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Autore: Sasita    15/12/2010    12 recensioni
Tutto inizia nel miglio. Jane ha ucciso John e non l'ha fatto per legittima difesa. Qual'è la pena per questi omicidi se non la morte? Così inizia una corsa contro tutto, contro tempo e legalità perché Jane e Lisbon possano finalmente vivere la loro vita. Scappando da tutto ciò che è loro noto, si ritrovano a vivere con nomi di altri, e ad amarsi come prima non avevano mai potuto fare. E cosa succederà loro? Riusciranno a scampare i pericoli? E potranno mai tornare a fare quel che amano di più al mondo, nella loro meravigliosa Sacramento? Leggere per sapere! E recensire per piacere! :)
Genere: Commedia, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Patrick Jane, Teresa Lisbon, Un po' tutti | Coppie: Jane/Lisbon
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Long Fic Jisbon'
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FUGA DAL MIGLIO
 

 
Era buio e umido nella stanza del Miglio, delle gocce di condensa cadevano sul pavimento di linoleum beige dal soffitto fatto di grate di ferro arrugginito.
Un letto striminzito e sfatto, coperto di un lenzuolo bianco e spiegazzato, stava poggiato a una parete macchiata e sporca, dipinta di un celestino scialbo, che un tempo doveva essere azzurro intenso.
Le sbarre, dello stesso colore della parete, avevano la vernice che cadeva a pezzetti.
In un angolo c’era un WC e un lavandino, con il calcare che cresceva come un fungo sulla superficie di ceramica di terza mano.
Infondo alla piccola stanza, di quattro metri quadri, una piccola finestrella a grate nere rifletteva la luce dei raggi lunari, illuminando l’uomo che stava seduto sul bordo del letto, con le mani nei capelli e i gomiti poggiati sulle ginocchia.
Alzò lo sguardo verso la porta della sua cella e si alzò in piedi, stiracchiandosi.
Posò una mano su un fianco e si passò l’altra tra i riccioli biondi.
Fece una smorfia rendendosi conto troppo tardi di non poter infilare la mano nella tasca del suo adorato gilet, e di non aver tasche di nessun tipo, in realtà.
Indossava un completo carcerario, di un orribile verde acido che sembrava fare a pugni con il celeste dei locali. Ma almeno riprendeva il colore del pavimento del corridoio che passava davanti alla sua cella.
Intorno a lui stavano molte altre persone, ognuno con una storia diversa, ognuno con il suo destino designato, lo stesso per tutti: La morte. O meglio, la pena di morte.
L’uomo biondo sorrise e si avvicinò alla finestrella, gli piaceva osservare le persone passare distrattamente davanti alla grata, ignare che lì dentro ci fossero i condannati a morte dello stato, i condannati a morte di Sacramento. Strizzò i suoi occhi cerulei nel buio della notte, probabilmente aveva le traveggole, perché gli era parso di vedere una donna dai capelli rossi fare un cenno di saluto in sua direzione.
-Ehi. Ehi, tu: Biondino. Mr Patrick Jane, vieni un secondo qua.-
Patrick Jane si girò verso le sbarre della sua cella e ci si poggiò, di fianco. Con un piede in un rettangolo creato dal ferro che si incrociava fece sbriciolare molta vernice azzurrina.
Sorrise, di quel suo sorriso beffardo e superiore.
-Sì?- chiese
-Che hai fatto per essere qui? Lo sai no, qui dentro c’è una gerarchia, tu sei un poliziotto. Devi aver fatto qualcosa di grave per essere qui. Quelli non prendono mai la Massima Pena. Insomma, non li fanno mai fuori.-
-Come ti chiami?- chiese Patrick, continuando a sorridere.
Il carcerato parve spaesato dalla sua domanda.
-Benjamin, ma chiamami Ben, gli altri mi chiamano Big Ben. Non mi piace. Allora, che hai fatto per avere anche l’ordinanza di esecuzione immediata?-
-Omicidio premeditato.- rispose evasivo.
-Come tutti, ma chi hai ucciso?-
-Ho commesso un omicidio premeditato di uno dei più noti serial killer d’America. L’ho ucciso lentamente. Nello stesso modo in cui lui uccideva le sue vittime, però lentamente. E alla fine ha implorato pietà, mi ha chiesto di ucciderlo velocemente, e non l’ho fatto. Ho lasciato che morisse dissanguato. E quando è morto gli ho sputato, ho scritto sul muro con il sangue “questo è Red John”.-
Quello ci rifletté, e lo guardò.
Chinò di lato la testa e la scosse, in senso di diniego.
