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Autore: Subutai Khan    27/12/2003    1 recensioni
Come un uomo riesce a cambiare la propria vita senza rendersene minimamente conto, e come può fare per cercare di riportare alcune delle più potenti forze del cosmo nei giusti binari.
Genere: Avventura, Sovrannaturale, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Che vita di merda.
Me ne sto spaparanzato nel mio ufficio tre metri per tre, con le gambe sul tavolo ed un bicchiere di caffè fumante. Appicicatemi sulla fronte un Post-It con su scritto “Dick Tracy senza la fighezza” ed avrete un’idea della situazione.
Faccio l’investigatore privato di mezza tacca. O meglio, mi diletto. Sono mesi che non vedo l’ombra di un cliente e che tiro avanti la baracca a suon di prestiti semi-estorti a parenti ed amici.
La polizia mi sopporta a malapena e tende ad evitarmi il più possibile o a non considerarmi attendibile. Ormai mi sono fatto fama di essere uno spione senza precedenti nel campo. Se non fosse per il vecchio Dummkopf, al secolo il capitano Marius Rahn, avrei già chiuso da tempo con gli sbirri. Insomma, va tutto da schifo.
Karl Mantzer è un fallito del cazzo.
Bah, non c’è nulla che possa fare per risollevarmi. Neanche affogare nell’alcool, dato che sono completamente astemio ed il solo odore della birra mi da alla nausea.
Ebbene sì, così come esistono italiani non mafiosi, francesi non cuochi ed inglesi non stronzi esistono tedeschi che non bevono. Questo non vuol dire che i loro più rozzi simili non li trattino come una casta inferiore.
Soprattutto nel periodo dell’Oktoberfest è una tragedia. Vedo partire da qui, Amburgo, carovane apparentemente infinite di autobus pieni di gente diretta a Monaco per navigare con le zattere in mezzo a fiumi di doppio malto e rossa, poter assaggiare il mare su cui galleggiano e commentarne la qualità con il vicino.
Tutti i miei amici ci vanno: Hans, Fritz, Daniel, tutti. Rimango solo come il coglione che riconosco di essere e passo le serate nel mio modesto appartamento a sentire sino allo sfinimento gli Aerosmith. Per chi tocca la mia sacra copia di Get a Grip riservo il taglio delle mani.
Sorseggio sconsolato la mia fumante bevanda. Cazzo sto qui a fare? Tanto sarà una giornata inutile come tutte le altre. Nessun sprovveduto verrà qui cercando il mio aiuto per inchiodare la fidanzata che lo cornifica, o per dimostrare che non è stato incastrato dal malavitoso di turno.
Non succederà nulla, ne sono sicuro.
Quindi tanto vale che me ne torni a casa a dormire, quantomeno farò qualcosa che mi piace.
E quindi, non appena svuoto in un sol colpo il bicchiere di plastica, mi alzo a prendere alcune carte dallo schedario. Appena sistemo questo ciarpame mi fiondo sotto le coperte.
Macché, chiedo troppo.
Ecco il primo cliente dopo secoli. Usualmente lo considererei un miracolo, ma oggi è solo una scocciatura. Non ho nessunissima voglia di lavorare e nessunissima voglia di stare a sentire le grane di ‘sto tizio.
Se ne entra trafelato, senza bussare. Si siede di fronte a me, sudato come un maiale. Sembra sconvolto. Si guarda intorno, come se fosse spaventato da qualcosa che io non riesco a vedere.
Ci manca anche che sia pazzo.
“M-Mi devi ai-aiutare. Ho bis-sogno d’aiuto”.
Ok, è pazzo. Ma che giornata di merda.
“Si calmi e mi dica che problema ha”. Come se me ne fottesse qualcosa.
Prende un respirone profondo, anche se ansima come se avesse appena corso i diecimila metri.
“D-Devo trov-vare una per-rsona”.
Oh bene, un incarico da segugio fiutatore. Proprio il tipo peggiore.
“E sentiamo, chi dovrei trovare? Sua moglie che è scappata con l’idraulico? Il suo cane? Il suo ex-socio che si è fregato il patrimonio della società?”. Il tono scazzato mostra pienamente il mio interesse a questo caso. Quando mi ci metto so essere davvero irritante.
“N-No. Devi trovare una ragazza, si chiama Sophie”.
Wow, con questa descrizione gliene porto milioni di tipe.
“Magari qualche particolare in più. Alta, bassa, mora, bionda, brutta, bella, con le lentiggini, una cicatrice in faccia, una benda da pirata sull’occhio, la gamba di legno…”.
Prende a tremare ancora di più.
“Non so altro su di lei. Devo trovarla, devo, devo. Aiutami, sono disperato”.
Ma che palle. Se la mette sul patetico dovrò cedere, sono un tenerone in fondo e non me la sentirei di lasciare uno schizzato del genere libero di camminare per la strada senza nessuno che lo controlli.
