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Autore: Exelle    28/12/2010    3 recensioni
La vita di Severus Piton è monotona e solitaria.
Quella di Luna Lovegood, incomprensibilmente folle.
E se venissero raccontate nella stessa storia?
_Finalmente il capitolo sedici_
Genere: Commedia, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Lily Evans, Luna Lovegood, Severus Piton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Più contesti
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              ***Capitolo Dieci
Il mattino ha la carie in bocca


Mundugus Fletcher riaprì gli occhi cisposi con uno scatto deciso. La luce biancastra del sole lo colpì con violenza e glieli fece richiudere con altrettanta rapidità. 
Era il peggior dopo-sbornia della sua vita, rifletté. E il fatto che si fosse ritrovato in quelle condizioni senza aver nemmeno bevuto, non faceva che rendere il tutto più doloroso, impressione ancor più ingigantita dalle fitte che gli attraversavano la schiena e i lombi, come se fosse atterrato sulla pietra da una grande altezza.
Aveva gli abiti incollati alla pelle e nonostante si fosse abituato da anni al fetore che circondava la sua persona, un misto di polvere, whiskey vecchio e fumo vecchio, quel mattino, sempre che fosse mattino, si trovò particolarmente disgustoso.
Doveva essere precipitato in una piscina di liquami e melma, condita di vari rifiuti tossici. Un’immagine gli balenò nella mente: topi di venti centimetri nuotavano squittendo attorno a lui, in circolo. Come se fosse stato uno scarto da mangiare o un ratto più grosso degli altri desideroso di unirsi al loro gruppo.
Mundungus represse un brivido, ma non  riuscì a trattenere la tosse che cominciò a squassarli il torace con violenza, sollecitando il dolore della bocca. I denti.
Aveva perso quasi metà di suoi denti! E, con suo orrore, non solo quelli veri che benché marci e macchiati, resistevano ad ogni maltrattamento, ma anche le sue belle protesi d’oro cesellato. Si passò la lingua negli incavi, avvertendo il sapore del sangue. La bocca impastata non gli aveva permesso di sentirlo prima. Aveva le gengive come addormentate, la stessa sensazione di quando ti vengono le formiche alle gambe, se stai troppo fermo al freddo.
Zerkinski. Bastardo. Oh, gliela avrebbe fatta pagare a quel sudicio cugino di un troll. Poteva camuffarsi quanto voleva, fingersi miss Strega ‘95, ma Dung l’avrebbe trovato e lo avrebbe ripagato con la stessa moneta. Anzi, non si sarebbe limitato a una mazza da golf  Babbana. Avrebbe rubato dieci mazze, le avrebbe incantate e le avrebbe usate per percuotere la massa di lardo di quel ciccione infame. E, per buona misura, avrebbe percosso anche sua madre.
Dung si passò ancora la lingua sulla gengiva ormai spoglia, contando i solchi dove un tempo sorgevano i suoi amati denti. Assaporò ancora il suo sangue, constatando che aveva un gusto marcio quanto il resto di lui e riprovò a riaprire gli occhi, più attentamente e con circospezione. Questa volta, sopportare la luce fu più facile e anche prepararsi al poco familiare panorama.
Il cielo coperto di nubi bianco sporco aveva tonalità giallastre ed era attraversato da rari pennuti gracchianti che volavano in tondo sulle acque grigie per poi tuffarsi a recuperare qualcosa tra le onde scure e schiumose. Rumore di ferro battuto, uomini e urla, imprecazioni più o meno pesanti venivano interrotte dai fischi delle navi in partenza e il ruggito dei grandi motori dei piroscafi e delle ventole si accompagnava al cigolio delle gru che sollevavano grandi cassoni di metallo scolorati e molto spesso arrugginiti, nelle stive o su,  fino ai ponti brulicanti di uomini.
Era ancora a Londra, ai Docks di Londra. Nella parte più vecchia, a giudicare dai grandi casermoni di mattoni rossi coi tetti di lamiera ricurva e i larghi vetri affumicati, grevi di sporco vecchio di almeno un centinaio d’anni.
Dung giaceva sdraiato in uno stretto e umido vicolo che correva tra due capannoni, dove l’inconfondibile odore di piscio si amalgamava con quello della spazzatura abbandonata da giorni a sé stessa, tra vecchi e malconci bidoni anteguerra. Un paio di passi davanti Dung,  il vicolo - fatto di numerosi ciottoli sconnessi, notò Dung, cosa che spiegò il dolore alla schiena che aveva accompagnato il suo buongiorno al mondo- s‘inclinava e scendeva tramutandosi in scalini, nelle acque puzzolenti di quel tratto di Tamigi.
Tutto sommato, Dung era stato fortunato. La sua smaterializzazione di emergenza lo aveva spedito in un posto dove il suo pastrano e i vestiti lerci non sfiguravano, e ben lontano da ragazzi decorati da spille da balia o da obesi che giocano a fare le modelle.
Si frugò nelle tasche alla ricerca della bacchetta, irta di nodi, esattamente come i suoi capelli. Provò anche a passarsi una mano tra quelli, ma non riuscì a districarli. Qualcosa con la consistenza di super colla e interiora di pesce, li teneva saldamente uniti. Orribile. Dung trovò la bacchetta nella manica (Doveva essere scivolata lì chissà come, ma ringraziò l‘Incanto Legatis che gli impediva di perderla in giro, cosa che agli inizi della sua carriera accadeva assai spesso), ma fu meno contento di rivedere le sue sigarette babbane, con i filtri deformati dall’acqua e il tabacco fradicio a spasso per la sua tasca. Tirò fuori quella poltiglia dalla tasca, senz’altro più profumata di lui, accompagnandola con una disinibita serie di versi e imprecazioni disgustate che non riporterò per non avere problemi di censura.
Si tirò su con fatica, la schiena scricchiolante. Dovette appoggiarsi alla parete respirando affannosamente per farsi forza, mentre le ginocchia tremolavano impazzite.
Che vita schifosa la sua.
Il fatto che fosse stato Silente con la sua richiesta a farlo finir lì, fu un pensiero di pochi secondi. Fondamentalmente non ce l’aveva con Albus per l’ingiusta e poco -per nulla- retributiva missione che gli aveva affidato, ma ce l’aveva con sè stesso per il modo in cui stava gestendo quella ridicola caccia al tesoro.