-Non è vero.- asserì
-In parte sì.- rispose, mantenendo lo sguardo alto verso di lui e sorridendo storto
-Hai ucciso quel tizio che era effettivamente un Serial killer e avevi già programmato di ucciderlo?-
-Sì. Però gli ho sparato. Al primo colpo era già morto, ma gli ho sparato 21 volte. Con una 45 millimetri che mi era stata regalata. Ma io non ho il porto d’armi. Ho detto al giudice di averlo sempre voluto uccidere e di aver pianificato ogni istante. Sapevo che mi avrebbero dato la pena di morte.-
-Non hai paura di morire?- disse quello, colpito
-Adesso sì.- ammise Jane
-E prima?-
-Prima pensavo al suicidio.-
-Oh...-
-Tu perché sei qui?-
-Dicono che ho ucciso mia moglie.-
-Ed è vero?-
-Non lo so. Dicono di aver trovato dei miei diari dove descrivevo per filo e per segno come l’avrei uccisa. Ma io non ricordo.-
-Non ricordi perché non sei stato tu.-
Il carcerato lo guardò di sbieco. Con gli occhi impauriti e confusi.
-Come lo sai?-
-Dalla tua voce, dai tuoi occhi, dal tuo modo di porti...-
-Ah, Bè, sì... io amavo mia moglie non credo di averla uccisa. Quando ti faranno l’iniezione?-
Patrick lasciò libera una lacrima, i suoi occhi erano gonfi e rossi, ma dava le spalle alla porta, per non farsi vedere.
-Domani.- disse, con il cuore pesante
Big Ben sobbalzò.
-Così presto? Perché mai?-
-Ho dei nemici, e io ho chiesto di morire presto.-
-Perché?-
-Perché la morte è un espiazione, non una pena. Se mi abituo all’idea di morire, invece diverrò pazzo. E l’angoscia mi logorerà, finché non mi ritroverò ad urlare e chiedere pietà, mentre tre uomini mi terranno fermo e mi inietteranno un  siero assassino nelle vene, e io guarderò fuori dal vetro con il pubblico e vedrò lei piangere. E allora mi renderò conto dello sbaglio che ho fatto e del dolore che ho provocato.-
Aveva parlato talmente tanto veloce che non si era neppure reso conto di aver tirato fuori tante parole. Aveva bisogno di parlare con qualcuno.
-Che Dio ti perdoni, amico.-
-Lo spero.-
In realtà Jane non credeva in Dio, ma pensare di  poter vivere ancora, dopo la morte, rendeva quella prossima fine molto più piacevole.
E allora sorrise.
Sapeva che lei avrebbe sofferto, sapeva che lei lo amava e che lo aveva già perdonato per lo scempio che aveva fatto.
Quella donna minuta che si era accorto di amare troppo tardi gli aveva dato la speranza di poter superare anche quelle nuove intemperie, e invece era finito comunque nel Miglio, correndo verso la sua vicina morte.
Cosa aveva ottenuto? Non lo aveva capito.
Lui, in se, non aveva ottenuto niente, ma aveva garantito al mondo una vita senza John il Rosso.
Aveva sfamato la sua voglia di vendetta, ma la cosa non lo aveva toccato che per qualche minuto dopo il misfatto.
Poi aveva pensato a Lisbon e a tutte quelle complicazioni che non aveva calcolato prima di uccidere quell’uomo.
Sarebbe morto, inevitabilmente.
Lisbon, quella piccola fragile donna aveva cercato di coprirlo fino alla fine, fino a rischiare di essere indagata per favoreggiamento e complicità in omicidio. Ma lui non l’aveva permesso, non voleva che un'altra persona finisse nei guai per colpa sua.
Si era accorto di amarla quando gli aveva tirato uno schiaffo sonoro, facendogli voltare la testa, dopo che aveva confessato l’omicidio.
Lei sapeva che l’avrebbero ucciso.
Lei aveva combattuto per lui.
Lui aveva preferito morire, piuttosto che trascinare lei nel suo oblio.
-La ami?- chiese ad un certo punto Ben
-Sì.- rispose lui, tanto ormai non aveva voglia di nascondersi. Era esausto, stanco.
-Come si chiama?-
Patrick Jane si accigliò, da dove arrivava tutta quella curiosità per un tratto tanto insignificante e doloroso?
Jane non avrebbe mai potuto baciarla.
Non avrebbe mai potuto fare l’amore con lei.
Un’altra lacrima gli scivolò sul volto e, di nuovo disse la verità.
