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Autore: Exelle    02/01/2011    6 recensioni
La vita di Severus Piton è monotona e solitaria.
Quella di Luna Lovegood, incomprensibilmente folle.
E se venissero raccontate nella stessa storia?
_Finalmente il capitolo sedici_
Genere: Commedia, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Lily Evans, Luna Lovegood, Severus Piton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Più contesti
Capitoli:
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Capitolo Dodici
Come polvere nella notte



Tin!
La tazza da the tintinnò seccamente contro il piattino, ma nemmeno una goccia dell’infusione rosata gocciolò sulla scrivania di cedro lucido e color caramello. Il suono si propagò nella stanza, accolto dai miagolii sornioni dei gattini nelle porcellane appese alle pareti.
Gattini con occhi molto grandi, molto azzurri e molto elettrici.
Dolores Umbridge fece un sorriso affettato ai suoi piccoli tesori. Pensò a Lord Curlington Usher III, il suo adorabile persiano, chiuso nella sua casa di Londra. Non si era fidata a portarlo a Hogwarts, un luogo dove la feccia poteva contaminarlo. Un peccato. Davvero un peccato.
L’Inquisitore ascoltò deliziata i miagolii dei felini nelle loro circonferenze di porcellana, ma quando un nuovo suono, raschiante e fastidioso, cominciò a diradarsi per la stanza, la vecchia strega assunse un espressione contrariata.
“Potresti evitare di tenere quella posizione, cara ragazza?
Luna Lovegood raddrizzò la schiena incurvata come una gobba e alzò gli occhi vacui e baluginanti dalla pergamena che stava compilando. Le lunghe ciocche biondo cenere le erano scivolate dalle spalle lungo il collo, fino a sfiorare la pergamena. Dolores Umbridge si domandò che razza di capelli fossero,  per produrre un suono simile, se sfregati contro la carta. Probabilmente, quella stupida li sciacquava con del fango.
Luna allontanò un poco le ciocche dal foglio e riprese a scrivere in silenzio, la nera piuma affilata in mano. Si era abituata subito alla punizione. Non aveva fatto scenate alla Potter, né di mera sorpresa, nel vedere il sangue che cominciava a filtrare, delineando le lettere, oltre la manica della camicetta blu. Anzi, a dir la verità, non aveva fatto niente, mentre le parole sanguigne cominciavano a marchiarle la pelle.
Io non sono normale e non sono autorizzata a fare la spia.
Una gran bella frase, perfettamente adatta alle sciocchezze che quella testolina platinava conteneva.
Dolores Umbridge contorse la sua bocca larga in un sorriso indeciso, un misto di compiacimento e delusione.
Era compiaciuta, perché era di nuovo riuscita a punire un soggetto pericoloso per il mantenimento dell’ordine. Con quei vestiti stropicciati, la collana di tappi e gli orecchini di vetro e sassi e l’infinito arsenale di cianfrusaglie che gli aveva confiscato, tra cui degli occhiali giocattolo -A quell’età, non era normale!-, Luna Lovegood era un perfetto esempio di elemento non socialmente integrabile.
Dolores Umbridge sarebbe stata più felice nel  vedersela levare di torno del tutto, ma in mancanza d’altro, si accontentava della perversa soddisfazione di infliggerle una giusta punizione.
Tuttavia, il fatto che non si fosse lamentata o ribellata, rappresentava uno smacco. Avrebbe potuto prolungare la punizione, se quella biondina sciocchina si fosse dimostrata un po’ più riottosa.
Dolores si portò nuovamente la tazza alle labbra contratte.
Aveva davanti a sé un soggetto interessante. Indifeso ed emarginato. Le labbra secche della donna, si contrassero ancora in un nuovo sorrisetto contro il bordo della tazza. Voleva prolungare i suoi tormenti, la sua punizione? Dolores era combattuta. Provava più gusto a punire ragazzini sfrontati piuttosto che apatici... Eppure, Luna Lovegood, con quell’aria schizzata e remissiva, la intrigava.
Rappresentava un tipo diverso di scarto della società. Xeno Lovegood, avrebbe dovuto mettere sua figlia come stranezza sulla prima pagina del Cavillo, altro che delle bestiacce inventate.
“Ti piacciono i gattini, Luna?” le domandò in tono lezioso. La biondina sollevò nuovamente gli occhi argentei, le iridi colme di ... nulla. Dolores le indirizzò un sorriso gentile, ma la giovane non rispose e riprese a scrivere, apparentemente sorda alla domanda dell‘Inquisitore. Si limitò a fissarla di sbieco, ogni tanto.
La manica destra intrisa di sangue scuro, come un‘ombra sulla stoffa.
Avrebbe dovuto buttarla quella camicetta, pensò deliziata Dolores. Povera Lovegood.
“Non li trovi adorabili? Scommetto che ti piacerebbe averne uno!”
Mentre parlava, la mente della strega ripercorse rapida le sue informazioni sulla ragazza. Già prima di assumere l’incarico di Insegnante-Inquisitore, aveva chiesto a Caramell di poter tracciare biografie schedate per ogni studente del castello che lei, aveva meticolosamente studiato.
Dolores Umbridge era una donna  previdente.
Conoscere il nemico da combattere, era il primo passo per distruggerlo.
Il fatto che gli elementi schedati fossero solo degli studenti, non la turbava minimamente. Il male contro la società si annidava ovunque, soprattutto dietro a delle faccette da mocciosi.
Mentre rifletteva sulle informazioni che aveva sulla strana famiglia Lovegood, Dolores Umbridge si ricordò di un importante dettaglio, qualcosa che le fece allargare il sorriso zuccheroso di un paio di molari, prima di trasformarlo in una smorfiosetta dispiaciuta. “Forse la tua mamma non vuole gatti che girano per la tua bella casetta, giusto?” sussurrò. Luna smise all’istante di scrivere.
Ora si metterà a piangere, riflettè la strega, intimamente divertita. Mi insulterà e io...
In realtà, Luna non fece nulla. Rimase immobile, le lunghe e pesanti ciocche dondolanti e la pelle pallida, nemmeno resa un po’ rosea dall’imbarazzo. Il cambiamento avvenne nelle sue iridi argentee, ma fu tanto infinitesimale che la delusa Dolores non se ne accorse e, quando Luna parlò, non riuscì a creare una facciata leziosa abbastanza in fretta.