Se durante quegli anni non avesse sempre fregato Zerkinski, il loro incontro sarebbe stato diverso. Se non si fosse messo a dibattere con i Babbani sui ponti, se si fosse impegnato a trovarsi una brava donna invece che un buon Whiskey, se fosse stato più intelligente, perchè, come gli ripeteva sua madre furbizia non fa’ rima con sapienza, le cose sarebbero state diverse. Le dita dalle unghie sporche e spezzate fecero leva tra le crepe dei mattoni e Dung cercò di raddrizzarsi e camminare. Le possibilità offerte dai se, gli ronzavano in testa in un infinito carosello di opportunità perdute. Maledizione.
Non aveva l’età per giocare al ladruncolo di serie C.     
Aveva l’età per l’ospizio, ecco cosa. Ne era praticamente sicuro, mentre a passi lenti e barcollanti, con una mano appoggiata al muro annerito si avvicinava agli scalini e all’acqua. Mentre contemplava le piccole onde di schiuma e bolle, inquinamento Babbano, ripensò a quanto era stato fortunato a smaterializzarsi prima di finire arrostito da quel pazzo meticcio polacco, bulgaro o quel che era. Il suo doveva essere proprio un odio viscerale se aveva cercato di ammazzarlo dando fuoco alla sua cara barchetta da contrabbandiere filo-Babbano.
Dung scese due dei viscidi scalini che scomparivano nelle acque torbide del fiume. Non ricordava se la smaterializzazione l’avesse fatto prima finire nell’acqua, come i suoi abiti fradici facevano pensare, o se fosse finito direttamente sui ciottoli del vicolo con un bello schianto. Non lo ricordava, ma non era importante. L’importante era essere vivo. Mundungus sorrise, storcendo la bocca e la faccia. La patina di sangue secco che gli colorava il viso si crepò in mille frammenti. Contemplò lo squarcio di porto che si apriva davanti a lui, cominciando a pensare alla prossima mossa.
Il porto, a differenza della buona parte di Londra, era poco frequentato dai maghi. Per qualche ragione pochi di loro amavano veramente il mare, troppo concentrati com’erano a fissare i loro domini e il loro potere sulla terra ferma. Sarebbe stato alquanto improbabile incontrarne qualcuno a passeggio per i Docks, tantomeno una banda di Mangiamorte. Di certo quei brutti ceffi repellevano gli sforzi combinati di più Babbani e dei loro rumorosi macchinari che si ostinavano a trascinare oltre infinite -per loro- distese marittime, casse cose e carcasse.
Anche Mundungus non li capiva, ma lui a differenza dei Mangiamorte, tollerava più che bene l’odore di pesce marcio. Avrebbe potuto attraversare il porto, comportarsi da Babbano e raggiungere Grimmauld Place, ma la metro e quei terrificanti autobus privi di Sensori Frenanti lo atterrivano. Occorreva un diversivo.
Mundungus Fletcher stirò le braccia e le sue ossa scricchiolarono. Era pronto a riprendere la caccia all’oggetto chiesto da Silente, un qualcosa da vendere -più o meno-, etichettare, smerciare. Ma prima, aveva bisogno di una buon’anima che gli offrisse un the caldo e un po’ di cure dato che Dung aveva avuto un paio di diatribe con quelli del San Mungo, a seguito di alcune pozioni curative, lenzuola, occhi di lucertole Nottilucose, foglie di Lauro rosso e altre cose scomparse e sarebbe stato da scemi andar a chiedere aiuto lì senza una copertura seria..
Pregustando uno stufato di cavolo e biscotti al rabarbaro, cominciò a girare su sé stesso, direzione Little Whinging, Surrey.

 

                                                                                                                                  ***

 

Severus Piton benedì il suo giorno di riposo settimanale versandosi una generosa dose di vino elfico al tavolo della colazione in Sala Grande. Ignorò smaccatamente l’occhiata di disapprovazione della McGranitt, evitando di farle notare che pochi posti più in là, oltre la sedia vuota del Preside, Sibilla Cooman dava il peggio di sé, rivestendo un’enorme brioche con della panna montata e correggendo il suo succo di zucca con dello sherry Rosenthal & Son. Contemporaneamente.
Severus Piton contemplò amareggiato quel disgraziato spettacolo culinario, prima di tornare alla sua colazione. Diversamente dal suo solito, vale a dire farsela spedire dalle cucine direttamente nel suo alloggio per non vedere faccette felicemente assonnate già alle prime ore del mattino, quella mattina aveva abbastanza entusiasmo in corpo, -laddove entusiasmo viene qui usato al posto di noia-, per affrontare l’inizio della giornata in compagnia di qualcun altro che non fosse lui stesso. In realtà, quella scelta dipendeva dall’attribuire al brusio degli studenti affamati il potere di distrarlo, facendogli lanciare occhiate imperiose ai gruppi più chiassosi, riducendoli più spesso al silenzio, piuttosto che ad un quieto e rispettoso mormorio.
Severus Piton si divertiva con poco, dopotutto.
Quella mattina però aveva la strana sensazione che i gruppi di studenti chiassosi fossero già stati azzittiti da qualcuno. Non solo. Anche se Severus Piton non era un assiduo partecipante delle colazioni in Sala Grande, notò che pochi studenti affollavano i tavoli delle Sale Comuni. Era più facile vedere, constatò, studenti indaffarati a depredare i piatti da portata per poi sparire alla chetichella verso la grande porta ad arco e disperdersi in altre zone del castello, prima dell‘inizio delle lezioni mattutine. Piton studiò tre di loro, Padma Patil, Gloria Stauton e Bill Foster, nascondere senza tanta circospezione, numerosi biscotti glassati nelle tasche delle borse, per poi uscirsene a braccetto fuori dalla Sala, accompagnati dalle loro risatine da ribelli occasionali. Si appuntò mentalmente di punirli in qualche lezione successiva, non perché stessero commettendo un‘infrazione, ma per il malessere che quelle occhiatine complici e infingarde, avevano rievocato in lui.
I bui, imperscrutabili occhi dell’insegnante vagarono per la sala, cercando la ragione di quella nuova, strana abitudine degli studenti. Avrebbe capito se fosse stata estate, in cui una colazione gomito a gomito con cento persone poteva rivelarsi un po’ opprimente ma, Santa Priscilla, era novembre inoltrato!
L’interesse di Severus ben presto sembrò scemare, quando un punto color rosa confetto, talmente rosa da sentirsene ferito, fornì la spiegazione più ovvia. A quanto pareva quel rospo ministeriale che rispondeva al nome di Dolores Umbridge, faceva così schifo agli studenti del castello che essi disertavano la colazione in Sala Grande.
