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Autore: x__Koizumi    10/11/2010    1 recensioni
Mille anni senza Amore. Ecco com’era la mia vita. Una scatola vuota, una giostra rotta, un uomo smembrato. E di uomini ne avevo smembrati parecchi.
Genere: Azione, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2.

 

 

 

La notte era difficile da trascorrere. La città era così buia e deserta – a parte i night club gremiti di gente. Non potevamo dormire come umani, quindi dovevamo trovare svariati passatempi per uccidere la noia.

Possedevamo un piccolo appartamento in un quartiere tranquillo, composto solo da un salotto, una stanza da letto – tanto per non dare nell’occhio – e una cucina – per il medesimo motivo. Passavamo pochissimo tempo lì dentro. Ci piaceva passeggiare nel buio delle strade. La notte era nostra amica e compagna. Ci nascondeva. Potevamo spassarcela alla grande senza essere visti da nessuno.

« Che ne dici di una corsa? », propose Ethan, gli occhi appena illuminati d’entusiasmo.

« Okay, marmocchio. Chi arriva per ultimo beve quel latte scaduto da un mese che abbiamo nel frigo », e iniziai a correre. Per quanto riguarda il latte scaduto… Potevamo mangiare qualsiasi cosa, ma non ci saziava. Era come mangiare aria. E, per di più, non aveva sapore – il più delle volte. Il latte scaduto, invece, aveva un sapore acido che faceva smuovere le viscere.

Ethan mi sorpassò con passo leggero e aggraziato. Sembrava appena sfiorare l’asfalto. I capelli ramati gli svolazzavano frenetici intorno e il cappotto grigio si gonfiava nel vento.

Era piccolo, ma alla faccia se era veloce! E di certo non volevo bere quel latte!

Accelerai la corsa, sentendo il vento negli occhi fastidiosamente furioso. Li chiusi. Non avevo bisogno di vedere per camminare, mi bastava l’olfatto sviluppato e l’udito.

« Ehi, attento all’albero! », mi urlò la voce di Ethan da dietro. Mi fermai di colpo per evitare di andare a sbattere contro all’ostacolo e aprii gli occhi.

Certo che ero proprio idiota. In città mi preoccupo degli alberi?

Ovviamente Ethan aveva avuto tutto il tempo di superarmi e di prendersi un certo vantaggio.

« Davvero astuto da parte tua, moccioso! », gli urlai dietro ricominciando a correre quanto più veloce possibile. La sua risata fu come una brezza fresca sul viso.

Non potevo avere il fiatone, per fortuna, altrimenti mi sarei ritrovato morto al suolo a furia di correre a quella velocità e a quella costanza. Lo raggiunsi. Gli ero esattamente dietro alle spalle. Ethan si girò a guardarmi e accelerò ancora. Ero sicuro che un proiettile fosse più lento di lui quando correva.

Ormai avevo perso. Il nostro appartamento era vicinissimo e Ethan era avanti a me. Toccò il portone e segnò la sua vittoria.

« Mi dispiace, mio caro, ma questa volta tocca a te » e mi allegò anche una bella linguaccia.

Lo guardai in malo modo. Salii lentamente le scale – l’ascensore non era esattamente il mio mezzo di trasporto preferito – e aprii la porta con le chiavi.

« Mi hai imbrogliato », lo incolpai gettando il giubbotto di pelle sul divano nero di velluto.

« In guerra e in amore tutto è lecito », recitò solennemente.

Scossi il capo e mi diressi direttamente in cucina. Mi seguì come un’ombra, in attesa del suo trofeo.

Aprii il frigo con riluttanza e scelsi la bottiglia di latte scaduta da più tempo. Svuotarla semplicemente nel lavandino no? No. Svitai il tappo e accostai la plastica fredda alle labbra, per poi inghiottire a grandi sorsi il contenuto freddo e acido. Sentivo le ondate di latte corrodermi l’esofago, bruciarlo e arrivare nello stomaco dove ormai i succhi gastrici si erano estinti da troppo tempo. Il bruciore si espanse e divenne insopportabile, ma continuai a bere fino a svuotare la bottiglia. Masochista io?