“Mi fanno schifo i gattini” disse Luna con voce melodiosa, anche se il suo sguardo gelido suggeriva tutt’altro. Disprezzo e superiorità. Sentimenti non adatti ad una pazza instabile.
Dolores assottigliò le palpebre rugose e contrasse le dita tozze come artigli attorno alla tazzina. Senza accorgersene, ruppe il sottile manico a stelo, staccandolo di netto dalla tazzina che traballò. La rabbia l’aveva irrigidita e le impediva di lasciarlo andare.
Prego?” sussurrò.
Luna continuò a guardarla, impassibile e insondabile. Ancora una volta era lontana da quella sé stessa sognante e poco terrena. Aveva abbandonato la penna e appoggiato le braccia sul tavolo. La manica insanguinata aveva lasciato archi rossastri, là dove era stata sfregata sulla carta. Luna non ci badò.
Dolores inspirò profondamente, prima di iniziare a strillare.
“Piccola schizzata, come ti permetti? Io ti faccio una domanda gentile e tu osi rispondermi in quel modo?!”
Luna fece spallucce. Mantenne ancora il suo tono svagato, quando disse:
“La sua era una domanda. Io le ho solo risposto.”
Dolores Umbridge saltò in piedi, picchiando i pugnetti spugnosi sulla scrivania. La tazza vibrò e il manico rotto cadde sul pavimento, tintinnando e spezzandosi.
Non ci credeva. A quella squinternata erano occorsi meno di due minuti per farle perdere del tutto la calma. Una cosa che di solito non accadeva. Anzi, non accadeva mai. Dolores Umbridge era più un tipo da furia gelida, piuttosto che da strepiti...  Lei non perdeva la pazienza, mai.
Ma quella piccola, malmessa ragazzina era riuscità là dove pochi sconfinavano.
E l’avrebbe pagata cara, perché a Dolores Umbridge, non piaceva sentirsi dire quanto fossero detestabili le piccole e gioiose creaturine come i micetti che amava.
Afferrò rapida la bacchetta e fu ancora più rapida quando allungò il suo braccio carnoso per afferrare la testa di Luna e le lunghe ciocche scompigliate che la rivestivano, come una chioma regale. La tirò verso di sé con uno strattone e Luna gridò, ritrovandosi a pancia in giù sulla scrivania, il naso sbattuto contro il lucido piano di cedro, la testa a pochi centimetri dalla tazza senza manico.
Con un altro strattone le sollevò il capo, in modo da poterla guardare meglio. Infine, Dolores Umbridge si chinò, gli occhi furenti. Tutti quelli dei gattini dipinti e appesi nei loro piatti alle pareti, s’illuminaronono di rosso come quelli della loro padrona. I loro piccoli denti aguzzi si scoprirono, famelici.
“Il tuo grazioso visetto è già abbastanza deturpato da questi begli occhioni da ranocchio, bambina mia” sibilò soave, accompagnata da un coro di miagolii d’assenso. “Ma credo che se eliminassi questa paglia secca che hai in testa, ti farei solo un favore!”
Per sottolineare meglio le sue parole scrollò la testa di Luna, evitando di correggersi riguardo ai capelli. Effettivamente, a toccarli erano soffici e puliti, cosa che fece uscire ancora più dai gangheri la strega dal viso anfibio. Con la mano brandì la bacchetta, minacciosamente.
Luna nel vederla strabuzzò se possibile ancora di più gli occhi, gridando. Non poteva essere vero!
“Mi lasci! Non..!”
Gli occhi di Luna ne fissarono la punta, dove piccole scintille scoppiavano beffarde.
“Lo faccio per il tuo bene, piccola Lovegood!” ringhiò la Umbridge, tra le strida più acute dei gattini.
“Piccolo, empio demone...”
Lo schizzo di catarro giallo paglierino che Luna gli sputò sull’occhio sinistro con la perfetta mira di un cecchino, interruppe in malo modo il sermone dell’Inquisitore supremo. La strega, allibita, non cercò nemmeno di pulirsi. La bacchetta le scivolò di mano tremente di rabbia, mentre con l’altra, altrettanto fremente, strinse più saldamente le lunghe ciocche della ragazza.
Dimenticando i piani di vendette parrucchiere in favore dell’ira assoluta, Dolores Umbridge sollevò ancora di più Luna dalla testa, nonostante gli sforzi di quest‘ultima per divincolarsi. Dolores era troppo corpulenta e Luna troppo magra e ossuta per opporsi. Cercò rapida la bacchetta, ma un ennesimo scrollone la fece cadere lontano prima che potesse impugnarla bene. La stecca di legno chiaro rotolò vicino alla pendola a muro.
Dolores Umbridge non nascose un sorriso di scherno: “Volevi aggredirmi, piccola disgraziata?”
Quando il capo di lei fu ad un’altezza accettabile dal piano della scrivania, l’Inquisitore la rispinse giù, a sbattere con violenza contro il ripiano di cedro.
Il rumore di qualcosa che si spezzava, fu coperto dalle grida di giubilo dei gattini.
La macchia rossa che si allargò sulla scrivania, coprì le macchie lasciate dalla manica di Luna che rimase inerte, a faccia in giù sulla scrivania.
Dolores Umbridge si raddrizzò con un sorriso di trionfo. Non le importava delle conseguenze.
Ora era libera, sollevata da un peso opprimente. Quella schifosa paranoide ci avrebbe messo un po’ -forse mai- per tornare a giocare all’anormale nella Sua scuola. Riguardo a Silente e agli altri, poteva risolvere lanciandole un bell’Oblivium e..
“Che diavolo ha fatto?”
Dolores Umbridge alzò l’espressione trionfante che le animava la faccia flaccida. Appena individuò colui che aveva parlato, si sentì raggelare.
Nel vano della porta, gli occhi neri di Severus Piton brillarono, illuminati da una luce malvagia.


                                                                                                                        ***



Severus Piton aveva percorso il corridoio come un ubriaco. Non sapeva come aveva fatto a ripigliarsi, dopo essere rimasto sdraiato contro quella gelida pietra, nell’alcova. Non sapeva come era riuscito a fare le scale e nemmeno come aveva potuto trovare l’ufficio della Umbridge, con quelle ombre nere che gli svolazzavano davanti algli occhi e la testa gemente.
