Il sole inondava con gli ultimi raggi la valle, che
dalle falde dei monti si estendeva all’ infinito verso occidente. Le vette delle
montagne, ancora innevate all’inizio della primavera, brillavano di rosa lucido
contro il blu pallido del cielo. Profondi passaggi scavati nella nuda roccia
tagliavano le catene di monti creando un labirinto di gole, passi e burroni dove
nulla viveva se non un profondo silenzio interrotto solo dall’incessante soffio
del vento. Una figura solitaria ed esile emerse dall’intrico di roccia e la sua
ombra si allungò lungo il versante della montagna quando il sole la illuminò. Si
fermò alcuni secondi, ammirando un paesaggio che per la prima volta da giorni
non era la nuda ossatura della terra. Ogni albero, pianta o fiore davanti a lui
era tinto di rosso sanguigno. Sembrava quasi che la terra versasse lacrime di
sangue al suo arrivo. Un brivido lo percorse a quel pensiero e per scrollarsi di
dosso l’ansia si inoltrò nel rosso della prateria, lasciandosi alle spalle le
montagne. Quando il sole scomparve oltre l’orizzonte e l’oscurità della notte lo
sorprese durante il cammino, lasciò che la pallida luce della luna e delle
stelle lo guidasse. Si fermò sotto le fronde scure di un vecchio albero nodoso,
che si stagliava su una piccola collina sperduta nella pianura aperta. L’erba,
piegata da folate lente e continue
di vento, assomigliava al frangersi continuo delle onde del mare sulla spiaggia.
Raccolse alcuni rami e foglie secchi e accese un piccolo fuoco, per potersi
riscaldare nella fresca aria notturna. Seduto attorno al fuoco si liberò della
sua sacca e si abbassò il cappuccio del mantello che fino ad allora aveva tenuto
sul capo. Il calore del fuoco gli riscaldò le membra e la luce viva ne rivelò i
lineamenti. Era un uomo. La corta e rada barba ne testimoniava la giovane età. I
capelli, d’oro, con striature bianche, erano lunghi, e terminavano in una lunga
coda raccolta. Gli occhi erano di un colore indefinito. Variava come lo
sfavillare delle lingue di fuoco che fissavano, cambiando da un azzurro chiaro a
nero profondo. E rispecchiavano un animo inquieto. Rivelavano una natura
selvaggia, un’anima placida e mite, che se stimolato poteva mutare bruscamente
in violenta e passionale. Il ragazzo si avvolse meglio nel mantello e si
accomodò tra le radici dell’albero, osservando con attenzione la valle oltre lo
sfavillare del fuoco. Avrebbe vegliato fino a poco prima del sorgere del sole,
per poi rimettersi in cammino. Preferiva riposare alla luce del giorno, che
tante creature temevano e paventavano. Era inevitabile adottare tali cautele in quei tempi malvagi. Anche
quelle contrade, che conducevano alle città degli Uomini, adesso non erano più
sicure. Vegliò per quelle che a lui sembrarono ore interminabili, osservando le
stelle nel cielo limpido e ravvivando di tanto in tanto la fiamma con qualche
sterpaglia. Quando l’alba era ormai vicina e il torpore della stanchezza lo
assopiva, colse un movimento alcuni metri davanti a lui. Si alzò di scatto in
piedi, portando la mano destra ad afferrare qualcosa appeso alla cinta. Aguzzò
gli occhi e tentò di individuare di nuovo ciò che aveva visto. Oltre alla vista
acuta, poteva contare anche su un udito molto fine: due qualità che potevano
spesso salvare la vita. La
individuò quasi subito: una figura incappucciata, avvolta in un manto, che
recava incisi strani simboli brillanti. Il viandante si fermò a pochi metri,
guardando nella direzione del ragazzo, come avendo capito di essere stato visto,
poi si avvicinò lentamente al focolare. L’umano mise mano all’elsa della spada
che gli pendeva dal fianco, rilucente di rosso e lingue di fuoco.
L’incappucciato si fermò e disse con calma, quasi incurante della presenza
dell’umano.
“Sono un atelos. Il mio nome è Ràikas ”. Detto questo si
fece avanti, mostrando il viso e le mani levate, in segno di
resa.