Buttai la bottiglia nel secchio della spazzatura. Lo stomaco ruggì violentemente e sentii il contenuto lattiginoso risalire all’esofago.

Corsi in bagno senza perdere tempo e vomitai tutto il litro di latte appena ingurgitato. Bello schifo. Tanto il dolore del processo che mi lacrimarono gli occhi. Lacrime rosse, sanguinolente, che macchiarono il liquido biancastro appena rigettato.

« Bello schifo », commentai scaricando.

« Ti è sempre piaciuto mantenere un po’ di umanità. Be’, più umano di così ».

Lo guardai ripulendomi il viso dalle lacrime con la carta igienica e gettandola nel water.

« Ricordami di non scommettere mai più il latte ».

Lo sorpassai mentre lui sghignazzava. Il divano fu molto propenso ad accogliermi. Accesi il televisore al plasma sulla BBC.

« Perché ti interessa tanto sapere cosa accade nel mondo? », mi domandò Ethan, accomodandosi al mio fianco. « Le notizie sono sempre le stesse, morti su morti. Che sfizio c’è? ».

Il suo ragionamento non faceva una piega, ma era proprio quello il punto. Non eravamo certo gli unici della nostra specie sulla Terra. Più crimini di quanto si potesse immaginare erano commessi da vampiri. Cosa potevo farne io? Nulla, ma vedere quei corpi mutilati mi ricordava quanto fossi pericoloso e quanto fosse necessario tutto quello che facevo ogni giorno.

Il senso di colpa può essere la cosa più distruttiva che esista.

Mi accoccolai meglio sul divano, togliendo le scarpe e quasi sdraiandomi completamente. Era così grande da farci entrare me sdraiato e Ethan seduto.

Sospirò pesantemente. « Kian, quando imparerai a sfogarti? Tenerti tutto dentro non aiuta ».

Lo sapevo bene, ma che potevo farci? « Non ho niente da dire ».

« Sì, certo », alzò gli occhi al cielo.

« Notizia dell’ultimo minuto. Una donna di trentacinque anni è stata ritrovata con la gola squarciata in un quartiere periferico di Boston. La scientifica ha dichiarato che la ferita mortale non è stata inferta da un’arma da taglio, bensì sembrerebbe essere causata da un morso. I denti hanno lacerato la carne. Può un umano provocare un tale danno? Parola alla nostra inviata ». La voce del presentatore si interruppe per dare la linea all’inviata sul posto.

« Vampiro », sussurrammo io e Ethan all’unisono. Io con noncuranza e noia, lui quasi sconvolto. Poi mi fissò, girandosi verso di me con lentezza esasperante.

« E’ stato ritrovato pochi minuti fa il cadavere di Melissa Kirkly, trentasei anni. La causa della morte risulterebbe essere un taglio profondo alla gola, non inferno da nessun tipo di arma da taglio, come ha dimostrato l’esperto. Vi è un morso su un lato del collo, da cui sembrerebbe partire il taglio. Ma come possono denti umani squarciare la carne in questo modo? Le impronte dei denti presenti sul collo risultano essere puramente umane. Un nuovo serial killer con denti d’acciaio? Per ora è tutto, linea allo studio ».

Denti d’acciaio? Mi venne quasi da ridere, ma l’espressione sul volto di Ethan era fin troppo seria. E scrutava me.

Lo guardai a mia volta, aspettando che dicesse qualcosa, perché aveva proprio l’aria di volermi dire qualcosa. Poi capii, senza che dicesse nulla. Semplicemente perché guardò sulla mia testa, solo per un secondo, che però mi bastò per capire.

« Tu… ». Sentivo la mia voce piena d’accusa. « Tu pensi davvero che io possa…? ».

Il suo sguardo non lasciava spazio a dubbi. Lui pensava davvero che avessi potuto uccidere io quella donna, dopo tanti anni che non uccidevo più. Fu una pugnalata al cuore, che scendeva sempre più giù, fino allo stomaco e mi mischiava le budella.

« Kian », mi chiamò, con la voce colma di scuse nascoste. Come poteva dubitare di me? Come?

« No, no. Non sono stato io, che tu mi creda o no », dissi impassibile, di nuovo sulla difensiva.