Sapeva solo che un momento prima c’era Lily e quando aveva riaperto gli occhi non c’era più.
E poi  gli era tornata in mente Luna Lovegood, e lui si era ricordato di lei, di doverla cercare.
Grazie a quella voce coscienziosa che aveva il tono di Albus Silente.
Si era alzato, ovunque fosse, e l’aveva trovata. Appena in tempo, pensò amaramente.
Aveva visto solo la parte finale della scena, ma gli era bastata per fargli accapponare la pelle, a lui, al tenebroso Severus.
Non sapeva se odiarsi per aver perso tempo a stare a strusciarsi addosso ad un’allucinazione o aver incautamente atteso a rivelarsi finché che la testa di Luna Lovegood non si fosse fracassata sulla scrivania di quella vecchia odiosa. Spezzandosi il naso, a giudicare dal suono.
In entrambi i casi, era davvero un vigliacco. Aveva sbagliato tutto.
Si avvicinò a passi lenti, soppesando le conseguenze di quello che avrebbe voluto dire e di quello che invece andava fatto. I gatti ora tacevano e fissavano il nuovo arrivato con lo stesso elettrico spavento con cui lo fissava la nuova padrona.
Severus rimase zitto, spostandosi a lato di Luna. Le indirizzò giusto uno sguardo per verificare come stava. Era ancora china, ma ora si era portata le mani al viso e piccoli sussulti le percorrevano la schiena.
Severus Piton sentì la bacchetta pesargli nella veste, come se fosse stata una trave di ferro.
Avrebbe potuto agire in mille modi in quel momento. Avrebbe potuto aggredire l’Inquisitore ed essere giustificato a farlo. Avrebbe reso giustizia a Luna Lovegood.
Ma non poteva, perché questa storia deve rimanere fedele al Canon e uccidere Dolores Umbridge ora sarebbe controproducente. E anche perché Severus Piton non poteva certo farsi nemico qualcun altro, soprattutto non qualcuno del Ministero che avrebbe potuto, volendo vendicarsi, scoprire il suo delicato ruolo di spia.
Così, fece quello che sapeva fare meglio. Fingere.
“L’ha infastidita?” mormorò mellifluo, accennando un sorriso complice che ebbe il solo effetto di inquietare ancora di più quella che vergognosamente si definiva strega.
Dolores Umbridge lo guardò come se fosse stata appena aggrediata da una campana battente.
“Io... Cosa?”
Piton scoccò uno sguardo in tralice a Luna, ringhiando: “La signorina Lovegood l’ha infastidita?”
Il viso di Dolores si fece risoluto. Come se avesse compreso..
“Infastidita? Infastidita?! Mi ha aggredito! Certo!” gracchiò con un ombra della sua vocetta leziosa. “Altrimenti perché punirla? Non sono una...”
“Certo, certo...” Piton agitò una mano annoiato. “Credo sia meglio che io riaccompagni questa... Insolente... Alla sua casa.”
Dolores annuì in fretta e lo stesso fecero i gattini nei piatti. “Se lo meritava, lo sa?” disse tra miagolii d’assenso. Aveva la pelle flaccida chiazzata sgradevolmente di rosso arancio.
Severus  si avvicinò alla scrivania, diede un colpetto a Luna sulla spalla e lei, docilmente, si sollevò dalla scrivania, rimanendo a capo chino, i capelli biondi arruffati a nasconderle i lineamenti. Severus evitò di guardare con attenzione la chiazza di sangue che si era allargata sulla scrivania, sporcando la pergamena che si trovava lì sopra.
“Lo immagino” sibilò Piton gelidamente. “Tutti così, questi piccoli insolenti.”
La Umbridge lo guardò con rinnovata simpatia, ora era soddisfatta. Non tremava più per la rabbia. Inconsciamente, credeva che quell’uomo sudicio fosse quasi... Un alleato. Non avrebbe detto niente a nessuno. “Le ho anche confiscato delle cose, a questa piccola birbantella. Credo sia meglio…”
“Le dia a me. Me ne occupo io” disse Piton in tono sfiancato. Non ne poteva più. Afferrò deciso il sacchetto che la donnetta gli porgeva. Guardandone il contenuto di sfuggita, lo passò a Luna che lo mise nella borsa. Tenendo una mano sulla spalla di Luna - e Luna a debita distanza da lui-, Severus andò verso la porta.
Stavano per uscire dalla stanza, quando puntò la bacchetta verso la pendola e appellò quella di Luna che filò dritta dritta in mano alla proprietaria. Lei non lo ringraziò, ma lui non si offese.
Lenti e maestosi, i nostri ossuti eroi uscirono nel corridoio, senza salutare.
Uno sentendosi un vigliacco, l’altra, meno forte di quello che credeva.


                                                                                                                                  ***
 
Se le circostanze fossero state diverse, Severus Piton avrebbe annoverato quel momento tra quelli più imbarazzanti della sua vita. Non aveva idea di come comportarsi, nè di cosa dire, tranne che per un decisione.
Severus Piton non avrebbe mai riportato Luna alla Sala di Corvonero quella sera e non solo per le disposizioni che Silente gli aveva dato.
Quella sera, avrebbe dovuto davvero aiutarla.
Il senso di colpa per non averla trovata prima, lo seguì per tutta la strada fino alle sue nuove stanze, come un guardiano. Luna non accennò a parlare, né a sollevare il capo dal pavimento che fissava con ostinazione.
O almeno così sembrava a Severus, dato che la cortina di capelli biondi di lei gli impediava di vedere cosa fissasse e i suoi stessi capelli neri gli ostruivano la visuale. Luna non si lamentò per la lunga strada. Non disse nulla di sconveniente. Non chiese dove stessero andando.
Ma forse quello lo indovinava già.
Il posto che era momentaneamente l’ufficio di quello stravagante insegnante di Pozioni. Salirono la scala a chiocciola che si avvitava su per la stretta torretta, scomparendo nel buio. Piton precedette Luna che ancor,a rimaneva a capo chino, i capelli simili ad alghe albine dondolanti. Nella luce azzurrina, sembrava una creatura acquatica. Erano a metà della scala, quando Severus sentì i passi leggeri di Lovegood fermarsi.