Eccola là, con il suo rossetto perla, il suo girocollo pacchiano e una spilla sagomata a gattino sul petto. Sorseggiava il the a sorsi microscopici, tenendo la tazza con la minima parte di polpastrelli, come provasse disgusto bere e a toccare la porcellana.
Piton rimase intento a studiarla, osservandone gli occhi guizzanti, indaffarati a schedare ogni studenti ai tavoli. Un osservatore distratto non se ne sarebbe accorto, così come non si sarebbe mai accorto del disprezzo che Piton aveva nei suoi confronti, ma chi avesse avuto la pazienza di guardarla avrebbe notato il gelo calcolatore nelle iridi cerulee.
Severus strinse impercettibilmente le labbra. Se la sarebbe presto ritrovata in classe, pronta ad un’altra verifica. Vecchiaccia. Poteva rimanersene nel sudicio buco da cui era uscita, avrebbe solo fatto un favore al mondo magico.
Il fatto che ora il rospo stesse fissando una testa irta di ribelli capelli corvini e occhiali rotondi, non attenuò il disprezzo che Severus provava nei suoi confronti. La vide appuntare qualcosa su una pergamena -sempre sorseggiando il the e con gelida grazia, diversamente dalla Cooman-. Severus vide le labbra della donna stirarsi in un sorriso conciliante dietro il bordo dorato della tazza e avvertì una strana sensazione. Un misto di furia e ..gelosia? Era inevitabile che Potter finisse tra le grinfie di quella laida amante dei gatti. Dopotutto, da quando era a Hogwarts, Harry Potter finiva sempre tra le grinfie di qualcuno. Ma questa volta non si trattava dei lunghi artigli del Signore Oscuro, ma di quelli inutili e stupidamente ciechi del Ministero, a cui non importava nulla fuorché dell’ordine e della tranquillità, elevando a virtù la stupidità ed eliminando..
Bè. Quelli come Silente e Potter.
Severus Piton riportò la sua attenzione alla colazione, ma la fame gli era ormai passata. Riposizionò accuratamente bicchiere, posate e piatto, si alzò, e senza guardare nessuno, sparì nella porta laterale alla Sala, evitando accuratamente di passare in mezzo alla marmaglia degli studenti. Era il suo giorno di riposo settimanale, dopotutto.

Un’ora e mezza dopo, Severus Piton sedeva immobile in fronte alla finestra, fissando il cielo plumbeo e solo quello, dalle finestre arcuate della torretta in cui Silente aveva momentaneamente fatto traslare l’alloggio del tenebroso professore.
Era il suo giorno libero, vero. Ma lui era anche una persona sola e triste e solitamente, le persone così, non sono all’apice dell’euforia nei giorni liberi da impegni.
Severus Piton aveva anche chiuso l’unica vera fonte di distrazioni a doppia mandata nella vetrinetta dei libri costosi, dopo aver solennemente promesso a sé stesso -verso le tre del mattino del giorno prima, in un penoso stato confusionale e amareggiato- dopo essere riemerso da un ricordo non particolarmente esaltante, di non ricaderci più.
Almeno per un po’.
Eppure, mentre il cielo biancastro fuori dai vetri offuscati dalla condensa veniva attraversato da qualche raro gufo, il suo pensiero si trovò di nuovo, inevitabilmente, dolorosamente avvinghiato al Pensatoio e a ciò che conteneva. Ora, solo il bacile sembrava riempire la sua testa nient’altro, ma questa volta c’era qualcosa di diverso. I suoi occhi si soffermarono sulla condensa delle finestre, un dettaglio all’apparenza insignificante, ma che gli riportò alla mente un banco di nebbia. Una riva umida, ciottoli smossi da passi, suoni smorzati. Lily.
E Potter. E Black.
Quello che aveva visto poche ore prima. Nel ricordo.
Severus Piton corrugò le sopracciglia e si rese conto, per la prima volta da quando Albus gli aveva affidato il Pensatoio, che per quanto i suoi pensieri fossero confusi, schiavizzati dalle allucinazioni e apparentemente impossibili da disciplinare, ora riusciva a guardare quell’insana ossessione per il passato con un po’ di obbiettività.
Stava seguendo un percorso. L’aveva già deciso in precedenza ma capiva che c’entrava anche il suo istinto. Non lo ricordava bene, ma riconosceva che c’era del metodo, nel suo modo di abbandonarsi ai ricordi per stare accanto a Lily, anche se solo in spirito o nei meandri della memoria. Seguiva un ordine vago, ma adesso non ricordava se l’avesse fatto con coscienza o solo per casualità.
Come se l’avesse fatto per sciogliere i nodi del passato.
La sorella di Lily, Silente che li spiava con lui da una veranda...
Severus si rese conto di come facesse fatica a distinguere il vero dal falso, i ricordi dalla finzione, quando era stato adulto e quando era bambino. La testa cominciò a dolergli ma s‘impuntò. Doveva rimettere ordine.
Ricordava il primo in cui si era gettato, il primo in cui aveva iniziato a parlare, parlare davvero, con Lily. Erano seguiti quelli dei giorni estivi in cui ancora la spiava con la sua famiglia dalle finestre, senza il coraggio di bussare... Della sua fuga da casa con lei, la vita con gli Evans e l’arrivo di Silente, il ritorno di Tunia e il primo diverbio con Lily... Pian piano, cominciò a trovare un nesso.
Lui che tornava a casa sotto la pioggia, sua madre stesa per terra, svenuta...
Questi erano tutti i ricordi principali, inframmezzati da altri più insignificanti di brevi momenti in cui si gettava a seconda dell’umore. Lui che faceva pace con lei, alcune passeggiate assieme, l’una di fronte all’altra a confrontare i compiti, in giro per Hogsmeade, la prima partenza dal Binario 9 e 3\4 .. Cosa vuoi Severus? Una Lily comprensiva, una Lily che fissa la volta di foglie in una radura? O una Lily furiosa, vendicativa...
Come quella della torre dell’Orologio.
Solo che, pensò lo spigoloso Severus, quella non era stata un ricordo. Anche se quella Lily sembrava proprio uscita dal 1975, in gloria e bellezza. Quella che aveva detto tutte quelle cose orribili, cose che Severus adesso, lì in poltrona, non ricordava. Le aveva dimenticate apposta, tanto erano dilanianti e affilate.
Piton aveva usato -e usava- i suoi ricordi, per rivivere la sua vita e la vita di Lily, cercando di non pensare al finale già noto di quella storia, niente di più.