Mi alzai dal divano, desideroso di allontanarmi da lui il prima possibile. Mi credeva un mostro. Mi credeva quello che cercavo di non essere più. Però, infondo, sapevo di essere un mostro. Fino a quando lo sapevo io era okay, ma quando lo credevano gli altri, peraltro senza fondamento, mi sentivo ferito. Nell’orgoglio, nell’anima che forse non possedevo più, nel fisico. Ovunque.

« Kian, ti prego, non fraintendermi… ».

« E come potrei? Sei stato chiarissimo, Ethan ». Detto ciò, uscii di casa con le scarpe e il giubbotto di pelle in mano. Speravo di aver tracciato un confine con quel gesto umano, ma che non avrebbe di certo fermato un vampiro. Non potevo fuggire da Ethan, mi avrebbe ritrovato comunque. Speravo che recepisse il messaggio.

Infilate le scarpe e indossato il giubbotto, uscii da quel palazzo, a quell’ora di notte desolato, nessun rumore percepibile – a parte il televisore acceso in casa nostra, ovviamente.

Non sapevo dove andare, avevo solo bisogno di stare da solo a pensare. Ancora.

Avevo visto un sacco di uccisioni provocate da vampiri, con il solito metodo: squarcio della gola. Serviva solo per eliminare le prove, quei due fori tanto graziosi e innocui. Ma tutti i vampiri badavano bene a non lasciare alcuna impronta di denti nel farlo. Di solito usavano davvero un pugnale per eludere le tracce. Perché questo vampiro era stato tanto stupido da lasciare impronte dentarie? E come mai non avevo percepito la sua presenza in città?

Vagai per più di mezz’ora per le strade deserte della città, senza pensare a nulla. Già, oltre a pensare eccessivamente potevo anche sgombrare la mente da qualunque pensiero. Una gran dote, a dirla tutta.

Sarei voluto ritornare a casa e perdonare Ethan, ma non potevo. Avevo l’orgoglio troppo ferito, come poteva accusarmi dopo tantissimi anni che mi conosceva? Sapeva che non uccidevo mai spontaneamente. L’avrei ammesso, se avessi ucciso io quella donna. Una in più, una in meno, ormai per me non faceva più la minima differenza. O meglio, forse sì, ma non così tanto da perdere Ethan per una vita umana. Era l’unica cosa che avevo. L’unica cosa che mi rimaneva. L’unica cosa che mi tratteneva dal lasciarmi sopraffare dalla follia.

Un suono improvviso irruppe nel silenzio notturno. Era un suono strano, che avevo già udito in precedenza. Che avevo udito per troppo tempo.

Corsi verso quel suono come una saetta e mi misi dietro un bidone dei rifiuti per capisci qualcosa.

C’era un’ombra nera, scura, che non riuscivo a distinguere benché al buio vedessi benissimo. Poi c’era un uomo, in ginocchio, che aveva perso i sensi. Lo percepivo dal rumore del suo sangue che velocemente correva a concentrarsi nella carotide…

L’ombra si accorse della mia presenza. Aveva forma umana, perché vidi chiaramente la sua testa – o quello che pensavo fosse la testa – girarsi verso la mia direzione e a quel punto due occhi rosso fuoco mi fissarono a lungo. Non avevo mai visto occhi così rossi, così luccicanti di sangue. Per un attimo sentii un brivido di paura scivolarmi lungo la schiena, ma poi ricordai che io non potevo aver paura, io ero un vampiro, e scusatemi se è poco!

I suoi occhi continuavano a fissarmi, senza espressione, semplicemente rossi, luccicanti. Non riuscivo a capire cosa era. Non riuscivo a capacitarmi di non distinguerne la forma. Era come tutt’uno con il buio. Faceva davvero impressione. Conoscevo vampiri capaci di dissolversi nella notte, ma non ne avevo mai visto uno capace di confondersi con essa mantenendo le sue sembianze. In realtà non sapevo nemmeno se fosse un vampiro, ma siccome stava bevendo il sangue di quel povero disgraziato… Insomma, quante creature mitologiche bevono il sangue degli umani? Due più due fa quattro, gente!