Si voltò di scatto, il mantello nero strusciò sule scale.
Luna si era fermata e fissava una delle nicchie in cui si celavano le finestre dalle vetrate istoriate. Aveva il viso sollevato e macchiato di viola,. No, non viola, si corresse Severus. Macchiato di sangue.
La luce notturna nascondeva i colori e mascherava la realtà, dopotutto.
Si avvicinò a lei come se fosse stata sonnanbula, cercando di ignorare l’impulso di afferrarla con la sua mano simile ad un pallido ragno e abbracciarla. Confortarla un po’. Severus scosse la testa. L’aver abbracciato qualcuno dopo quindici anni, un’allucinazione per di più, gli aveva  mandato fuori rotta il cervello.
Perché diavolo voleva abbracciare tutti, adesso?
Severus si mantenne alla distanza di sicurezza di due scalini. Era così preoccupato nel non voler valicare quel limite che quando capì che Luna Lovegood in quel momento non era affatto la solita tocca, ma una ragazzina normale che si era trovata in una situazione in cui nessuno dovrebbe trovarsi mai, lei stava già piangendo in silenzio, come la figura di donna nella vetrata colorata davanti a loro.
L’unica differenza era che le lacrime della figura di vetro, erano pioggia.
Severus Piton sentì le sue presunte interiora contrarsi in una morsa dolorosa. Dolores Umbridge avrebbe dovuto morire in una prigione ben peggiore di Azkaban, assieme a Tobias Piton e a quell’indifferente piagnona di Eileen Prince.
L’unica cosa buona che sperava adesso, per Luna Lovegood soprattutto, era che lei non desiderasse morire. Un desiderio che Severus aveva abbandonato solo dopo l’incontro con Lily e che era tornato a fargli compagnia solo negli ultimi tempi. Più o meno gli ultimi tre lustri della sua esistenza.
“Vorrei davvero dirti qualcosa di confortante, Lovegood” disse piano, cercando di scrutare la notte fuori dalle finestre. “Dirti che potrei scendere da questa scala, e andare... A sistemare la faccenda.”
Luna non si era mossa, continuò imperterrita a fissare gli occhi bianchi della figura di vetro e filo di piombo, ma Severus non smise di parlare, con voce bassa e attenta.
“Ma io non lo posso fare, Lovegood.”
Perché sei un vigliacco, disse la voce di Lily.
Perché sei un sudicio pazzo, disse quella di Petunia Evans.
Perché sei un essere meschino, disse quella di Lucius Malfoy.
“Perché non servirebbe a te. A nessuno serve un guardiano protettore che ci difenda, se noi stessi, per primi, non siamo in grado di proteggere e difendere... Ciò che siamo.”
Severus sfiorò leggermente la spalla di Luna, evitando di farla pesare. La toccò come se fosse stata una creatura d’acqua, aria e polvere, pronta a dissiparsi nell‘atmosfera.
Come se fosse stata uno spirito.
“Mi hai capito, Lovegood?”
Luna annuì leggermente, il naso ammaccato.
Severus le fece cenno di precederlo. Luna cominciò a salire gli scalini, più rapida e con tratti del suo antico passo da entusiasta. Severus la seguì, il mantello nero ondeggiante e l’anima un po’ più chiara di come l’odio e la passione per l’inganno, gliel’avevano dipinta.



“Ci sono delle Gragnugole nel ketchup, signore.”
Severus Piton alzò lo sguardo dal suo misero piatto di verdurine stufate, posando delicamente le posate sul tovagliolo. “Lovegood, quelli sono dei chiodi di garofano.”
Con la medesima lentezza con cui le aveva appoggiate, l’inquieto insegnante impugnò le posate e infilzò un gambo di sedano ammosciato. Stava per mangiarselo quando fece cadere la forchetta, colmo di disappunto e con le sopracciglia giunte. Dall’alto del suo naso, i suoi occhi si fissarono su Luna, seduta all’altro capo del tavolo. “Lovegood. Tu hai parlato” sbottò, perplesso.
Luna alzò la mano ed indicò la piccola zuppiera di salsa rossa, punteggiata di puntini neri.
“Bè, dovevo avvisarla. Mica vorrà mangiarsi delle Gragnugole, signore.”
“Lovegood, quelli sono chiodi di garofano.”
“Questo è quello che le fanno credere loro” affermò Luna bisbigliando e indicando la zuppiera con occhi allarmati. Sembrava davvero convinta di ciò che diceva.
Piton raccolse la forchetta, un po’ infastidito. “Non dire sciocchezze, Lovegood. Sono chiodi di garofano e sì, ne sono sicuro.”
“A lei piace il ketchup con i chiodi di garofano, signore?” domandò Luna incuriosita.
Piton fece una smorfia, addentando un cetriolo sospetto. Ci mise un po’ a risponderle.
“No, non particolarmente. Come non mi piace particolarmente il fatto che l’elfo che mi ha portato la cena mi abbia messo un ombrellino nel bicchiere.”
Luna lo guardò, confusa: “Non le piacciono gli elfi, i bicchieri o gli ombrellini?”
Piton si appoggiò allo schienale della sedia, abbandonando del tutto l’idea di crogiolarsi nella tranquillità di una cena silenziosa. “Lovegood, sono contento che tu abbia riacquistato la capacità di parlare. Ma se devi dare aria alla bocca, limitati ad aprirla senza emettere suono.”
Luna abbassò lo sguardo sulla tavola. Piton si ritrovò a sgranare gli occhi. L’aveva forse offesa? Severus si rimproverò da solo. Dopotutto era Luna la vittima e va bene l’acidità dell’insegnante malmostoso e …
“Lovegood?”
“Signore?” la ragazza alzò il viso. Sembrava normale.
Severus rimase un attimo a bocca aperta. Cosa poteva dire? Fu Luna a venirgli inaspettatamente in aiuto.
“Mi dispiace di averle rovinato la cena signore.”
