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Autore: psychoKath    08/12/2010    0 recensioni
La vita può cambiarti in un secondo. Una scelta sbagliata, una decisione non giusta e tutto si può stravolgere. Ogni certezza che avevi in un attimo sparisce. Svanisce tutto in quella piccola frazione di secondo che ti lascia senza fiato. Come quando da piccoli si giocava a chi riusciva a stare più sott’acqua in apnea, che cercavi a più non posso di vincere e ti portavi allo stremo. I polmoni si inaridivano e il cuore batteva all’impazzata. L’ossigeno arrivava molto lentamente al cervello e ti faceva contorcere. Poi tornavi a galla e avevi la vittoria in mano, ma stavolta no. Non è una sfida, non è un giochetto.
Questa pallottola non mi cambia la vita, la distrugge.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La stanza dove mi trovavo era buia, buia e nera come la pece. Nessuna luce, nessuna figura. Solo un immenso ed eterno nero che mi circondava. Gelide ventate mi smorzavano la carne e bollenti vampate mi corrodevano le ossa.
Oscurità e dolore?! È questa la morte?, meditai un po’ irata.
 
Solamente più tardi, mi accorsi di poter aprire gli occhi che ancora erano rimasti chiusi.
Era solo un brutto sogno, pensai.
Aprendo le palpebre notai che la fosca luce non mi permetteva di vedere nulla di diverso dal sogno. Dovetti aspettare qualche minuto prima che l’occhio se ne abituasse.
Ero caduta in una specie di grotta. Una caverna fresca e calda allo stesso tempo. Tenebrosa e misteriosa come la notte senza luna. Allora mi domandai se questo fosse l’inferno.
Di certo non merito altro. Nella mia vita ho ben amato peccare e non me ne rammarico, sentenziai.
Vidi uno spiraglio di luce tenue e grigiastra, con sfumature rossastre in lontananza. Cercai di avvicinarmi a quella fessura, per capire dove diamine ero stata catapultata.
Mi alzai cautamente, evitando di tirare qualche testata ad un probabile soffitto basso, tipico delle grotte. Appena accostai la mano alla spaccatura dove ne usciva la luce, essa si sgretolò aprendomi un varco per uscire dall’antro. Ciò che trovai dall’altra parte fu estasiante.
 
Non ti domandi mai che aspetto hanno le porte dell’inferno, per vari motivi. Innanzitutto speri con tutta l’anima di finire in un posto migliore, ma quello non era il mio caso. Seconda opzione, pensi a come sarà viverci o quali torture subirai.
Eppure mi trovavo davanti a questa immensa porta di ferro e legno, con intagli tribali e pipistrelli svolazzanti. Nessun cane con tre teste, nessun essere spaventoso. Solamente pipistrelli e questo colossale, magnifico esemplare di grandezza e potere.
Spinsi le porta e con un inquietante cigolio si aprirono, portandomi a colui che mi attendeva.
 
Occhi azzurri come il ghiaccio e capelli neri tendenti al grigio scuro. Quest’uomo troneggiava davanti a me con aria superba ed eleganza. Quei gelidi occhi mi fissarono, indagando fin dentro l’anima.
Aveva in mano come un foglio e una penna, ma.. di corvo. Sì, pareva un pennuto nero.
“Lexie Ryan, la prego di non fare domande e seguirmi nel giro per l’assegnazione del girone dell’inferno. Io sono John Keats, a sua completa disposizione.” Mi riferì l’uomo dalla voce incredibilmente sensuale e arcaica.
Stralunai gli occhi e la gola mi si seccò. Le parole mi si fermarono sulla lingua e il cuore iniziò a palpitare. Le mani sudavano e gli occhi mi divennero lucidi.
“Lei… è quel… John Keats?” balbettai.
“Se intendi dire il poeta fannullone, buono a nulla che ha lasciato il suo grande ed unico amore per una piccola e vana speranza di vita.. sì. Sono io.” Mi affermò con aria triste.
Quasi mi cedettero le gambe dallo stupore. Non potevo essere in un brutto posto se al mio fianco avevo John Keats. John Keats, per la miseria!
L’inferno cominciò a girare, ma grazie alle meravigliose mani del signor Keats non caddì.
“Lei, se mi permette, è in assoluto il mio poeta preferito. Quando leggo i suoi brani una scarica elettrica mi trapassa la spina dorsale, ogni suo verso mi provoca la pelle d’oca. Ogni strofa è musica per il mio cuore. E se questa è la morte, è ben accetta se in cambio ho potuto conoscere l’uomo che ha scritto tanta bellezza.”
E poi, con immensa gioia recitai il mio sonetto preferito.