Eppure, non poteva essere un vampiro. Perché? Perché Boston era il mio territorio, ormai, e io percepivo quando un vampiro si trovava nel mio territorio. Il rito del sangue conciliato alla terra di quella città doveva pur servire a qualcosa. Fino ad ora aveva funzionato. Quindi, di nuovo, due più due fa quattro: non era un vampiro. O, almeno, non un vampiro normale. Non uno di quelli che avevo incontrato fino ad ora.

E di vampiri potenti ne avevo incontrati a bizzeffe. Vampiri più vecchi di me. Da non crederci.

Un gorgoglio, dopodiché il nulla. E non solo a livello acustico, ma anche visivo. L’attimo prima i suoi occhi erano lì a fissarmi, il nanosecondo dopo non c’erano più. E non mi ero neanche accorto del movimento! Cioè, davanti ai miei occhi… Sorprendente!

Il corpo dell’uomo ricadde a terra, come al rallentatore. Era morto. Potevo saperlo anche senza avvicinarmi. Sensi di vampiro.

Sospirai, sconfitto. Avrei potuto fermarlo, invece ero arrivato troppo tardi. E rimaneva ancora una domanda: chi era? Che cos’era?

Mi allontanai ficcando le mani in tasca e nascondendomi tra le ombre della notte. Dovevo trovare un posto dove rimanere per la notte. Un posto tranquillo, dove starmene in stato catatonico per un po’. Per quanto possa sembrare strano, anche i vampiri hanno bisogno di un attimo di riposo.

 

La luce del sole era giunta nella casetta degli scivoli all’incirca intorno alle 5:53. Mi stiracchiai – il solito gesto umano che mi piaceva mantenere – sentendo tutte le ossa scricchiolare. Ero rimasto immobile all’incirca dalle 2:00 fino a quell’ora, a fissare il soffitto multicolore della casetta.

Ah, che fine che avevo fatto! Il vampiro più figo del mondo ridotto a “dormire” nella casetta degli scivoli del parco giochi! Oh destino crudele!

Tragedia Shakespeariana a parte, alle 6:00 ero di nuovo a vagare per le strade di Boston del centro. I negozi erano tutti chiusi, esclusa la panetteria che sfornava pane dall’odore delizioso. Alcune auto passavano pigramente tra le strade. Uomini in completi costosi che andavano in ufficio chissà dove.

Avrei dovuto cambiarmi d’abito. Non potevo andare a scuola con gli stessi indumenti del giorno prima. Non che a me importasse più di tanto, ma gli adolescenti al liceo tendevano a guardarmi e sicuramente, facendomi la radiografia completa, si sarebbero accorti dello stesso jeans scuro e della stessa T-shirt. E il più figo della scuola non può permettersi una cosa del genere, no? Ne andava della mia reputazione. Ne andava della mia sussistenza.

Quindi… Houston, abbiamo un problema! Dovevo trovare un negozio che aprisse prima delle lezioni… Impossibile da trovare. Ma c’era sempre Josephine, la mia sarta di fiducia. E, diciamocelo, avrebbe fatto qualsiasi cosa per mettermi le mani addosso. Per questo era sempre disponibile, ventiquattro ore su ventiquattro.

Per quanto mi dispiacesse svegliarla a quell’ora, era la mia ultima spiaggia.

« Chi è? », rispose al telefono, con voce assonnata e un po’ arrabbiata.

« Scusami se ti disturbo a quest’ora, Josy… », iniziai, e già da ‘Scusami’ non avevo più sentito il suo respiro « ma ho urgente bisogno di qualcosa di nuovo da mettere. Sono rimasto chiuso fuori casa e mentre non arriva il fabbro ci vorranno millenni ». Sbuffai, per rendere la storia appena inventata più credibile.

« K-Kian? », domandò sospirando e riprendendo a respirare. Non normalmente, ma se sarebbe morta d’infarto per colpa mia mi sarei sentito in colpa.

« Sì, sono io », risposi.

« O-Oh, certo, tranquillo, nessun disturbo, stavo giusto… stavo giusto… tra cinque minuti al negozio? », propose e sentii un frastuono assurdo e una sua imprecazione appena sussurrata.

Mi trattenni dal ridere, immaginando la scena. « Mi salvi la vita, Josy, grazie » e riattaccai.