“Come?” lo sguardo di Piton contemplò l’infinito mare di piatti, vassoi con carne pesce e verdure, ceste di frutta, scodelle, torte, dolci, cartocci di Fish’n’Chips, salse francesi, filetti, budini e tutte le altre cose che i disgraziati elfi gli avevano spedito in camera su ordine di Silente. Quell’infame.
Davvero il Preside si aspettava che Severus Piton si mangiasse tutta quella roba? Che razza di spreco.
“Perché ti dispiace Lovegood?”
“Perché era apparecchiato per due, signore” disse lei indicando la tavola. “Sono stata un imprevisto.”
“Ah.” Piton rimase in silenzio a guardarla sgranocchiare rumorosamente delle arachidi in insalata.
“Chi doveva venire, se posso..” Luna s’interruppe per guardare una pila di ciambelline guarnite di crema e panna, che si ergeva tentatrice da degli spiedini di fragola e melone e dei crostini salati all’uovo e spinaci. Chissà come sarebbe stato mangiare tutta quella roba contemporaneamente.
Piton agitò la mano, come per difendersi. “Nessuno.. Cioè Silente. Sai, il Preside.”
Luna annuì con la bocca piena. “Sì, le avevo già detto che le conosco signore. Cenate spesso assieme?”
Severus cominciò a tormentare un ravenello con la punta del cortello. “No, mai.”
“E perché oggi sì?”
Severus si passò una mano sulla fronte corrugata, lanciandole uno sguardo stanco, prima di parlare con voce palesemente irritata. Perché doveva trovarsi a gestire una situazione del genere? L’eterno dolore e i pericoli da spia erano solo metà del pacchetto-viaggio per avere il perdono?
“Lovegood, se la tua preoccupazione adesso è sapere come passo le mie serate, vuol dire che non sei affatto una persona seria, lo sai questo? Perché non mi parli di compiti come le persone normali?”
Luna inclinò il capo. Non capiva cosa c’entrasse il sapere la serietà con il cenare con il Preside con la normalità e con i compiti. Il cervello del professore di Pozioni doveva avere degli intervalli di stallo nelle sinapsi per fare certe astruse connessioni. Luna pensò che forse era un po’ in difficoltà per la scena a cui aveva assistito. Chi era lei per giudicare un uomo sensibile e incapace di fare discorsi sensati? Dopotutto era un tragediografo. Andava capito, non offeso, riflettè la Corvonero.
Decise di aiutarlo dicendo:
“Dovrei piangermi ancora addosso perché Dolores Umbridge mi ha rotto il naso?” domandò a bruciapelo.
Severus Piton quasi si strozzò con la forchettata di mais insipido che aveva preso.
“Lovegood…” gorgogliò colto di sorpresa.
Con in viso un’espressione pacifica e serena, Luna spostò lo sguardo su una torretta di cialde e gelato alla violetta e pistacchio. “Ma la ringrazio di avermelo messo a posto.” Severus annuì lentamente, ancora scosso. Era stata la prima cosa che aveva fatto non appena erano arrivati nelle stanze della torre. L’unica cosa veramente utile e necessaria, rifletté. Aveva solo dovuto usare la bacchetta e un calice di Soluzione Piastreplasma, e aveva potuto levarle il sangue dal viso e dal naso rimesso a nuovo con una stoccata della bacchetta.
Qualcuno avrebbe potuto vederci qualcosa di strano ma, pensandoci a mente fredda, Severus aveva compreso che non si sarebbe potuto comportare altrimenti. Aveva fatto solo il suo dovere.
“Credo che proverò il gelato” disse Luna in tono sognante. “Le spiace?”
Severus non fece in tempo a dirle di no che Luna afferrò un cucchiaio e cominciò ad ammucchiare generose porzioni di gelato nel suo piatto, accanto alle patatine fritte intrise di salsa tartara e agli spiedini di gamberetti, pescati chi sa dove nel mucchio di cibo. Sotto i piccoli crostacei s’intravedevano rimasugli di torta di mele e miele.
Guardando la Lovegood, Severus ebbe un flash di Sibilla Cooman e dei suoi esperimenti culinari. Prima che Luna potesse assaporare il pistacchio, Severus si levò in piedi, protese sulla tavola, puntò la bacchetta e fece evanescere il piatto stracolmo di Luna Lovegood.
Luna lo guardò a bocca aperta, simile ad una ‘O’.  Osservò lo spazio vuoto dove un tempo si trovava il suo piatto a lungo, finché le sopracciglia non le si unirono in un’unica linea.
“È una punizione?” chiese sgomenta.
Severus si risedette composto e sibilò rigidamente: “Ti ho salvato la vita, sciocca signorina Lovegood. E se contesti la mia scelta, la punizione ci sarà davvero.”
Luna socchiuse gli occhi, in un tentativo apparire minacciosa. “Da quando il gelato è un pericolo, signore?”
“Da quando lo si mischia con altre cose per farne tritolo” ringhiò Piton socchiudendo a sua volta gli occhi. Nel suo caso, forse per gli anni di allenamento o semplicemente perché i suoi bulbi oculari non erano così sporgenti, l’effetto fu orribile e minaccioso. Luna lo fissò atterrita, sollevando le sopracciglia intimorita.
“Mi è passata la fame.”
“Meglio” replicò Piton con espressione cupa e voce affabile. Era davvero colpito dalla velocità con cui a quella piccola strega mangiatutto era passato l’appetito. Forse era colpa del carisma con cui le aveva intimato di smettere di mangiare. Si ripromise di essere un po’ meno convincente.
Luna prese a far tintinnare i rebbi della forchetta sul calice. In realtà aveva ancora fame. Una fame disperata. Era una ragazzina di fronte ad un banchetto, ma Severus sembrava essersene scordato.
Convinto di aver sedato l’ingordigia dell’allieva, si azzardò a far vagare il suo sguardo sulla tavola, alla ricerca di qualcosa con cui concludere la sua magra cena vegetariana.
Aveva appena allungato il braccio, per afferrare una minuscola coppettina di sorbetto al lime, seppellita sotto una catasta di canditi e bacchette di liquirizia, che un movimento dall’altra parte della tavola lo distrasse.
“Lovegood. Posa quelle rape. Ora.
Luna gonfiò le guance offesissima. Sbatté sul tavolo le rape bianco violacee che aveva cercato di imboscare nel tovagliolo.