Lo faceva con ostinazione, come se quel mare non solido, non gassoso e non liquido ma che era tutto e non era nulla, possedesse il potere di cambiare l’inevitabile. E forse stava funzionando, perché...
Quelle allucinazioni dovevano pur significare qualcosa, no?
Severus si contemplò le mani nodose, la pelle giallina tesa sulle falangi, bianca sulle nocche. Mani morte e malate, mani da pozionista, brutte a vedersi.
E se le allucinazioni  fossero Lily? Trovò il coraggio di chiedersi. Sapeva quanta ingenuità c’era in quell’interrogativo, ma era talmente amareggiato e offuscato da flebili speranze, che si rifiutò di trovare una spiegazione logica. Come sempre, ultimamente.
Era stata quella Lily all‘orologio, più di allucinazione ma meno di un fantasma, ad aver aperto la strada ai ricordi successivi, quelli con cui  adesso Severus si ritrovava a fare i conti, tutti un‘altra cosa, rispetto a quelli dolceamari dell‘infanzia.
L’inizio del quinto anno. La fissazione di Lily per Sirius Back e Potter... Potter che cominciava a ronzarle attorno, invece di limitarsi a starsene a distanza  a giocare al re del mondo, al signore del castello.
Era stato un salto brusco, ma Piton, il Piton adulto seduto solo alla finestra con gli occhi neri quasi vitrei, l’aveva inspiegabilmente accettato. Lui era un naufrago nel mare dei suoi stessi ricordi. Che diritti aveva di scegliere quelli con cui crogiolarsi? Tutti, rispose quella ancorata saldamente al suo amore incondizionato. Nessuno, contrattaccò la sua parte logica.
E mentre pensava a questo, la mente di Severus Piton cominciò a ragionare con quell’errato sistema con cui ragionano tutte le menti umane, qualcosa che aveva sempre temuto di fare.
Cominciò a unire fatti, collegare cose, tracciare confini e conseguenze. Eliminare le coincidenze, giustificare tutto e dargli un senso preciso. Come se facesse parte di uno schema, di un destino già deciso.
Aveva avuto il Pensatoio da Silente. Silente aveva accennato a un compito, ma erano passati quasi due mesi e il Preside non gli aveva detto più nulla...
Severus aveva cominciato a considerarlo quasi come un dono. Aveva iniziato ad usarlo per rivivere i suoi ricordi, da bravo egoista. La tentazione era stata troppo forte.
E... Forse Silente glielo aveva passato proprio per quello...
Se si fosse trattato d’altro, Piton sapeva che il suo atteggiamento sarebbe stato ben diverso. Custodisci qualche aggeggio magico! Spia Lord Voldemort! Aiuta Harry Potter!
Severus aveva sempre obbedito ciecamente a ogni ordine del Preside, rispettandone ogni sfumatura. Ma quando aveva saputo che cosa avrebbe dovuto custodire questa volta, bè..
Non era certo bastata la morte di Lily a fermare Piton, il folle, pazzo Piton che ora si ritrovava lì a riflettere sulle complicazioni e su quello che poteva derivarne. Pronto a tentare di risolvere il dilemma.
I ricordi si erano succeduti, quasi rispettando un ordine. Infine, erano cominciate le allucinazioni, culminate all’episodio della torre orologiaia.
E lì, Lily 1975 gli aveva parlato da pari a pari. Vagando tra reminescenze -come il vaneggiare su una festa di Lumacorno- e cose che la vera Lily -Severus ci sperava, ingenuamente-, non gli avrebbe mai detto. E da quando era accaduto, i ricordi del Pensatoio erano schizzati avanti nel tempo immobile ed eterno in cui vivevano. Al quinto anno.
Severus ricordò con amarezza quello più nitido nella sua memoria; il giorno in cui Lily era rimasta per ore, vestita in modo assurdo, ad aspettare l’arrivo di Black.. Senza sospettare di essere vegliata dal suo iperprotettivo amico d‘infanzia.
Piton battè le sue mani giallastre. Se fosse stato un uomo normale si sarebbe azzardato ad urlare un Eureka!
Aveva trovato la coincidenza delle coincidenze. Quel ricordo non era forse capitato proprio dove, nel presente, sarebbe apparsa l’allucinazione? Un’allucinazione corporea oltretutto... Severus chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Con tutto quel lavorio di meningi era in preda al mal di testa e alla frustrazione. Perché non riusciva a trovare un nesso convincente? Perché, si ricordò, c’erano altri dilemmi insoluti che si agitavano sul confine tra certezza e follia che gli impedivano di vedere il quadro completo.
La Lily comparsa a Pozioni era più simile a quella dell’Orologio o a quella muta, che si era proiettata su Luna Lovegood e che lui aveva per sbaglio abbracciato?
C’era la possibilità di parlare ancora con Lily? La vera Lily?
E quei  momenti in cui il suo cervello s’inceppava, definizione orribile per un’intellettuale come lui, avevano a che fare con il Pensatoio o era il proverbiale stress dell’essere insegnanti, acuito dal fatto che lui, oltre a insegnare, fosse anche una spia con triple coperture?
E, infine, perché il ricordo del mare di nebbia l’aveva sconvolto a quel punto, ora che si era fermato a rifletterci sopra?
La risposta a questo è infinitamente semplice, amico mio, suggerì una voce melliflua dentro di lui. Una voce conosciuta che un tempo, oltre a quella di Lily, era stata l’unica ascoltata, prima ancora di quella dell‘Oscuro Lord..
Sei un essere spregevole, Severus Piton. Brami e concupisci, ma non fai nulla per ottenere ciò che desideri. Nulla per rendere le cose più semplici..
E poi era la sua voce a rispondere, ridotta a un ringhio basso. Allora dillo, dimmelo! Cosa devo fare?
Comincia a lottare, rispondeva la voce, ma non al suo gioco perchè non ne sei in grado. Usa l’astuzia, scendi al compromesso e soprattutto, non essere debole.
Nella mente di Severus Piton, comparve un immagine, un frammento.
Un filo d’argento, perlaceo.. Si tendeva e si attorcigliava, all’estremità di una bacchetta. Saliva in volute, scendeva in gocce simili ad acqua. Severus Piton, seduto davanti alla finestra, ricordò. Avvertiva un lancinante dolore al petto, la gola riarsa. Il dolore dell’anima diventava fisico. Le mani tremanti.
Sapeva perché quel ricordo faceva più male degli altri e perché lo sconvolgeva.
Era stato il primo che aveva rubato.
E  l’aveva fatto senza rimorsi, proprio come Malfoy gli aveva spiegato.             

