aveva funzionato. Quindi, di nuovo, due più due fa quattro: non era
un vampiro. O, almeno, non un vampiro normale.
Non uno di quelli che avevo incontrato fino ad ora.
E di
vampiri potenti ne avevo incontrati a bizzeffe. Vampiri più vecchi di me. Da
non crederci.
Un
gorgoglio, dopodiché il nulla. E non solo a livello acustico, ma anche visivo.
L’attimo prima i suoi occhi erano lì a fissarmi, il nanosecondo dopo non
c’erano più. E non mi ero neanche accorto del movimento! Cioè, davanti ai miei
occhi… Sorprendente!
Il corpo
dell’uomo ricadde a terra, come al rallentatore. Era morto. Potevo saperlo
anche senza avvicinarmi. Sensi di vampiro.
Sospirai,
sconfitto. Avrei potuto fermarlo, invece ero arrivato troppo tardi. E rimaneva ancora
una domanda: chi era? Che cos’era?
Mi
allontanai ficcando le mani in tasca e nascondendomi tra le ombre della notte.
Dovevo trovare un posto dove rimanere per la notte. Un posto tranquillo, dove
starmene in stato catatonico per un po’. Per quanto possa sembrare strano,
anche i vampiri hanno bisogno di un attimo di riposo.
La luce
del sole era giunta nella casetta degli scivoli all’incirca intorno alle 5:53.
Mi stiracchiai – il solito gesto umano che mi piaceva mantenere – sentendo
tutte le ossa scricchiolare. Ero rimasto immobile all’incirca dalle 2:00 fino a
quell’ora, a fissare il soffitto multicolore della casetta.
Ah, che
fine che avevo fatto! Il vampiro più figo del mondo ridotto a “dormire” nella
casetta degli scivoli del parco giochi! Oh destino crudele!
Tragedia
Shakespeariana a parte, alle 6:00 ero di nuovo a vagare per le strade di Boston
del centro. I negozi erano tutti chiusi, esclusa la panetteria che sfornava
pane dall’odore delizioso. Alcune auto passavano pigramente tra le strade. Uomini
in completi costosi che andavano in ufficio chissà dove.
Avrei
dovuto cambiarmi d’abito. Non potevo andare a scuola con gli stessi indumenti
del giorno prima. Non che a me importasse più di tanto, ma gli adolescenti al
liceo tendevano a guardarmi e sicuramente, facendomi la radiografia completa,
si sarebbero accorti dello stesso jeans scuro e della stessa T-shirt. E il più
figo della scuola non può permettersi una cosa del genere, no? Ne andava della
mia reputazione. Ne andava della mia sussistenza.
Quindi… Houston, abbiamo un problema! Dovevo
trovare un negozio che aprisse prima delle lezioni… Impossibile da trovare. Ma
c’era sempre Josephine, la mia sarta di fiducia. E, diciamocelo, avrebbe fatto
qualsiasi cosa per mettermi le mani addosso. Per questo era sempre disponibile,
ventiquattro ore su ventiquattro.
Per
quanto mi dispiacesse svegliarla a quell’ora, era la mia ultima spiaggia.
« Chi è?
», rispose al telefono, con voce assonnata e un po’ arrabbiata.
« Scusami
se ti disturbo a quest’ora, Josy… », iniziai, e già da ‘Scusami’ non avevo più
sentito il suo respiro « ma ho urgente bisogno di qualcosa di nuovo da mettere.
Sono rimasto chiuso fuori casa e mentre non arriva il fabbro ci vorranno
millenni ». Sbuffai, per rendere la storia appena inventata più credibile.
« K-Kian?
», domandò sospirando e riprendendo a respirare. Non normalmente, ma se sarebbe
morta d’infarto per colpa mia mi sarei sentito in colpa.
« Sì,
sono io », risposi.
« O-Oh,
certo, tranquillo, nessun disturbo, stavo giusto… stavo giusto… tra cinque
minuti al negozio? », propose e sentii un frastuono assurdo e una sua
imprecazione appena sussurrata.
Mi
trattenni dal ridere, immaginando la scena. « Mi salvi la vita, Josy, grazie »
e riattaccai.
Era
sempre così facile avere chiunque donna.