-Fa male, sai? Io avevo una famiglia, nove anni fa, quel pazzo schifoso che ho ucciso me l’ha sterminata. Volevano dargli l’ergastolo, lo ritenevano incapace di intendere e di volere. Sì, insomma, soffriva di una forma regressa di psicopatia sociopatica. E io non volevo che vivesse. Solo ora mi rendo conto di avergli quasi fatto un piacere. Meglio morire che stare vivo in una cella chiuso e da solo per anni e anni. Lei, la donna che adesso so di amare, è il capo di una squadra di poliziotti con cui lavoravo, come consulente. È bellissima, si chiama Teresa.-
Patrick non resse oltre, fu percorso da uno spasmo, e si accasciò a terra, piangendo.
Straziato dai singhiozzi si buttò a terra, prendendo a pugni il pavimento appiccicoso.
-Io non l’avrò mai. E non la merito. Voglio morire, solo morire adesso, se non l’avrò mai.- Ben si sentii in colpa.
Mentre il biondo stava chino per terra ad osservare le macchioline create dalle sue lacrime, esamine e stremato, un gridolino sopraggiunse dal bugigattolo dove stavano gli inservienti o i secondini.
-Vi denuncio tutti!- urlò quello.
Patrick si alzò e si appiattì contro le sbarre.
-Provaci e noi diciamo a tutti quello che fai ai carcerati. A partire dalle bastonate, fino alle violenze su quelli che andranno in galera e su quelli piccoli, e sulle donne.-
Il cuore di Jane perse un battito. Una leonessa di un metro e sessanta era arrivata a dare una lezione a quel piccolo bastardo represso di un secondino che lo aveva guardato con sguardo da pazzo maniaco quando lui era entrato quella mattina e si era permesso di toccarlo in posti non consoni, mentre gli scioglieva le manette. Fino a mordergli forte l’orecchio, facendogli perdere sangue, dicendo “questa notte vengo da te”.
Vide un Cho e un Rigsby vestiti di nero e con un passamontagna chiudere il secondino nella cella di isolamento, stretto nella camicia di forza e con un fazzoletto in bocca.
Una donna minuta correva verso di lui e un'altra, più alta, controllava gli altri carcerati.
Le sbarre della cella di Jane si aprirono e lui non fece in tempo a spostarsi che una cascata di capelli corvini gli sferzò il viso. Strinse a se il piccolo corpo che gli si era avvinghiato addosso e inspirò l’odore di vaniglia dei suoi capelli.
-Anche io ti amo, anche io!- ripeteva la donna che lui sapeva essere Lisbon –Va tutto bene, ti porto via di qui!-
Una pace immensa invase il suo cuore pesante, facendolo librare alto e spensierato come non lo era da anni.
Infondo non si sentiva in colpa per aver ucciso un uomo, aveva già ucciso in passato. Solo che lo aveva fatto per legittima difesa della piccola donna che aveva tra le braccia.
E anche lei, per il suo lavoro aveva ucciso. Lei non lo giudicava. Nessuno dei suoi lo giudicava.
-No, non voglio che tu perda il tuo lavoro per me!-
Gli disse con voce sommessa e roca per il pianto, la commozione e la felicità.
-Io mi sono licenziata il giorno dopo che Hightower non ha mosso un dito per risparmiarti la Massima Pena. E loro mi hanno seguito a ruota.-
-Diventerò un latitante a vita.- disse, felicemente
-Meglio latitante che morto. Ho già i tuoi nuovi documenti e anche i miei. Andremo da qualche parte.- disse lei, con fare tranquillo e sereno.
Lui la scostò dalle sue spalle e la tenne a una distanza per poterla guardare negli occhi, era tranquilla e felice.
Le tolse il passamontagna dal viso e le carezzò le guance con i pollici. Teresa si abbandonò al tocco della sua mano e una lacrima le bagnò il viso pallido.
-Io non permetterò che tu muoia così. Hai fatto bene ad uccidere quel pazzo schifoso.-
-Non sei in te. Teresa.-
-Sono perfettamente a conoscenza delle conseguenze! Cambierò nome, cambierò colore di capelli. Mi rifarò le orecchie e cambierò lavoro. Tu uguale, secondo me non staresti male con i capelli scuri.- tentò di scherzare  -Magari ti puoi far correggere le impronte digitali.-
Patrick era affascinato.
-Dove hai preso i documenti?-
-Dal miglior falsario sul mercato. In cambio ho depistato le indagini che vertevano su di lui.-
-Gli altri?- chiese lui, andando ad abbracciare gli amici.