                                                                                                                                       ***

Arabella Figg cominciò la sua giornata con stracci al braccio e detersivi vari sottomano, radunati in una cesta colorata, fornita di rotelle, con cui li trascinava in giro per casa.
Aveva alzato i termosifoni e il riscaldamento al massimo e, contemporaneamente, aveva fatto partire un cronometro per non dimenticarsi di riabbassarli ad una temperatura accettabile. Una volta aveva fatto l’errore di tenerli accesi troppo a lungo ed aveva avuto un poco piacevole incontro con il Babbano responsabile del gas.
A volte, se lo sognava ancora la notte.
Camminando a piccoli passi con le sue ciabatte infeltrite, raggiunse la cucina, il carrellino dei detersivi subito dietro di lei, traballante. Decise di cominciare dalle piastrelle dietro il lavandino, con quei girasoli dai colori brillanti che la rendevano così accogliente, coperti da una leggera patina d‘unto.
Arabella si voltò verso il carrellino, studiando attentamente i tappi e i dosatori a spruzzo dei vari prodotti.  Sarebbe stato più indicato un Lucida-Facile per superfici lisce e inalterabili o uno Sgrassasubito all’aroma di lavanda? Entrambe le confezioni erano incredibilmente accattivanti..
La donna rimase bloccata per un po’, le narici dilatate ad annusare il profumo migliore. Sarebbe rimasta lì ancora a lungo, se un fracasso alla porta d’ingresso non l’avesse riscossa dal torpore contemplativo in cui era precipitata.
Il batacchio stava ancora sbattendo, a giudicare dallo scossone che aveva ricevuto. Arabella afferrò entrambi i detersivi e posizionò gli indici sui grilletti degli spruzzatori, dopo aver regolato le modalità di erogazione di entrambi da ‘Schiuma’ a ‘Spruzzo’.
Era una Maganò, ma anche se quello all’ingresso fosse stato Tu-Sai-Chi in persona, lei gli avrebbe sgrassato eroicamente la faccia .
Si trascinò con le ciabatte infeltrite fino al tinello, la schiena curva, mentre camminava rasente i muri. Oltre i vetri smerigliati, una sagoma tozza e scomposta che non aveva nulla di umano, attendeva.
Un piccolo Troll a Little Whinging, proprio lì, a Privet Drive?
Arabella fece due più due. Probabilmente l’avevano mandato a cercare Harry Potter. E quello doveva davvero essere un Troll più stupido del normale, perché:  
a) Harry Potter era a Hogwarts.
b) Il mini-Troll aveva sbagliato numero civico.
c) Aveva messo i suoi sudici piedi sullo zerbino di Arabella Figg.
Arabella sbuffò impercettibilmente. Avrebbe voluto tornare indietro e sostituire gli spruzzatori con un arma più consistente, un aspirapolvere magari, ma non c’era tempo.
Era invece tempo di un’azione eroica.
Scivolò rapida di fronte alla porta, allungando una delle mani armate verso il pomello e cominciò a ruotarlo lentamente. Con un clic! Sommesso, la porta si aprì..

Quella mattina, il postino addetto alla periferia Sud di Little Whinging assistette a una scena curiosa. Fermò il camioncino davanti al numero undici, imbucò la lettera nella buca di Mr. Marrowe e camminò rapido sul marciapiede, la testa ondeggiante al ritmo della musica sparata nelle cuffie dal walkman. Si fermò quando vide lo scempio in una delle aiuole della signora Buster. A quanto pareva, un ignoto vandalo aveva malamente sradicato alcune delle sue orchidee e un paio di girasoli, per non parlare delle manciate di gelsomino e passiflora che qualcuno aveva strappato a manciate. Era un vero peccato, non solo perché quei fiori erano in sé belli, ma anche per la fatica che miss Buster faceva a mantenerli vivi anche nel cuore dell’autunno tra concimi speciali e lampade-calorifero.
Il postino vide le orme nette che vecchie scarpe avevano lasciato nelle aiuole, le stesse che proseguivano poi su per il marciapiede. Incuriosito, le seguì.
Non ci volle molto a individuare il colpevole. Se ne stava bello bello sul pianerottolo d’ingresso alla casa della vecchia signorina Figg, quella vecchia gattara svitata. Il losco figuro, teneva i fiori martoriati disposti a formare un bouquet che avrebbe tormentato e disilluso il più incapace dei fioristi nascosti dietro alla schiena. Le tracce di terra portavano dritto dritto alle sue scarpe incrostate.
Il postino, forte del suo senso civico, si era quasi deciso ad andare da quel sudicio ometto, la cui figura emanava cattivo odore al sol guardarla da venti metri di distanza, a chiedere spiegazioni, quando la porta di vetro e vernice smeraldo della vecchia Figg si aprì. La scena dopo fu assai confusa, tanto da far inorridire il postino, invogliandolo a nascondersi dietro uno degli arbusti a lato del selciato.
Dalla porta era emersa la signora Figg, in tutta la sua vegliarda stramberia. L’anziana non perse tempo in convenevoli. Cominciò a spruzzare qualcosa da dei flaconi colorati negli occhi dell‘ometto sudicio, i capelli sfuggenti dalla retina rosa che li teneva in ordine in testa. L’uomo, colto di sorpresa, cadde sulla schiena schiacciando i fiori rubati tenendosi le mani sugli occhi e gemendo disperato. La Figg continuò ad aggredirlo almeno finché non urlò -Maledetto Fletcher!- l’uomo abbassò le mani dal viso, e smise di contorcersi, dando una nuova opportunità alla donna di aggredirlo con i suoi flaconi, urlando stridula.
Il postino rimase ancora un po’ a osservare quella scena allibito, dopodiché raccolse la sua borsa e se ne tornò rapido alla camionetta. Forse, quel per giorno, avrebbe evitato di fare il giro stradale più corto.

“Figgy, smettila sono io!” ululò Mundungus, capovolto sulla schiena come una tartaruga ubriaca. Non che le tartarughe fossero delle alcolizzate, ma il puzzo di alcolici che usciva dalla nefanda bocca di Fletcher suggerisce questa metafora.
“Figgy, abbi pietà, sono io, Mundungus!” rincarò l’uomo. “Proprio perché sei tu faccio così, Fletcher, maledetto!” replicò la Maganò. Spruzzò ancore qualche bella dose di sgrassante alla lavanda nella sudicia bocca di Fletcher, incurante delle sue grida di dolore. Dolore che fu così forte - Dung aveva appena perso quasi mezza dentatura, dopotutto- che l’uomo si rialzò, gli occhi rossi e acquosi per il mix di detersivi e caricò Arabella a testa bassa. Finirono entrambi nel tinello urlando, lasciando la porta quasi spalancata.