“Nemmeno se mangio le schifezze che mangia lei va bene, vero?” sibilò con un tono sospettosamente simile a quello con cui Severus parlava abitualmente.
“Perché mangia solo quelle cose da coniglio?” domandò con tono impertinente.
Sdegnato, Severus le fece cenno di rimetterle in una delle tante ceste.
“Niente rape per gli schizzinosi.”
Luna gli scoccò uno sguardo in tralice. “Lei mangia verdurine bollite quando ha in tavola del gulash. Chi è lo schizzinoso qui?”
Severus incrociò le braccia. “Lovegood, smettila. Sono un insegnante, non un tuo amico. Parlami ancora in quel modo e...”
Luna aveva smesso di ascoltare e guardava fuori dalle finestre, ammirata.
“Stelle” sussurrò. Si alzò dalla tavola imbandita e andò verso le grandi finestre a ogiva, ipnotizzata.
“Ha smesso di piovere.”
Prima che Severus potesse impedirglielo, Luna aprì il gancio di ferro che teneva chiusa la finestra davanti a lei. Con uno strano grido di gioia, si sporse fuori, mentre una folata di gelida aria novembrina si impossessava della grande stanza. Fu quella a far rinsavire Piton e a fargli gridare:
“Lovegood, per l’amor di Merlino, torna...”
Ma Luna non ascoltava. Con un balzo agile si mise sul bordo della finestra, e si sedette sul ripiano, i capelli biondi ondeggianti nella gelida brezza notturna. Protesa nel vuoto, contemplava la notte.
“Lovegood. Torna dentro, non costringermi a farti un incantesimo.”
Severus Piton, accorgendosi che lei non lo ascoltava minimamente, si avvicinò a lei, mettendosi al suo fianco, a osservare la volta del cielo notturno e la sommità delle altre torri di Hogwarts, animate da caldi rettangoli di luce arancione. L’aria intrisa ancora dell’odore della pioggia battente  e della pietra umida del castello che scintillava alla luce della luna e delle scarse stelle.
Come potesse Luna Lovegood ammirarle con quella meraviglia, rimaneva per Severus un mistero.
Erano solo stelle.
“Sono solo stelle” disse Luna dolcemente. “Ma è confortante sapere che sono lì.”
Severus le lanciò uno sguardo perplesso. Per un Occlumante come lui, troppo abituato a nascondere i pensieri e le emozioni, era diventato quasi impossibile comprendere le emozioni altrui. Certo, poteva riuscirci con i soggetti più banali, ma Luna Lovegood continuava ancora a sfuggirgli, inclassificabile e aliena com‘era.
Si chiese se un giorno sarebbe riuscito a capirla e a renderla prevedibile, così come avrebbe voluto capire perché la sua stupida esistenza da mago si era consumata in un fastello di disgrazie.
Erano un’immagine strana quei due alla finestra.
Entrambi pallidi ma, l’una con una tonalità da ninfa, l’altra da epatico all’ultimo stadio. Uno più vecchio dei suoi anni, l’altra, facilmente confondibile con una bambina.
Severus Piton non aveva compreso il disegno di Silente. Qualunque esso fosse, in quel momento non importava. Aveva smesso di preoccuparsi di un’eventuale caduta della Lovegood. Ora era in pace, le mani gialline e nodose appoggiate alla pietra, tranquillo, a fissare le stelle e a sentire la notte scivolargli addosso, rassenerandolo. Aveva la strana sensazione di essere a casa.
Quello era un momento così semplice e pacifico che avrebbe potuto passarlo con Lily…
In quell’istante, la pace interiore che aveva colto il cuore dell’acido insegnante si dileguò nell’aria fredda.
Si voltò verso Luna Lovegood e per quanto cercasse di impedirlo, un moto d’odio lo attraversò. Era tutto sbagliato. Chi era quella sciocca per starsene lì e giocare alla sostituta di Lily?
Severus socchiuse gli occhi, cercando di riprendere la sua proverbiale calma. Si sentiva diviso. Come se una parte di lui ragionasse del tutto staccata dalla sua volontà.
Desiderava fare del male a Luna. Lei lì, era fuoriposto. Lui doveva starsene solo con il suo dolore, non a inseguire la pace interiore. L’altra sua parte giudicava quell’onda d’odio ingiustificabile e incomprensibile.
Eppure, non poteva fare a meno di provare astio e rancore.
Severus Piton non aveva fatti, né prove a cui attaccarsi, ma aveva il sospetto che quella Lily delle allucinazioni gli fosse entrata nelle vene, alterando la sua capacità di giudizio.
Per nulla a conoscenza dell’ennesimo dibattito interiore che animava il turpe cuore del pozionista, Luna concentrò la sua attenzione su un gruppo di finestre luminose cercando, nonostante la distanza, di individuare i proprietari delle sagome che le animavano. Quando si stufò di quel gioco si voltò, cercando di tornare nella stanza. Con sua sorpresa, trovò Severus Piton accanto a lei, intento a fissarla.
Luna non era brava a cogliere le cose al volo, non sempre. Per lei dipendeva dalle occasioni.
Spesso era colta da intuizioni fulminanti, altre rimaneva assorta a osservare, senza domandarsi il perché delle cose.
Ma quella volta, accadde qualcosa di insolito anche per lei, qualcosa che non riusì a intuire o prevedere. Si spaventò.
Gli occhi di Severus Piton erano popolati di ombre, e in quel momento lei riusciva a vederle tutte, mentre si agitavano in quelle fosse nere. Una più evidente delle altre.
Luna spalancò gli occhi, mordendosi il labbro. Non capiva, ma non si affrettò a domandarsi il perché.
C’era qualcosa nell’aria gelida della notte. Qualcuno che non era né Luna, né lo strambo insegnante di Pozioni, ma che li circondava, opprimendoli con un’aura malignia.
Qualcosa a cui l’arcigno Severus Piton non  era immune.
Luna saltò di nuovo dentro la stanza con un balzo leggero, rassettandosi i vestiti. Severus Piton rimase in silenzio, girandosi lentamente a fissarla a braccia conserte.
“Devo andare” disse Luna frettolosamente. “Grazie per la cena e per bè, sì... Arrivederci.”