Iniziai a
dirigermi verso il suo negozio, uno dei più prestigiosi di Boston. Vendeva
abiti a prezzi da capogiro, ma dopo mille anni se ne racimola di denaro! Per
fortuna avevo giusto la carta di credito in tasca.
Aspettai
senza fretta il suo arrivo e quando la vidi aveva i capelli sciolti lievemente
sconvolti, per nulla raccolti nella sua classica cipolla ordinata, la giacca
del completo storta e stava correndo. Le sorrisi con il mio sorriso più
abbagliante che possedessi.
«
Scusami, davvero », le chiesi scusa di nuovo.
« Ti ho
già detto di non preoccuparti, Kian. E’ sempre un piacere trovarti qualcosa da
mettere ».
Traduzione:
E’ sempre un piacere metterti le mani
addosso.
Il suo
cuore batteva veloce, un po’ per la corsa un po’ per la mia presenza. Sorrisi soddisfatto.
Mi
condusse dentro e mi fece andare direttamente nel reparto jeans. L’odore di
denim mi sconvolse, lì concentrato più che in qualsiasi altro luogo.
« Allora,
che ne pensi di questo? E’ appena arrivato », mi chiese, mostrandomi un jeans
chiaro, lievemente consumato sulle ginocchia.
« Avevo
proprio voglia di vestirmi sportivo, oggi. Stavo pensando a un paio di All Star
rosse. Credo che sotto quel jeans facciano davvero un figurone », le dissi,
pensieroso.
« Wow, mi
stupisci. Ogni volta che cercavo di proporti qualcosa del genere, be’, avevi
l’espressione di uno che sta per azzannarmi », confessò sghignazzando.
Le
sorrisi di rimando. « Procurami, per favore, una camicia a quadri rossi e una
T-shirt bianca e sarò l’adolescente più felice dell’universo! ».
Sbatté
gli occhi dalle lunghe ciglia e andò alla ricerca. Ritornò dopo un paio di
minuti con tutto l’occorrente. Presi i vestiti dalle sue mani.
« Grazie
ancora, Josy. Ah, stai molto bene con i capelli sciolti ». Un complimento e,
come previsto, il suo cuore accelerò la sua folle corsa.
Era così
facile farla felice.
Andai nel
camerino a cambiarmi.
« Cretina,
è solo un ragazzino! La vuoi smettere di desiderarlo come se fosse l’unico uomo
rimasto al mondo? Un po’ di contegno, non sei una cagna in calore e lui non è
un oggetto sessuale adatto a te! ».
Ah, Josy Josy. Stava parlando a bassissima voce,
tra se e sé, ma io la sentii come se lo stesse dicendo a me.
Sorrisi
compiaciuto.
Dovevo
ammetterlo, quel look mi donava. I miei capelli castani con quei riflessi
biondi si sposavano maledettamente bene alla camicia e a tutto il resto.
Mancava solo una cosa.
Uscii dal
camerino e il viso di Josy si illuminò all’istante.
« Allora?
», domandò sorridendo.
« Mi
piace. Devo ammetterlo, hai sempre avuto ragione. Conservami un paio di jeans e
qualsiasi altra cosa tu voglia, purché sia in questo stile ».
Si
avvicinò e mi aggiustò il colletto della camicia, già impeccabile. Doveva pur
mettermi le mani addosso, no?
Mi girò
intorno, fissandomi in ogni angolo più recondito del mio corpo e alla fine mi
tornò di fronte.
« Sei
magnifico. Hai un corpo che farebbe impallidire un fotomodello e ne sei
consapevole. Sei sicuro di non voler accettare la mia proposta? », domandò con
gli occhi che le brillavano di speranza.
No, non
mi aveva chiesto di andare a letto con lei, anche se era il suo desiderio più
prorompente. Mi aveva chiesto se volessi fare il modello per Dolce &
Gabbana. Avevo rifiutato gentilmente perché essere palpato da una donna era una
cosa, ma esserlo da un uomo… non ero omofobo, ma se potevo evitare…
« Okay,
quello sguardo mi dice tutto. Fai finta che non ti abbia detto niente ».
Le
sorrisi. « Josy, hai per caso un paio di Ray-Ban? Non so, ho la vaga
impressione che… », ma non mi lasciò concludere la frase. Sparì e ritornò nel
giro di trenta secondi con un paio di modelli. Scelsi il modello a goccia, un
classico.