“Harry Potter, Mundungus, maledetto!” Dung cercò senza successo di ripararsi dalla gragnola di colpi che Arabella riversava sul suo capo bisunto, attendendo che si calmasse. Quando i colpi rallentarono, provò a parlare. “Argh! Figgy, sono stato aggredito!”
“E chi se ne frega?” Stump! “Avrebbero dovuto aggredirti più seriamente! Almeno ora non saresti qui!”
Il flacone del lucidante lo colpì sullo zigomo, “Fetente di un Fletcher!”
Passarono altri dieci minuti di colluttazione, che si conclusero solo quando Arabella vide le macchie di terra umida sul tappeto d’ingresso. Assestò un ultimo deciso scappellotto sulla crapa di Dung, prima di mormorare con la voce intrisa di dispiacere: “Il mio bel tappeto..”
“Su, su..” Mundungus sfilò la sua bacchetta dalla manica, mormorò un incantesimo e le macchie di terra sparirono.  O almeno, la terra sparì, lasciando aloni umidi e poco invitanti sul tappeto. Arabella strinse gli occhi e storse il naso, in preda ad una furia gelida. “E poi sono io la Maganò..”
“Scusa scusa” borbottò Dung alzando le mani più per proteggersi che per scusarsi, “Però conosco un tipo che.. “
“Oh, Fletcher. Certo che conosci un tipo. Magari lo stesso che ha fatto quella cosa alla tua faccia” sibilò la signora Figg, ciabattando verso la cucina con piglio altero.
“Allora te ne sei accorta?” ribattè Dung meravigliato, seguendola e sedendosi al tavolo coperto da una tovaglia incerata dai colori autunnali con un motivo a castagne.
“Certo. E fagli i miei complimenti. Ora sei ufficialmente l’essere più ripugnante del Sud e del Nord della Gran Bretagna.”
Dung, invece di sentirsi offeso replicò, sornione: “Perché, prima no?”
“Oh, prima non avevi ancora battuto Nessie. Povera creatura, meglio lei in casa mia che te, puzzone!” Arabella riafferrò degli stracci dal suo carrello e cominciò a pulire le piastrelle con i girasoli, cercando di ignorare la puzzolente presenza di Dung alle sue spalle. Cosa non facile dato il fetore che lo circondava come un mistico alone. “Si può sapere dove sei stato?”
“Beh.. Un po’ dappertutto.. Qui.. Là.. La vita dell’intrepido oltre la barricata. Top secret.”
Arabella si girò, lanciò un occhiata al viso martoriato di Dung e alla depressione che gli deturpava il brutto muso, dove un tempo avrebbero dovuto starci dei denti.
“Già, immagino.”
“E dai, Figgy Fi, non fare l’indisponente” mugugnò Mundungus affranto. Arabella lo ignorò, ma cominciò a sfregare le piastrelle con più energia, finché un mugolio non la scosse.
Si voltò di nuovo e vide che Little Chopra, la gatta che aveva recuperato in un cassonetto due settimane prima, era entrata in cucina, diretta verso Mundungus. Ora era lì a strusciarsi contro di lui e il suo pastrano, adagiandosi sul suo grembo e facendo fusa così fastidiose e rumorose che impedirono ad Arabella di ricominciare a pulire. Sospirò, ripose il kit casalingo nel carrello e sì sedette al tavolo di fronte a Dung, intento ad accarezzare il gatto e a ridacchiare.
“Ehi, gli piaccio!”
Arabella strinse le guance. “Solo perché puzzi di pesce marcio, signore degli unti.”
“Ah-a. Arabella per quanto ti dovrò domandare scusa? Avevo un aff..”
La signora Figg si protese verso di lui, il viso fossilizzato in un’espressione furiosa.
“Non ci provare, Mundungus, non ti azzardare a campare scuse!”, sibilò.
“Pace sorella!” ribattè Dung, sollevando le mani in un gesto di resa.
“Non sono tua sorella, grazie al cielo. Se lo fossi dovrei avere degli orribili baffi rossicci probabilmente.”
“Ma io non ho i baffi.”
“Non hai nemmeno una sorella, ma sei orribile lo stesso.”
“Ma se avessi una sorella baffuta, sarei meno orribile?”
“Ti ci vorrebbe ben più di una sorella baffuta per sembrare anche solo lontanamente simpatico, sai?”
“Ehi, dai, Figgy, scusami per il tappeto. E per Potter. E poi non è vero che sono antipatico, cioè, Sirius..”
“Oh, certo” Arabella alzò gli occhi al cielo. “Ovvio che quel caro ragazzo, cominci a trovarti simpatico dopo tutti questi mesi in cui se ne sta rinchiuso a  Londra.”
“Divertente”, borbottò Dung, colpito nel segno. Maledetta Arabella, era più acida di un pompelmo avvizzito.  I gambaletti color carne, il vestito sbiadito e la retina ingannavano, facendola  passare per un’un anziana Babbana matta, la cui unica gioia era catalogare i gatti che recuperava qua e là, ma in realtà, era fatta di tutt’altra pasta. Anche se un po’ matta lo era davvero.
Una Maganò con gli attributi, ecco cosa, ma evitò di dirglielo. Non voleva renderla troppo orgogliosa.
“Avresti dei vestiti da prestarmi?”
“Oh, Mundungus” Arabella roteò gli occhi, smettendo di fissare il cielo biancastro fuori dalla finestra e puntandoli sul sudicio dell’uomo davanti a lei. “Hai di nuovo ripreso a vestirti da donna?”
“No, per l’amor di Merlino, no!”
“Ti hanno cacciato da un altro pub?”
“No! Solo... Devo andare al San Mungo a farmi riattaccare qualche incisivo.”
Arabella si alzò e cominciò a trafficare con la teiera, borbottando distintamente: ‘A farsi riattaccare mezza mandibola, altro che due incisivi’.
“Ti ho sentito..” borbottò Dung in risposta, con un sorriso affaticato. Sentiva ancora il gusto del sangue. Rimasero per un po’ zitti, mentre l’acqua messa a bollire cominciava a gorgogliare e le fusa del gatto si facevano sempre più rilassate.
Arabella attese che il fischio del bollitore rompesse la quiete, prima di domandare:
“Perché proprio i miei vestiti? Non potevi andare a Diagon Alley a ramazzarli da qualche parte, vecchio balordo?”