Luna Lovegood cominciò ad arretrare con un sorriso di circostanza. Meglio essere un po’ meno sognante e allontanarsi per il momento. Ma Severus Piton non era della stessa opinione.
La Corvonero aveva appena cominciato a scendere gli scalini del rialzo della grande  stanza-ufficio, che lui l’afferò per il gomito sinistro, in un gesto meccanico.
Luna non poteva saperlo, ma Severus stava cercando di combattere un demone molto più forte di lui.
“Vattene Lovegood” disse a voce bassa.
Luna si voltò verso di lui, l’espressione sorpresa sostituita da un cipiglio d’autorità perplessa.
“Lo farei, se mi lasciasse il braccio.”
Severus rovesciò gli occhi vuoti su di lei. I lineamenti del viso ossuto, scolpiti con linee precise e dure. Sembrava stesse cercando di trattenersi dal fare o dire qualcosa.
Istintivamente Luna cercò di scostarlo, divincolandosi con fermezza. Severus la riafferrò di nuovo, questa volta per l’avambraccio sinistro. Rimasero immobili, Luna con gli occhi argentei fissi, senza accennare a sbattere le palpebre. Solo quando rivide uno scintillio negli occhi scuri dell’insegnante si azzardò a respirare normalmente. Severus Piton le lasciò il braccio, scombussolato. Si guardò incuriosito il palmo della mano, con cui aveva stretto il braccio di Luna Lovegood e la sue labbra si strinsero in una linea dura. Ben presto riprese il controllo di sé e anche l’uso della voce.
“Resta qui.”
Luna, nonostante la vaga sensazione d’ansia che le svolazzava nel cervello, rimase dritta come un fuso. Mentre Piton andava a chiudere la finestra,
studiò gli abbondanti avanzi della cena, ancora in tavola.
Quando l’ombra nera dell’uomo tornò di fronte a lei, rimase a contare la gamma di colori che si rincorreva in uno dei cesti di caramelle gommose e Cioccorane.
“Questo è sangue, Lovegood.” Piton le fece vedere il palmo della sua mano, macchiato distintamente di rosso. “Come è successo?”
Luna abbassò lo sguardo, mormorando qualcosa di incomprensibile.
“Si tratta ancora del tuo naso? O è qualcosa che a  che fare ancora con Dolores Umbridge?”
Gli occhi grigi della ragazzina si abbassarono ancora di più.
Severus battè il piede a terra, tirando su col naso. Ci mancava solo il raffreddore adesso. Rimase a guardare la macchia di sangue sulla pelle, poi fissò Luna Lovegood con un misto di esasperazione e diffidenza.
“Bene. Sistemiamo quest’incresciosa faccenda.” Tirò fuori la bacchetta e la puntò sulla manica sinistra di Luna che lo vide troppo tardi.
“Diffindo!”
“No!” Luna tirò la manica lacerata dietro la schiena, gli occhi fuori dalle orbite.”Mi ha rotto il pullover!”
“Sciocchezze” disse Piton mettendo via la bacchetta. “Quello lo puoi ricucire. Avanti, che hai fatto al braccio?”
“Lei cuce?” domandò Luna affascinata. “Non lo sapevo...”
“Non cambiare argomento, Lovegood. Ti ho rotto il pullover, dovresti odiarmi a morte no?”
“Infatti” gli occhi di Luna brillarono cupi. “Però se adesso me lo aggiusta siamo pari” aggiunse soave.
Severus si aggiustò i polsini della camicia e della veste, soppesando ciò che stava per dire. “So che te ne vuoi andare, ma prima dimmi che diavolo hai combinato. Non si può essere così sbadati. Anche tu dovresti avere un limite.”
Severus Piton sapeva di avere di nuovo ritrovato l’aria del professore inflessibile, ma la sua curiosità su cosa Luna si fosse fatta al braccio era troppo pungente. Interessarsi a lei era meglio che provare inconsulti moti d’odio, in fondo.
A malincuore, Luna gli porse il braccio, mettendo a nudo una larga chiazza di sangue sulla pelle dell’avambraccio, tra i lembi svolazzanti della camicia e del maglione brutalmente tagliati. A quella vista, Severus assistè a un’affastellarsi di ricordi più o meno confusi. Lui che si copriva delle ferite con delle bende, Lily che interveniva, un luogo fatiscente, Voldemort…
Senza proferir parola, Severus sfilò un’ennesima volta la bacchetta. Con una stoccata, la pelle di Luna Lovegood tornò immacolata. O quasi…
“Lovegood, non sei un po’ grande per i tatuaggi?” chiese perplesso.
“Cosa?” chiese Luna fissandosi il braccio. “Oh, dannato sia il Bradoracchio!”
Luna Lovegood non perse certo tempo a tornare sognante e mistica. Va bene, quello strano del professore di Pozioni era stato abbastanza gentile con lei -sguardi d’odio  e fastidio a parte-, ma perché ora si era fissato sul volersi accertare di ogni minima goccetta di sangue?  
Poi Luna guardò il suo braccio. Strare lì a cena, gli aveva quasi fatto dimenticare.
Le parole Io non sono normale e non sono autorizzata a fare la spia, erano ancora incise sulla sua pelle, frapposte tra i due come una barriera.
Il tempo sufficiente perché Severus le vedesse bene e capisse.
Ecco in cosa consistevano le tanto paventate punizioni dell’Inquisitore. Una barbarie. Si domandò perché quella befana non fosse già passata nella barricate del Signore Oscuro. Avrebbe potuto sostituire con orgoglio Bellatrix Lestrange al fianco di Voldemort.
Ormai allo scoperto, Luna abbassò il braccio, in attesa di essere di nuovo sottoposta ad un giro di strane, vagamente apprensive e curiosamente rincuoranti domande.
Dal canto suo, Severus Piton si sentiva infinitamente stupido. Non era capace a capire l’ingenuità o i sentimenti più innocui e buoni nelle persone. Non era in grado di essere seriamente di conforto a qualcuno. Aveva giocato all’apprensivo e se l’era cavata con vari scossoni -Fra cui quell’istante in cui aveva desiderato ucciderla-. E ora, questo. Non ce la faceva davvero più. La sua poca esperienza nel gestire le relazioni infrapersonali che non fossero dettate da lavoro, ordini o missioni, erano un garbuglio troppo arduo da districare. E le sfortune che avevano agitato la serata di Luna Lovegood, richiamavano dolori troppo conosciuti, troppo vividi per lui. Decise di essere egoista. Decise di tagliare corto.