« Ora sì
che sei un adolescente del XXI secolo! », si complimentò. « Quel tuo stile
classico… Non che non ci stessi bene, sei magnifico lo stesso, ma ora sembri
più… a tuo agio ».
E si
sbagliava. Lei non aveva neanche la minima idea di cosa portavo io al mio
tempo. Basta nominare le calzamaglie e quegli strani sbuffi di tulle ovunque.
Le porsi
la carta di credito per pagare e le sorrisi. « Grazie ancora, Josy. Non so che
farei senza di te, a volte ».
La sua
mano si bloccò e mezz’aria, poi prese dolcemente la carta di credito e voilà,
fine della spesa.
« Buona
lezione, Kian! », mi salutò mentre uscivo con in spalla il mio cappotto di
pelle.
L’avrei
potuta anche vedere come una madre, se solo non ci fosse sempre stata quella
tensione sessuale che caratterizzava ogni mia conversazione con un qualsiasi
essere umano di genere femminile. Era la mia maledizione, ma anche la mia
benedizione. Se le donne non fossero state attratte da me, non avrei potuto
nutrirmi. Era il cerchio della vita.
Avevo
fatto perdere più di un’ora a Josy e così erano le 7 e mezza e io mi avviai
verso il liceo.
Le strade
erano più movimentate, il traffico cresceva ad ogni secondo e con esso il nervosismo
della gente.
Il liceo
era un edificio antico e grande, un tipico liceo americano di quelli che si
vedono nei film, con spazio verde annesso, scalinate, corridoi con armadietti…
Il tutto corredato da milioni di studenti in ansia perenne. Io avevo vissuto la
maggior parte della storia di tutto il mondo, avevo visto le più importanti
scoperte, conosciuto i personaggi più famosi. Insomma, sapevo già tutto senza
bisogno di studiare nulla. Anzi, sapevo molto più dei professori, molto più di
chiunque altro. Essere una persona istruita mi era sempre piaciuto. Poter
battere i nemici con l’intelletto era la mia arma vincente, per questo non ero
mai stato bravo con la spada.
« Ehi,
guarda lì Kian, è ancora più figo vestito in questo modo! », cinguettò una
ragazza al suo gruppo di amiche. Sorrisi compiaciuto. Il nuovo look riscuoteva
già successo!
Varcai la
soglia e immediatamente sentii un miliardo di sguardi verso di me pungermi come
spilli. I ragazzi invidiosi, le ragazze adoranti. Sospiri sommessi mi accolsero,
corredati da brevi commenti e battiti accelerati di mille cuori. Sembravano
tanti uccellini che spiccavano il volo…
Un urto,
una collisione, uno scontro. La ragazza che mi era venuta addosso stava
correndo con un mucchio di libri e fogli in mano che, per l’impatto, caddero a
terra, svolazzando ovunque e disperdendosi sul pavimento.
« Dio, ma
guardi dove vai quando cammini? », mi ringhiò contro abbassandosi a raccogliere
i suoi documenti. Non mi aveva ancora guardato in viso, altrimenti si sarebbe
sicuramente scusata e mi avrebbe fatto gli occhi dolci, rimanendo imbambolata a
guardarmi.
« Ti do
una mano », dissi e mi abbassai. Lei alzò gli occhi verso di me, due occhi
verdi davvero splendidi e luminosi. Ma non rimase imbambolata a guardarmi, al
contrario. Mi lanciò uno sguardo che avrebbe potuto uccidere chiunque.
« Grazie,
davvero! Il lavoro di una notte buttato nel cesso! ».
Wow, che caratterino!
« Scusa,
ma fino a prova contraria eri tu a correre per il corridoio, non io », le feci
notare.
Raccattò
un mucchio di fogli con rabbia. « Me ne frego delle tue constatazioni da
quattro soldi ».
« Okay,
okay, scusa tanto! Posso fare qualcosa per aiutarti? ».
« Va’ al
diavolo ».
Uhm,
ottima risposta. Non avevo mai conosciuto una ragazzina con una tale rabbia
verso il prossimo, né con una tale arroganza.
Alzai le
mani in segno di resa e mi alzai, ritornando sui miei passi.