Era sempre così facile avere chiunque donna.

Iniziai a dirigermi verso il suo negozio, uno dei più prestigiosi di Boston. Vendeva abiti a prezzi da capogiro, ma dopo mille anni se ne racimola di denaro! Per fortuna avevo giusto la carta di credito in tasca.

Aspettai senza fretta il suo arrivo e quando la vidi aveva i capelli sciolti lievemente sconvolti, per nulla raccolti nella sua classica cipolla ordinata, la giacca del completo storta e stava correndo. Le sorrisi con il mio sorriso più abbagliante che possedessi.

« Scusami, davvero », le chiesi scusa di nuovo.

« Ti ho già detto di non preoccuparti, Kian. E’ sempre un piacere trovarti qualcosa da mettere ».

Traduzione: E’ sempre un piacere metterti le mani addosso.

Il suo cuore batteva veloce, un po’ per la corsa un po’ per la mia presenza. Sorrisi soddisfatto.

Mi condusse dentro e mi fece andare direttamente nel reparto jeans. L’odore di denim mi sconvolse, lì concentrato più che in qualsiasi altro luogo.

« Allora, che ne pensi di questo? E’ appena arrivato », mi chiese, mostrandomi un jeans chiaro, lievemente consumato sulle ginocchia.

« Avevo proprio voglia di vestirmi sportivo, oggi. Stavo pensando a un paio di All Star rosse. Credo che sotto quel jeans facciano davvero un figurone », le dissi, pensieroso.

« Wow, mi stupisci. Ogni volta che cercavo di proporti qualcosa del genere, be’, avevi l’espressione di uno che sta per azzannarmi », confessò sghignazzando.

Le sorrisi di rimando. « Procurami, per favore, una camicia a quadri rossi e una T-shirt bianca e sarò l’adolescente più felice dell’universo! ».

Sbatté gli occhi dalle lunghe ciglia e andò alla ricerca. Ritornò dopo un paio di minuti con tutto l’occorrente. Presi i vestiti dalle sue mani.

« Grazie ancora, Josy. Ah, stai molto bene con i capelli sciolti ». Un complimento e, come previsto, il suo cuore accelerò la sua folle corsa.

Era così facile farla felice.

Andai nel camerino a cambiarmi.

« Cretina, è solo un ragazzino! La vuoi smettere di desiderarlo come se fosse l’unico uomo rimasto al mondo? Un po’ di contegno, non sei una cagna in calore e lui non è un oggetto sessuale adatto a te! ».

Ah, Josy Josy. Stava parlando a bassissima voce, tra se e sé, ma io la sentii come se lo stesse dicendo a me.

Sorrisi compiaciuto.

Dovevo ammetterlo, quel look mi donava. I miei capelli castani con quei riflessi biondi si sposavano maledettamente bene alla camicia e a tutto il resto. Mancava solo una cosa.

Uscii dal camerino e il viso di Josy si illuminò all’istante.

« Allora? », domandò sorridendo.

« Mi piace. Devo ammetterlo, hai sempre avuto ragione. Conservami un paio di jeans e qualsiasi altra cosa tu voglia, purché sia in questo stile ».

Si avvicinò e mi aggiustò il colletto della camicia, già impeccabile. Doveva pur mettermi le mani addosso, no?

Mi girò intorno, fissandomi in ogni angolo più recondito del mio corpo e alla fine mi tornò di fronte.

« Sei magnifico. Hai un corpo che farebbe impallidire un fotomodello e ne sei consapevole. Sei sicuro di non voler accettare la mia proposta? », domandò con gli occhi che le brillavano di speranza.

No, non mi aveva chiesto di andare a letto con lei, anche se era il suo desiderio più prorompente. Mi aveva chiesto se volessi fare il modello per Dolce & Gabbana. Avevo rifiutato gentilmente perché essere palpato da una donna era una cosa, ma esserlo da un uomo… non ero omofobo, ma se potevo evitare…

« Okay, quello sguardo mi dice tutto. Fai finta che non ti abbia detto niente ».