 

My love has made me selfish.
I cannot exist without you
I am forgetful of every thing but seeing you again
my Life seems to stop there
I see no further.
You have absorb'd me.
I have a sensation at the present moment as though I was dissolving
I should be exquisitely miserable without the hope of soon seeing you.
I should be afraid to separate myself far from you.
You have ravish'd me away by a Power I cannot resist:
and yet I could resist till I saw you;
and even since I have seen you
I have endeavoured often
"to reason against the reasons of my Love."  I
can do that no more
the pain would be too great.
My Love is selfish,
I cannot breathe without you.

 
I suoi occhi brillarono assieme ai miei. Forse all’inferno non sapeva di quello che era diventato, di certo era una notizia a dir poco stupefacente.
“Signorina, le sue labbra hanno procurato in me miliardi di coriandoli di gioia. Le sue parole mi riempono l’anima di quella bellezza che solo la mia amata Fanny sapeva estorcermi dalle più interne viscere del mio io. Sentirla recitare con cotanto amore un mio brano, per me è beatitudine allo stato puro.
Sono il guardiano del Portale e ora devo porle alcune domande. La prego mi segua in questo cammino.” Dichiarò.
La morte non mi fa per nulla schifo, pensai,è uno sballo micidiale poter conoscere colui che ho sempre ammirato.. John Keats, cavolo!
Mr. Keats prese a scrivere con la sua penna su quella pergamena che pareva antica.
 
“Lexie Ryan, mi è stato dato il compito di accompagnarla in questo viaggio. Mi risponda concisamente, prego. Ha mai ucciso?”
Lo guardai dubbiosa, incerta se porre un’altra domanda come risposta.
“Gli animali contano?” risposi titubante.
Mi raggelò con lo sguardo e segnò su una casella.
Percorrendo questa immensa scala oscura, una porta coperta di sangue si aprì innanzi a noi.
Una schiera di persone ricoperte da una coltre di sangue raffermo si martoriava nei modi più atroci e inimmaginabili. Peggio di Saw - l’enigmista.
Oltrepassammo velocemente questo cerchione, per continuare la lunga scalata che portava sempre più nei profondi.
“Mrs. Ryan, ha peccato di gola?”
“Chi no?! La mia risposta è sì.” Affermai, ricordando le solite abbuffate a casa delle amiche, quasi ogni vederdì sera, da quando ho memoria.
Una porta sommersa da leccornie si materializzò all’improvviso davanti a noi. Oh, quanto avrei desiderato staccarne un pezzettino per provarne il gusto!!
La gente di quel girone era tutta indaffarata nell’ingozzarsi mille prelibatezze senza mai finire, senza mai esserne sazi, senza mai provarne piacere. Che cosa disgustosa.
 
“Può chiamarmi Lexie, se le fa piacere. Anzi, mi sentirei onorata Signor Keats.” Dichiarai arrossendo.
“Ah, ringrazi le sue gote rosse, Lexie. Gliene prego, mi chiami pure John.” Mi rispose sorridendomi.
“Lexie, ha mai peccato d’accidia?” mi chiese, compilando il girone precedente.
Mi passarono alla mente le fulgide immagini di quei periodi dove non avevo nessuna voglia di vivere; dove ogni scusa era buona per buttarmi a letto e sperare di morire al più presto.
“Sì” sussurrai timidamente, intimidita dai ricordi dolorosi.
La porta si aprì e ciò che vidi mi turbò. Notai che le persone punite compivano le stesse mie identiche azioni di un tempo, dove niente era vita ma solo disprezzo.
Non era niente di crudo, ero solo la realtà. Erano solo rappresentazioni dei miei ricordi più duri, che mi lasciarono da sempre un solco nell’anima. Gente smorza, senza vitalità o voglia di “vivere” se si può dire “vita” dopo la morte; la chiamerei piuttosto “non-vita”.
 