Il ragazzo costatò che, in effetti, era davvero un
atelos e della razza aurorea. Il viso chiaro, dagli occhi nivei, incorniciato da
una folta chioma bianca e gli occhi penetranti e sottili erano una prova più che
sufficiente. Ma ciò che catturò lo sguardo del ragazzo erano dei segni bianchi,
lame aguzze luminose, dipinte ai lati del viso come fulmini sfavillanti nel
cielo notturno. Inoltre quel nome, Ràikas, sembrava riportargli alla mente
qualcosa che gli sfuggiva.
“Sono un viandante… ” Cominciò il viaggiatore, ma il
ragazzo gli tagliò le parole in bocca, interrompendolo con tono
brusco:
“Qui ci sono solo io. Cosa vuoi?” Rispose il
ragazzo.
“Posso fermarmi qui?” Gli chiese semplicemente l’atelos,
notando il carattere scontroso dell’umano. Il ragazzo sembrò pensarci per alcuni
secondi, poi rispose, con fare più calmo:
“Fa come credi, ma se solo provi a fare qualcosa di
strano… – l’auroreo rimase impassibile a queste parole senza prestare troppa
attenzione al tono minaccioso che lasciavano intendere.
“Non ne è ho mai avuto intenzione” Concluse con
noncuranza sedendosi davanti al fuoco. Il ragazzo si sedette nuovamente con la
schiena appoggiata al vecchio albero, senza mai distogliere lo sguardo
dall’estraneo. Non sapeva quali fossero le sue reali intenzioni, ma sapeva che
gli aurorei erano di indole buona. Passò del tempo e non distolse mai lo sguardo
dall’altro. Questi dopo un po’ sembrava essersi addormentato, rimanendo
immobile, seduto, anche se il ragazzo non ne era sicuro. Gli aelta, infatti, non
avevano bisogno tanto del riposo della mente, quanto di quello del corpo. Come
divinità dal cuore umano, lasciavano che il sonno ridesse forza alle loro
membra, mentre la loro mente rimaneva lucida e vigile.
Quando finalmente giunse l’alba, vinto dalla stanchezza,
il ragazzo chiuse gli occhi, quasi senza accorgersene. In pochi attimi
l’oscurità lo avvolse e si addormentò profondamente.
Aprì gli occhi, ma non si svegliò. Stava sognando, non
avvertiva nulla, il suo corpo era spento ed era immobile ad osservare la visione
che aveva davanti. Si trovava nel suo villaggio natio. Era una notte buia e
senza luce. Nubi cupe e tuoni fragorosi turbavano il sonno del paese. La piazza
centrale del villaggio, piatta e vuota, circondata da piccole abitazioni di
legno e paglia, era deserta. Improvvisamente un rombo fragoroso squarciò la
notte e un bagliore ad Ovest lacerò
le tenebre. Passarono pochi secondi in cui il silenzio fu assoluto, anche lo
scorrere del tempo sembrava essersi fermato. Poi ci fu un lampo, improvviso e
violento si abbatté con fragore sul centro della piazza. Il ragazzo chiuse gli
occhi, accecato dalla luce, così improvvisa e vicina. Il boato violento ruppe
vetri e finestre e per un attimo la terra fremette. Il bagliore rosso durò pochi
istanti, per poi dissolversi. Quando aprì gli occhi rimase sconcertato: nel
punto dove si era abbattuto il fulmine
ora giaceva un piccolo fagotto avvolto in fasce
nere.
Rimase fermo, interdetto e stupito da quel
prodigio.
La porta della casa di fronte a lui si aprì, lenta. Un
uomo si stagliò sulla soglia della sua abitazione con una lucerna in mano,
gettando luce sul luogo immerso nell’oscurità . Altri abitanti imitarono il
primo e ben presto molte altre porte si aprirono e numerose persone si
affacciarono dagli usci delle loro case. Nessuno osava però avvicinarsi al
misterioso involucro, che rimaneva immobile al centro della piazza. Alcune gocce
bagnarono il terreno e ben presto una leggera pioggia iniziò a cadere sul
villaggio. Dei tenui vagiti e il pianto di un bambino ruppero il silenzio. Al
centro della piazza c’era dunque un neonato avvolto nelle fasce scure.