“Ok, ok, ora si quieti un attimo. Le darò una mano. Prima, però, mi dovrebbe dire il suo nome”.
Appena finisco di pronunciare la parola “nome” vedo come una luce d’orgoglio accendersi negli suoi occhi.
E sotto il mio allibito sguardo il tipo comincia a perdere l’aria di uno fuggito da un manicomio. Si ricompone, si riallaccia la camicia che era tutta slargata, recupera il fiato. Ritorna nel novero delle persone civili, per farla breve.
“Mi chiamo Alexander Felix”.
Ah, tutto qua?
“Ed il cognome?”.
“Non ho cognome”.
Che assurdità è mai questa? Chi non ha cognome?
Ciò che realmente mi inquieta di costui è il suo essere diventato improvvisamente altero, come se richiudesse nel proprio nome tutta la sua dignità di essere uomo. Appena pronunciatolo ha assunto l’altezzosa posa da esponente della casata che dura da venti generazioni. Di quella nobiltà vecchio stampo ottocentesca.
Eppure dice di non avere cognome, mentre i membri di famiglie dal sangue blu hanno di solito un papiro per cognome. È un controsenso mostruoso.
“Va bene Alexander, accetto. Per quanto riguarda il pagamento…”.
Con pochissimo tatto mi interrompe, la sua voce ora sicura e quasi autoritaria: “Non preoccuparti di quello, i soldi non sono un problema. Ti pagherò ad ore. Mille Euro all’ora”.
Mi casca la mascella sino a terra. Mille Euro? Dev’essere il fratello segreto del sultano del Brunei, è l’unica spiegazione plausibile. Mai avevo sentito una cifra così alta. Il mio tariffario prevede cinquanta Euro al giorno più le spese, nei casi più complessi arrivo al massimo a cento. Ma mai mille. All’ora.
“Ti bastano? Se vuoi posso arrivare a duemila”.
“No no, sono più che sufficienti” tentenno con insicurezza. Qua ci sarebbe l’affare del secolo, ma per un qualche motivo etico non ben chiaro non me la sento di approfittarne, sarebbe come razziare le uova d’oro della gallina.
L’ho detto che sono buono in fondo.
“Molto bene” dice soddisfatto “allora puoi metterti al lavoro”.
Ehi, ehi, con calma. Ok che ho accettato, ma rimane che non ho un cazzo di voglia di sgobbare stamattina.
“Ehm, veramente non sto granché bene. Se non le dispiace vorrei andare a casa a riposare. Se vuole” e frugo un po’ nella tasca della giacca, dalla quale esce il portafogli che a sua volta sputa fuori il mio biglietto da vista “può venire domani a casa mia, così mi potrà raccontare meglio com’è fatta questa Sophie e quand’è stata l’ultima volta che l’ha vista”.
Lui rimane un po’ interdetto, poi fa spallucce e prende il biglietto. Lo mette via, si alza, fa per andarsene quando poi si ferma.
“Fammi un piacere Karl: dammi del tu. Odio i formalismi”.
Mai avuto un cliente così diretto. Di solito sono tutti sorrisini, buone maniere ed unto servilismo perché “è lei quello che conosce il mestiere”. Ammetterò che comincia a piacermi.
“Va bene Alexander, hai vinto. Dove alloggi?”.
Non trattiene una risatina di genuino divertimento: “È così evidente che non sono tedesco?”.
Ridendo leggermente a mia volta rispondo: “Sì, hai un pesante accento anglofono”.
“È vero. Sto al Graft Moltke, in Steinstrasse”.
“Conosco. In pieno centro”.
“Esatto. Beh, allora vado”.
“Aspetta, aspetta”. In uno scatto d’estro gli “inquadro” il volto mettendo le dita come a formare l’obiettivo di una macchina fotografica e lo osservo, dato che prima non ne ho avuto il tempo e/o la voglia: è discretamente alto, ha i capelli castani chiari, un po’ stempiato. Il viso è piuttosto rotondo e, benché non dimostri più di trenta-trentadue anni, ci sono un paio di strane cicatrici, come se fossero lievi ferite da arma da taglio. Soprattutto una che gli attraversa il naso in larghezza.
Poi mi accorgo solo adesso che mi ha offerto la mano e gliela stringo.
Benché mi abbia preso in un momento completamente sballato è riuscito a convincermi, e non è una cosa semplice. Ci sarà un motivo se sono considerato un cocciuto totale da chiunque possa dire di conoscermi.
Mentre si allontana mi fermo a pensare un attimo: io l’ho già visto, il nostro buon mr. Non-Ho-Cognome. Ha una faccia nota.
E con quel “l’ho già visto” non intendo dire che l’ho adocchiato per sbaglio al pub e mi è rimasto impresso. No, no. Intendo dire che ho visto la sua foto su qualche giornale, od in tv. Ne sono più che sicuro.
Prima di andare a casa farò bene a passare per un Internet point e consultare l’archivio online della Suddeutsche Zeitung.
   
 
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