“Ma dai Figgy, perché sbattermi in giro a cercare, quando abbiamo la stessa taglia!”
Arabella smise di versare il the fumante e lo fulminò con lo sguardo, “Mi stai dando della nanerottola sovrappeso?”
Mundungus sfoggiò appena in tempo la sua miglior espressione sincera. Fu quasi credibile con la faccia violacea, gialla e rossastra.
“Ma Figgy, no! Tu sei meravigliosa! I tuoi calzini sono...”
“Oh, ti prego. Risparmiami i tuoi tentativi di.. Qualunque cosa siano.”
Mundungus non se lo fece ripetere due volte, ma scattò in piedi, lasciando scivolare giù il gatto con un miagolio acuto. Arabella strabuzzò gli occhi, indispettita. Si preparò a lanciargli il the bollente addosso, ma Dung si affrettò a dire:
“Sono in missione per Silente.”
Arabella cominciò a prendere la mira.
“Te lo giuro, Figgy Fuggy!”
La Maganò si preparò a lanciare, chiudendo un occhio e aguzzando l’altro. Dung cominciò a spostarsi da destra a sinistra, sempre tenendo il tavolo a frapporsi tra lui e Arabella. “Devo recuperargli una cosa, in fretta. Sai com’è fatto Albus, tutto strano, tutto sulle sue. Vuole sempre che facciamo tutto senza sapere perché.. Sai, il gioco dei bravi soldatini che difendono il bene.. Sorveglia quello, schianta quello, spia quell’altro, trova il mistico..”
“Il mistico Accendisigari del mago di Buddemore..” suggerì una voce gentile .
“Sì, vero, cose così.” Mundungus si risedette al tavolo, convinto che fosse stata la Maganò. Non si rese conto che Arabella aveva abbassato la teiera e dell’espressione confusa che le risaltava sul viso.
“Albus?”
Mundungus recuperò il gatto sotto al tavolo, mugugnando: “Si Figgy, te l’ho detto. Il grand’uomo mi ha mandato in missione. Molto pericolo. Top secret.”
“Vero, lo confermo” continuò la voce melodiosa alle spalle di Dung. E allora, toccò a lui sorprendersi. Si voltò, trovandosi faccia a faccia con il vetusto Preside di Hogwarts, in tutto il suo aureo fascino. Dung quasi si strozzò con l’aria che stava respirando.
Diversamente dal solito, Albus Silente non indossava una delle sue vellutate e pacchiane vesti con cappelli coordinati. Sembrava più un Babbano eccentrico, con un lungo cappotto nero dagli ampi risvolti e dai bottoni dorati, che attirarono l’occhio rapace di Mundungus come calamite.
“Sfortunatamente per te sono di bronzo, amico mio” disse cordialmente il vecchio mago, intercettando lo sguardo dell’altro. “Mi concedi una sedia, Arabella?”
“S-sì, Albus.” La vecchia Maganò lo osservò a lungo.
Non era intimorita da Silente, non lo era mai stata. Per lei era solo un caro amico, eppure, il fatto di esserselo ritrovato in casa, così, d’un tratto, aveva dell’incredibile. E non doveva nemmeno essere passato per chiedere di Harry Potter, perché Harry Potter era a Hogwarts... Sempre che...
“Albus, come sta Harry?” domandò con un po’ di allarme nella voce.
Silente non nascose un sorriso compiaciuto che non si estese agli occhi. L’azzurro delle iridi rimase adombrato da qualcosa a cui Arabella non sapeva dare un nome, ma quando parlò, lo fece con la solita cordialità. “Magnificamente, da quello che so. A quanto pare l‘arrivo della signorina Dolores Umbridge ha fornito una scossa di intraprendenza a lui e hai suoi amici. Spero solo che non cominci a girare troppo per i pub dal nome poco elegante, vero Mundunguns?”
“Altrochè...” borbottò Dung in risposta. “Comunque Al, non chiedermi più di spiarlo alla Testa. Vabbè il travestimento, ma stare così vicino ad Aberforth mi ha fatto venire una strizza..”
“Su, su..” Albus allargò le braccia e invitò il gatto che lo osservava da terra, a salirgli in grembo, cosa che il felino fece con piacere. Dung lo guardò e gli lanciò un occhiata offesa.
Arabella intanto, continuò a cercare una tazza in più, possibilmente non sbeccata, con cui servire il the ad Albus.
“Scusami se sono entrato senza annunciarmi. Ma a quanto pare eravate in preda  a una conversazione animata. Ho interrotto qualcosa?"
“No!” dissero Dung e Arabella in coro.
“Comprendo”, replicò Silente in tono cordiale.
“Mundungus vuole vestirsi da donna” sbottò Arabella, sbattendo con violenza tazze e piattini sul tavolo.
“Di nuovo.”
“Non mi pare ci sia un gran problema!” esclamò gioioso Albus. “Ho trovato un bel modello a maglia, proprio adatto al tuo fisico!” All’improvviso però si fece serio:
“Se non fossi così impegnato a convincere il Ministero del ritorno di Voldemort, te lo farei io stesso.”
Dung e Arabella avevano la stessa identica espressione basita, non tanto per l’aver sentito udire il nome di Voldemort, ma per l’apparente noncuranza con cui Albus aveva parlato.
“Su, su...” riprese il vecchio mago. “Non volevo turbarvi così. Sapete, è brutto affrontare le cose solo con serietà. Voldemort ha già fatto abbastanza danni, ma se gli permettiamo anche di levarci il senso dell’umorismo, abbiamo perso in partenza.”
Le mascelle cadute dei due tornarono al loro posto, rimanendo, tuttavia, per nulla convinti.
Arabella servì il the, e si sedette al tavolo, passando le zollette di zucchero ai due.
“ Allora Albus”, attaccò Dung, tra un sorso rumoroso e l’altro. “Che ci fai qui? Sei venuto a trovare me, Figgy o a quegli svitati Babbani a cui hai affidato Potter?”
Albus posò con grazia la tazzina sulla tovaglia incerata, senza versarne una goccia, poi ricominciò ad accarezzare il gatto sulla testolina, con le lunghe dita arcuate. La bestiola socchiuse le palpebre, ronfando a tutto volume.
“Nessuno di voi in effetti. E nemmeno i parenti di Harry.” Alla parola parenti le pupille si restrinsero un poco.
“E allora?” sbottò Mundungus “Dicci, dicci..! Sei vestito come un dannato damerino londinese o come un Jrog svedese.. Punti di vista.. Ma.. Che combini?”