Un’anziana donna si mosse dal cerchio degli abitanti esitanti, l’unica che
avesse il coraggio di avvicinarsi, quasi la pioggia fresca l’avesse liberata
dalla paura che ancora bloccava tutti. Il ragazzo la riconobbe. Era la sua madre
adottiva. Si avvicinò con passo lento al fagotto e lo raccolse con esitazione e
lentezza dal suolo, tenendolo con delicatezza fra le braccia, calmandone il
pianto. Il ragazzo si avvicinò senza volerlo alla donna, quasi fosse qualcun
altro a voler vedere tramite lui la creatura che teneva in grembo. Per pochi
istanti poté osservare il bambino. Il piccolo viso addormentato e delicato
pareva quello di un bambino qualunque, uno come tanti. Eppure il ragazzo
avvertiva una terribile consapevolezza: quelle scene accadute venti anni prima
riguardavano lui, quel trovatello in fasce nato dalla folgore era lui. E la
verità gli appariva davanti agli occhi solo ora. Tutto intorno a lui si dissolse
come nebbia al sole, lasciandolo solo con i suoi dubbi. D’improvviso il sogno
era ricominciato e in un vortice di immagini e colori passavano davanti a lui
scene spezzate di tutta la sua vita. Sembrava che qualcuno stesse scrutando nel
suo passato. Vide la madre che raccontava al giovane di allora come l’aveva
trovato sull’uscio di casa, abbandonato. Menzogne, se ciò che aveva visto era
vivo.
Visse nuovamente le emarginazioni e l’isolamento in cui
l’avevano rilegato gli abitanti del villaggio. Adesso capiva perché nessuno
aveva mai voluto stringere legami con lui. Avevano tutti paura. Era la paura che
si annidava dietro l’odio che leggeva negli occhi di chi lo aveva disprezzato
sin da piccolo. E si rivide anche quando, pochi giorni prima aveva deciso di
mettersi in viaggio per giungere a Fearin, la città dove forse avrebbe potuto
ottenere le risposte alle sue domande. Le visioni cessarono d’improvviso,
lasciando il ragazzo solo con i suoi pensieri, circondato dal
nulla.
Fu la voce di Ràikas a svegliarlo: “Forza, ragazzo,
ormai il sole è sorto da tempo. E’ ora che entrambi riprendiamo il
cammino.”
Si mise in piedi lentamente, destandosi e risvegliando
le membra intorpidite, sorpreso che l’atelos fosse ancora lì e che non se ne
fosse già andato e soprattutto ancora stordito dallo strano sogno che aveva
fatto. L’elfo sembrò non notare l’aria turbata del ragazzo e gli si rivolse con
voce indifferente: “Sei fin troppo distratto. Non solo accendi un fuoco,
rivelando così la tua presenza nel raggio di molte miglia, ma ti addormenti alla
presenza di uno sconosciuto di cui non sai nulla.”.
“Pare che non mi sia sbagliato sul tuo conto, Ràikas,
giacché sono ancora vivo.” Ribatté il ragazzo.
“Ma non lo sarai ancora per molto, nonostante la tua
vista e il tuo udito.”
Il ragazzo rimase sorpreso del particolare notato
dall’altro e si incuriosì di quel personaggio di cui conosceva, di fatto,
soltanto il nome.
“Allora mi accompagnerai per evitarmi una brutta fine?”
Chiese ironico a Ràikas.
“Sì, se sei diretto ad Ovest.”
“E’ proprio la direzione che
seguo.”
“Allora la percorreremo insieme finché le nostre strade
non si divideranno.”
Annuì. L’auroreo gli ispirava fiducia e per la prima
volta da settimane avrebbe trascorso del tempo con compagnie diverse dal vento e
da sé stesso.
Si misero subito in marcia, lasciandosi alle spalle il
vecchio albero avvizzito mentre le loro ombre li precedevano verso occidente al
crescere del sole.
…………………………………………………………………………………….
Alcune ore dopo,
intorno alle ceneri del fuoco intorno a cui i due avevano riposato, si
trovavano altre persone, se così si poteva descriverle. Erano quattro, tutti
abbassati a terra e annusavano l’aria come le belve fiutano la traccia.
Portavano lunghi stracci grigi come vestiti, forati in più punti, come se
qualcosa di appuntito e massiccio li avesse trapassati. Avevano capelli grigi,
lunghi, che lasciavano sciolti. Sarebbero potuti sembrare comuni Uomini se non
fosse stato per gli occhi. Estremamente dilatati e neri come la pece, brillavano
di una luce rossa che pareva sangue. Improvvisamente si voltarono tutti nella
direzione che l’umano e l’aelto avevano intrapreso tempo prima. Si incamminarono
rapidi nello stesso cammino, correndo agili nell’erba alta, quasi non toccassero
il suolo. La caccia era iniziata.
This Web Page Created with PageBreeze Free Website Builder