-Io voglio provare a allenare una squadra di baseball. Ero bravo.- affermò sicuro Cho
-Io credo che finirò gli studi per diventare architetto.- disse Van Pelt
-Io andrò a lavorare per la NCIS di San Francisco.- sorrise Rigsby –Rimarremo tutti in contatto. Tutti a Frisco. E io e Grace ci sposeremo.-
Jane sorrise guardando i due ragazzi abbracciarsi.
-Siete sicuri di volervi sacrificare così per me?-
-Il Baseball era il mio sogno.- Cho aveva le braccia conserte nella sua solita posa indifferente. Ma un ombra di sorriso gli dipingeva le labbra e sollevava gli occhi a mandorla in un espressione serena.
-Tutto il dolore delle persone mi fa male, voglio fare qualcosa che porti solo bene.- Van Pelt aveva l’aria di una che ha trovato la pace –Infondo sono giovane. Ho solo 28 anni.-
Jane annuì
-La NCIS è una figata!- Rigsby era elettrizzato.
-Bene, finiti i convenevoli...- iniziò Lisbon –levati quella roba di dosso e metti questi.-
Gli porse un paio di Jeans neri, delle Serafini, una camicia bianca e un golfino di lana leggera e cachemire beige.
Mentre si cambiava Teresa lo aiutava perché facesse più veloce e gli altri perlustravano la zona, facendo il palo.
Teresa non poteva evitare di notare come la sua pelle formicolasse al contatto con quella di Patrick.
Le gambe, il petto, le braccia.
Tentò di non pensarci e gli sorrise, quel sorriso che Jane adorava e che indorava gli occhi di Lisbon in un modo affascinante e misterioso.
-Ti amo.- le sussurrò nell’orecchio –Mi spiace solo non averlo capito prima. Non avrei ucciso John, avrei lasciato che la legge decidesse. Ma ormai è troppo tardi. Sei sicura di ciò che stai facendo?-
-Mai stata più sicura. E io non rischio niente. Ho i miei assi nella manica.- gli fece l’occhiolino
-Ok, piccioncini, siete pronti?- Rigsby si avvicinò e diede una pacca sulla spalla a Jane
-Sì.- affermò sicura Lisbon, stringendo la mano al tessuto del golf di lui e rinfilandosi il passamontagna.
Jane esitò e guardò l’uomo seduto sul bordo del letto nella cella difronte alla sua.
-Rigsby...- disse a un tono di voce che potesse essere udito dal carcerato -... Quando sarai nel NCIS cerca di far cadere le accuse su quell’uomo nella cella, si chiama Benjamin...-
Quello si girò di scatto e sorrise felice a Jane –Sono Benjamin Halsey, e sono innocente.-
Lisbon guardò Jane con gli occhi felini inarcati in una smorfia di scetticismo
-È davvero  innocente! Ti prego, Tessie, permettimi di fare l’ultima cosa alla Jane, quando sono ancora Jane.- disse, e l’abbracciò, incapace di fare diversamente.
La donna sospirò, sussurrandogli nell’orecchio un debole “sì”
-Grazie.- le rispose lui, affogando le parole nel colletto della sua camicia nera.
 
Nelle tre ore seguenti Jane apprese che avrebbero preso un treno, lui e Lisbon, e sarebbero andati a New Orleans, che i suoi soldi –Tutti i suoi soldi- erano passati a un certo “Axel  Simmons” attraverso un testamento fatto dal falsario Jack Marvel, e che questi erano divisi in tre fondi bancari, che a quanto risultava dalla documentazione del Miglio, Patrick Jane era stato internato il 12 aprile 2011 e giustiziato il 13, che Teresa si sarebbe chiamata Dakota McKenzey.
Della vita di Axel, nonché Patrick, si sapeva che era nato a New Orleans e che aveva il nonno di origini svizzere e la nonna era spagnola, emigrati durante la grande guerra, perché innamorati persi e desiderosi di vivere la propria vita in pace, aveva i capelli neri e gli occhi azzurri, le labbra morbide ed ara alto uno e ottanta, o giù di lì.
Il padre era un trafficante di armi, motivo per cui la madre, giovanissima, lo lasciò e portò via con se il piccolo figlio a Sacramento.
Axel non era ricco ed era imparentato con Patrick Jane, da parte di madre, e avevano all’incirca la stessa età, anche se Axel aveva tre anni meno.
Dakota, invece, veniva da una piccola famiglia del Maine, con una madre dolce e comprensiva e un padre burbero e violento. Era figlia unica ed era discendente di alcuni nativi americani, imparentati in seguito con gli inglesi.