Mentre il poeta trascriveva non so quali cose, realizzai per davvero che ormai tutto era perduto. Né amici, né la mia più grande ragione di vita. Né una singola cosa buona o che fosse “viva”. Tutto nel paesaggio circostante urlava “morte” e “oscurità”, qualcosa di così vicino e intimo, a ciò che era stato il mio passato agghiacciante.
Entrammò da una porta con un antico specchio, il mio aspetto non era dei migliori e i miei occhi, sulla Terra color blu notte, qui all’Inferno parevano neri come un buco nelle tenebre.
“Inutile porle la domanda, da come sta passando di specchio in specchio a rimirarsi” esclamò John.
Sogghignai, “La mia risposta è sì, pecco alquanto di vanità, John”.
Le “vittime”, per così dire, erano tutte impegnate a specchiarsi in questi monili giganteschi, antichissimi e preziosissimi.
Come dargli torto,pensai, sono proprio una bionda. Ridacchiai.
 
Uscimmo troppo velocemente, a mio parere, per entrare nel girone successivo. La pergamena del poeta era colma di scritte, ancora non ne capivo il senso.
“Lexie, pecchi di avarizia?”
“Di certo non sono la persona più generosa e altruista al mondo. Rispondo sì.” Affermai contrariata.
Attraversammo gentaglia che raccoglieva i suoi risparmi in modo psicopatico. Mi rallegrai di non essere a quei livelli.
 
Man mano i gironi scomparivano dietro le nostre spalle, le scale diventavano sempre più ripide e viscose.
“Hai peccato di superbia, mia cara?”
Rimasi zitta e immobile per qualche istante, giusto per ricollegare il cervello dopo che il grandissimo J. Keats ebbe associato a me il possessivo “MIA” e il nomignolo “CARA”. Che onore, pensai.
“Molto.. sì” incespicai ad ogni parola, diventando sempre più simile a un peperone maturo.
Il cerchio era deserto e questo mi stranì.
“Come mai non c’è nessuno?” chiesi a bassa voce, timorosa di combinare qualche danno.
“Stanno combattendo per chi è il migliore, ma nessuno vincerà.” Mi rispose cortesemente.
“Che strano..” sospirai.
 
La camminata era lunga e stancante, più ci addentravamo, più le tenebre si rafforzavano e più sentivo le forze svanire.
“L’ira è mai stata tua padrona, piccola Lexie?”
Scoppiai in un riso formidabile, quasi raccapricciante. Come quelli che senti nei film horror, pronunciati dai cattivi, spesso sociopatici.
Le labbra mi si incresparono in un sorriso, quasi maligno.
“L’ira è la mia seconda casa” risposi.
“Non mi dica, mia cara, sarà forse la lussuria la sua prima dimora?” domandò, compilando il documento.
Ammiccai con lo sguardo e una miriade d’immagini di ricordi si impadronirono della mia mente, tutto fuorché casta.
I peccatori stavano guerreggiando fra loro, dominati da istinti sociopatici. Delle piccole scosse elettriche mi formicolarono sulla pelle, ma non ci feci caso.
Attraversando invece il cerchio dei lussuriosi, dovetti chiudere gli occhi per non vedere l’enorme, oscena, orgia che si stava tenendo fra quelle mura.
L’eccitazione e i sospiri ansimanti si condensavano sulla mia pelle come per rigenerizzarmi dalla lunga camminata.
A passo svelto mi trovai fuori di lì, volevo mantenere intatto il mio pudore.
“Le rarità hanno molti peccati e lei, mia Lexie, li ha tutti. Ora, mi segua che la porterò al cospetto di mon signor Lucifero. Egli le mostrerà il suo futuro, la sua strada.” Mi disse, inoltrandomi in una casa – caverna illuminata da candele di ogni tipo.
Più che una caverna, somigliava a un antico palazzo gotico, ragnatele e statue raccapriccianti incluse.
 
L’odore delle tenebre era acre e quasi famigliare, mi avvolse come una coperta calda davanti a un caminetto acceso in pieno inverno.
Il poeta mi scortò fino alla gigantesca sala del trono, ove un ragazzo a malapena ventenne sedeva stravaccato con aria superiore. Sistemato a quella maniera, non mancava di grazie e fascino. I suoi capelli, neri come gli occhi, ricadevano lisci sul viso. Era come una visione paradisiaca, detto strano dai più profondi degli inferi. Il suo abbigliamento misterioso e tetro davano un’aria “vissuta” al giovane ragazzo.
Keats s’inchinò al suo cospetto, liberando ali nere come quelle di Lucifero, ma mai così grandi e lucide.

 
 
   
 
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