Le sorrisi. « Josy, hai per caso un paio di Ray-Ban? Non so, ho la vaga impressione che… », ma non mi lasciò concludere la frase. Sparì e ritornò nel giro di trenta secondi con un paio di modelli. Scelsi il modello a goccia, un classico.

« Ora sì che sei un adolescente del XXI secolo! », si complimentò. « Quel tuo stile classico… Non che non ci stessi bene, sei magnifico lo stesso, ma ora sembri più… a tuo agio ».

E si sbagliava. Lei non aveva neanche la minima idea di cosa portavo io al mio tempo. Basta nominare le calzamaglie e quegli strani sbuffi di tulle ovunque.

Le porsi la carta di credito per pagare e le sorrisi. « Grazie ancora, Josy. Non so che farei senza di te, a volte ».

La sua mano si bloccò e mezz’aria, poi prese dolcemente la carta di credito e voilà, fine della spesa.

« Buona lezione, Kian! », mi salutò mentre uscivo con in spalla il mio cappotto di pelle.

L’avrei potuta anche vedere come una madre, se solo non ci fosse sempre stata quella tensione sessuale che caratterizzava ogni mia conversazione con un qualsiasi essere umano di genere femminile. Era la mia maledizione, ma anche la mia benedizione. Se le donne non fossero state attratte da me, non avrei potuto nutrirmi. Era il cerchio della vita.

Avevo fatto perdere più di un’ora a Josy e così erano le 7 e mezza e io mi avviai verso il liceo.

Le strade erano più movimentate, il traffico cresceva ad ogni secondo e con esso il nervosismo della gente.

Il liceo era un edificio antico e grande, un tipico liceo americano di quelli che si vedono nei film, con spazio verde annesso, scalinate, corridoi con armadietti… Il tutto corredato da milioni di studenti in ansia perenne. Io avevo vissuto la maggior parte della storia di tutto il mondo, avevo visto le più importanti scoperte, conosciuto i personaggi più famosi. Insomma, sapevo già tutto senza bisogno di studiare nulla. Anzi, sapevo molto più dei professori, molto più di chiunque altro. Essere una persona istruita mi era sempre piaciuto. Poter battere i nemici con l’intelletto era la mia arma vincente, per questo non ero mai stato bravo con la spada.

« Ehi, guarda lì Kian, è ancora più figo vestito in questo modo! », cinguettò una ragazza al suo gruppo di amiche. Sorrisi compiaciuto. Il nuovo look riscuoteva già successo!

Varcai la soglia e immediatamente sentii un miliardo di sguardi verso di me pungermi come spilli. I ragazzi invidiosi, le ragazze adoranti. Sospiri sommessi mi accolsero, corredati da brevi commenti e battiti accelerati di mille cuori. Sembravano tanti uccellini che spiccavano il volo…

Un urto, una collisione, uno scontro. La ragazza che mi era venuta addosso stava correndo con un mucchio di libri e fogli in mano che, per l’impatto, caddero a terra, svolazzando ovunque e disperdendosi sul pavimento.

« Dio, ma guardi dove vai quando cammini? », mi ringhiò contro abbassandosi a raccogliere i suoi documenti. Non mi aveva ancora guardato in viso, altrimenti si sarebbe sicuramente scusata e mi avrebbe fatto gli occhi dolci, rimanendo imbambolata a guardarmi.

« Ti do una mano », dissi e mi abbassai. Lei alzò gli occhi verso di me, due occhi verdi davvero splendidi e luminosi. Ma non rimase imbambolata a guardarmi, al contrario. Mi lanciò uno sguardo che avrebbe potuto uccidere chiunque.

« Grazie, davvero! Il lavoro di una notte buttato nel cesso! ».

Wow, che caratterino!

« Scusa, ma fino a prova contraria eri tu a correre per il corridoio, non io », le feci notare.

Raccattò un mucchio di fogli con rabbia. « Me ne frego delle tue constatazioni da quattro soldi ».

« Okay, okay, scusa tanto! Posso fare qualcosa per aiutarti? ».

« Va’ al diavolo ».

Uhm, ottima risposta. Non avevo mai conosciuto una ragazzina con una tale rabbia verso il prossimo, né con una tale arroganza.

Alzai le mani in segno di resa e mi alzai, ritornando sui miei passi.

 

  
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