“Fletcher sii educato!” lo ammonì Arabella con il suo miglior tono da zitella acida.
Silente si accarezzò la lunga barba dondolando il capo.
“Amici miei, non voglio infastidirvi con la burocrazia. Vi prego. Ero di passaggio a Londra e ho pensato di venire a fare un saluto ad Arabella. E che fortuita coincidenza trovarti qui, Mundungus!”
Fortuita?” borbottò Mundungus con voce catarrosa, per nulla convinto.
Silente lo ignorò, preferendo dedicare la sua attenzione a cercare qualcosa nelle tasche del cappotto. Per avere maggior mobilità, fece levitare il gatto a mezz’aria. La bestiola non si accorse di nulla, nemmeno quando ridiscese dopo che Silente ebbe recuperato ciò che cercava.
“La mia pipa!” ululò Dung entusiasta.
“La tua pipa Puzzona, vorrai dire” disse Arabella allarmata, “Albus, non potevi dargliela dopo?”
“Tranquilla, mia cara. Mundungus, sii gentile, aspetta di essere uscito prima di fumare.”
Mundungus si cavò la pipa di bocca con espressione desolata, spegnendo la punta della bacchetta sul pastrano. “Dov’hai detto che stava?”
“Non l’ho detto”, disse Silente. “Comunque era nel mio ufficio. Dev’esserti caduta senza che tu te ne sia accorto. Fortuna vuole che io stesso, mi occupi della pulizia del mio studio.. Non voglio immaginare cosa sarebbe accaduto se l’avesse rintracciata un elfo domestico.”
“Sarebbe stato un elfo felice, fidati”, rispose Dung, osservando la vecchia pipa, con una smorfia paterna negli occhi iniettati di sangue.
“Non lo sapremo mai” replicò Silente in tono amabile, “Tuttavia, il tempo è tiranno, soprattutto per me che ho la vescica saltellante. Devo ripartire, amici. Mundungus, è sempre un piacere. Arabella, il tuo the è sempre ottimo.”
“Figurati Albus” rispose la Maganò, sfilandosi la retina dai capelli e osservandolo. “Se è per il bagno..”
“Tranquilla, posso resistere per una materializzazione!” Silente si alzò, il gatto tra le braccia lunghe, fasciate dalla maniche nere.
“Porto fuori questo giovanotto, avrà bisogno di sgranchirsi le gambe!”
“Certo, certo...” annuì Arabella, seguendolo nel tinello. Albus aveva appena posato la mano sul pomello, quando Dung fece capolino dallo stipite del vano della cucina.
“Albus, non sei venuto qui per controllarmi, vero?”
L’alto mago lo osservò, una luce divertita negli occhi azzurri. Incurante dello sguardo curioso di Arabella, si limitò a dire: “Perché dovrei? Mi fido di te, Mundungus.”
Il mago basso e tarchiato annuì lentamente, la pipa spenta di nuovo in bocca.
“Allora, n’derci Albus. A presto.”
“A presto. Ciao, Arabella” si chinò e le diede un bacio sulla guancia, più per cortesia che per altro. Oltrepassò la porta e si diresse verso un angolo nascosto del piccolo giardino, dove posò il gatto. La signora Figg, seguendolo fuori sul prato con le ciabattine di feltro, gli domandò un ultimo favore.
“Albus, Harry Potter! Porta i miei saluti a Harry Potter!”
Il viso cordiale di Silente si adombrò, ma non rispose. Volteggiò tre volte su sé stesso e sparì con uno schiocco deciso.

Arabella tornò in casa, e recuperò un vecchio scialle consunto dall’appendiabiti. Se lo avvolse sulle spalle e tornò in cucina, dove l’accolse un distinto odore di calzini bruciati.
“Fletcher!” strillò.
Mundungus spalancò gli occhi, mentre nuvolette di fumo color indaco uscivano con inusitata rapidità dal fornello della pipa. Arabella si lanciò contro di lui e prima che Dung potesse fermarla, la donna gli sferrò una sberla decisa che gli fece schizzare via la pipa dal labbro pendulo. La pipa sfrecciò verso il frigo, lo colpì con decisione e una gragnola di pezzi e piccoli oggetti si sparpagliò sul pavimento.
“L’hai rotta, me l’hai rotta!” si lagnò Dung, pestando i piedi.
“Sciocchezze, è..“, disse Arabella raccogliendo la pipa da terra e mostrandola a Mundungus. La donna aveva ragione, nemmeno un graffio. L‘unico difetto era la puzza che la circondava.
“Intera! Ma allora..”
Sia Arabella che Mundungus si chinarono sul pavimento, raccogliendo quelli che al principio avevano creduto frammenti.
“Perle?” mormorò Dung, sospettoso.
“Denti?”mormorò Arabella, schifata.
Il ladruncolo si girò verso l’anziana donna, le sopracciglia sollevate per la sorpresa, fin quasi all’attaccatura dei capelli.
L’uomo si abbassò sul pavimento, raccogliendo i frammenti nel pugno chiuso. Quando ebbe finito, si guardò nel palmo.
Erano proprio i suoi denti, i suoi dieci denti perduti, carie e protesi d’oro comprese. Sulla sua brutta faccia si allargò un sorriso goliardico. Pazzo, pazzo Albus!
Cosa non faceva, pur di obbligarlo a portare avanti la missione che gli aveva affidato. Mundungus era combattuto tra l’esasperazione e qualcosa che somigliava ad una vaga sensazione di contentezza. Alla fine, si decise. Avrebbe fatto ciò che Albus gli aveva chiesto, con tutto se stesso. Dieci denti valgon bene un furto, no? Sempre che si dovesse arrivare a quello.
Dung afferrò  la bacchetta, stringendo denti e protesi nel pugno. Non gli sarebbe costato nulla riattaccarseli da solo. Non era la prima volta che qualche bastardo glieli faceva schizzare via.
Niente San Mungo, niente vestiti da donna per Dung, quel giorno!
Ci mise meno di dieci minuti, sotto lo sguardo scioccato e apprensivo di Arabella. Quando ebbe ultimato il lavoro, le domandò: “Ehi, Figgy, mi prepari un po’ di minestra di cavolo take-away? Dovrei fare un viaggetto…”
Per tutta risposta, Arabella Figg si avvicinò al carrellino dei detersivi.

Halò!
Ecco a voi il primo dei nuovi capitoli del Dono!
Allora, cercherò di lavorare più celermente per rispettare la cadenza di un giorno =)
Come sempre, infinite grazie a chi mi segue e a chi mi scrive.
A presto,
Exelle.
  
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