La madre la adorava con tutta se stessa, ma ebbe una vita breve, perché il marito la uccise quando Dakota aveva ancora 10 anni. La aveva rotto una bottiglia di Whisky sulla nuca, provocandole un’emorragia celebrale. L’uomo era stato poi arrestato ed era morto in carcere.
La bimba, cresciuta da una zia pacioccona e grassottella nel Montana, era diventata una piccola rockstar di paese, dopo aver finito tutte le scuole, e viveva con il lavoro di cameriera.
Si era traferita a Hollywood all’età di 26 anni, per tentare di entrare in qualche film,  ma non c’era riuscita, quindi era andata a Sacramento e aveva iniziato a lavorare come Bancaria.
Teresa Lisbon, invece, era tornata nella sua vecchia città natale, San Francisco.
I fratelli di Lisbon erano stati avvertiti che lei sarebbe partita a lungo...
-E’ così triste quello che devi fare per me...- disse Jane, dopo il lungo ascolto.
-Non posso nemmeno pensarti morto. Rischierei di morire io stessa, dentro.- disse, abbassando lo sguardo e alzando un sorriso mesto –Sai, credo di amarti da molto tempo, ma non me ne ero mai resa conto. Me ne sono accorta la prima volta che mi hai salvata che provavo per te una simpatia molto forte. E quando abbiamo ballato ho capito di amarti. Non hai idea di come sia stato difficile rendermi conto che avrei dovuto andare avanti senza di te, insomma, Walter, e tutte le altre cose... Ma non ho mai smesso di amare te.- ammise, rialzando lo sguardo sull’uomo difronte a lei.
Patrick  sorrise, illuminando il suo viso come poche volte era successo prima che John morisse.
Lei rimase a guardarlo, con gli occhi incatenati e le labbra dischiuse, pensava di non aver mai visto nessun uomo più bello, nemmeno lo stesso Jane era mai stato così bello come lo era in quel sorriso. Si vedeva che era libero, gli occhi limpidi, chiari e luccicanti, senza ombre a passargli per la mente, il sorriso carnoso e rosastro, illuminato da calde sfumature dorate, come la sua pelle.
Chissà se sarebbe stato uguale, anche con  i capelli più scuri...
-Sarò lo stesso, e sarai la stessa anche te.- la rassicurò lui, posandole una mano sulla guancia e accarezzandola con dolcezza.
-Penso che sia inutile dirti di uscire dalla mia testa, vero?- chiese lei, ritrovando la sua solita aria da donna forte e in carriera.
Lui ridacchiò, facendo cadere la mano –Ovvio.- disse, scherzoso e sereno.
-Sì, starete benissimo insieme e blablabla... ora dovete scendere, però.- disse Cho appena furono davanti al parrucchiere, erano già arrivati a San Francisco, di lì a poco sarebbe iniziata la loro avventura.
Scesero di macchina, e furono seguiti a ruota da Rigsby, Van Pelt e Cho, che li salutarono abbracciandoli.
Kim a braccia conserte li guardava e quasi sghignazzava, Grace sorrideva anche se con le lacrime agli occhi e Wayne... Bé, Wayne rideva apertamente.
Solo quando furono dentro il parrucchiere, li sentirono rientrare in macchina e partire.
Era deciso, Jane si sarebbe fatto tingere i capelli di un morbido castano mogano, e se le sarebbe fatti accorciare un po’.
Lisbon, invece, decise di farsi i capelli castano rossi, come ce li aveva la sua amata mamma.
Per il resto, il tempo passava, ed entrambi trepidavano, aspettando il momento in cui sarebbero stati da soli in treno.




Dice l'autrice:
Ave, gente. Come ve la passate? Beh, io abbastanza bene, nonostante tutto...
Siccome sono pazza e fondamentalmente masochista, ho deciso di distruggermi l'esistenza con un'altra long fic...
Vi spiego come è andata: quest'estate mi sono ritrovata a guardare "Il Miglio verde" per l'ennesima volta, e allora ho pensato "E se Jane uccidesse John e gli dessero la pena di morte?"
E da lì è uscita una shot. Poi me ne sono dimenticata e l'ho ritrovata qualche giorno fa, convinta di finire la Shot..
Poi oggi ho avuto un illuminazione e ho deciso di trasformarla in una Long...
Questa storia... penso che sarà il mio gioiello, ma è ancora tutto da vedere. Quindi... recensite, recensite, recensite!
Una trama diversa e anche piuttosto coinvolgente, ad un certo punto! Vedrete!
Un bacio, amici miei!

Sasy
   
 
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