“Non c’è niente di male nell’essere un po’ diversi, Lovegood. E…” qui Severus distolse lo sguardo,
“… E sono abbastanza sicuro che non ci sia niente di male nell’essere una spia.”
Toccò il braccio di Luna con la bacchetta, cominciando a mormorare un incanto simile ad una canzone. Le parole che marchiavano la pelle della ragazzina si dissolsero, sciogliendosi. divennero gocce d'acqua ed evaporarono. Con un ultimo tocco, sia il pullover che la camicia tornarono integri.
Luna, che se ne era rimasta in silenzio per tutto il tempo, sollevò il viso verso di lui, i lineamenti pallidi e levigati, impassibili.
“Tolga la punizione a Ginny Weasley” disse con dolcezza. “Non se la meritava. Non c’entrava nulla, non ha gettato lei il rospo nel calderone.”
Dopo un momento di smarrimento, Severus si ricordò di respirare.
“L’ho già fatto. Le ho detto che non importava più.” disse. Cercò di parlare il più piano possibile. Luna lo fissava come sotto ipnosi, inebetita eppure lucida. Stava forse per confessare qualcosa sulle allucinazioni? Severus sentì un’onda di speranza avvolgerlo. Pregò che Luna Lovegood gli facesse questo dono.
Doveva dirgli che lei era reale. Lily...
“C’era nell’aula qualcuno? Vicino a te?” disse con foga, afferrandole la spalla. “Chi è stato Lovegood? ”
Luna lo guardò con gli occhi argentei, calmi e limpidi come specchi. Lontani mille miglia.
“Io.”
Severus sentì la forza abbandonarlo. La stretta che gli attanagliava i visceri, lasciò la presa. Si sentiva svuotato.
Come quando puliva i suoi barattoli dal viscidume che contevano.
“L’ho fatto per essere gentile con Ginny. Ma non mi sono accorta che bè… pensavo di dirglielo dopo. Si è trattata di una disattenzione di pochi secondi e invece…” Luna accennò un sorriso incerto.
“Non sono granchè sveglia in certe cose.”
Luna si guardò il braccio fasciato dalla manica, dove poco prima era ancora incisa la scritta infamante.
“Sono stata un po’ svampita, ma se le avessi parlato nei sotterranei, avrei fatto la spia. Spero che Ginny mi perdoni, ma una punizione con lei, signore, è meglio che con quella donna, come  vede.”
Luna tornò a guardarlo. “A volte è meglio starsene zitti, non crede?” disse con totale assenza di malignità. Eppure, Severus Piton sentì il sospetto trafiggerlo. Possibile che Luna...
No. Era semplicemente capace a leggerlo. Meglio di sé stesso, in effetti.
Severus provava sensazioni contrastanti. Voleva urlare a Luna di dire la verità, di parlare della ragazza dai capelli rossi che non era la Weasley, che aveva squartato quel dannato rospo.
Voleva dirle di smetterla di essere così disarmante.
Così onesta.
Ma Luna Lovegood era sincera. Non c’era nessuna Lily a tormentarlo nel mondo dei vivi. Era solo colpa sua, della sua mente malata e delle sue ossessioni, se si ritrovava ad essere disturbato e in uno stato pietoso, inseguito da uno spirito partorito dalla sua crescente solitudine.
Guardò la pendola al muro e la stretta scala di pietra che portava alla sua stanza. Severus Piton desiderava dormire. Era il modo migliore per dimenticarsi di tutto. Della delusione.
Sperando che i sogni non gli riservassero sorprese.
“Torna alla tua torre, Lovegood. Credo che per questa sera tu ne abbia passate abbastanza” disse stancamente. Era quanto più vicino a un ‘Buonanotte’ potesse dirle.
“Arrivederci, signore.”
Luna Lovegood si avviò fluttuando verso la porta. Severus Piton la guardò finché non disparve alla vista. Nonostante fosse deluso e amareggiato, ne ammirò la forza con cui aveva sopportato le angherie di quella giornata, di quelle passate e di quelle che sarebbero arrivate, cosa che lui, in tutta una una vita, non sarebbe mai riuscito a fare.


Luna Lovegood scese rapida gli scalini di pietra. Quando si ritrovò ancora una volta davanti alla nicchia della vetrata, quella davanti a cui le sue lacrime avevano per un momento ceduto, si fermò. Si sedette nel piano di pietra della nicchia, respirando piano ma affannosamente, gli occhi brucianti. Si abbracciò le ginocchia, tremante, sussurrandosi parole di conforto.
Lei non era pazza, non lo era.
Per questo aveva dovuto mentire.
Era felice di essere uscita dall’ufficio di Severus Piton. Gli era grata, davvero. Aveva passato dei momenti piacevoli in sua compagnia, quella sera. L’aveva salvata.
Ma ora, si sentiva più al sicuro per essersi allontanata da lui e dalla ragazza dai capelli color sangue, stranamente familiare. La stessa che era comparsa a Pozioni e che l’aveva fissata muta e con odio raggelante, in quegli occhi verde petrolio. La stessa che era caduta dalla torre dell’Orologio.
La stessa che si era avvicinata a loro mentre guardavano le stelle, convinti di essere in pace.
Luna Lovegood non aveva paura della Umbridge, dei prepotenti o delle botte. Sapeva di essere in grado di affrontare il mondo e tutte le sue creature e ingiustizie.
Ma quella ragazza, dagli occhi carichi d‘ira, che non era né viva, né un fantasma e apparentemente invisibile, la terrorizzava a morte.
Giunse le mani, gli occhi fissi in quella figura davanti a lei,  ritratta con pezzi di vetro colorato e piombo.
Qualunque cosa le avrebbe riservato il futuro, sperò con tutto il cuore che quello spettro terrificante svanisse, come polvere nella notte.



Lettori del Dono, come va?
Spero di avervi deliziato -forse non è la parola giusta- con questo nuovo capitolo!
Allora, un paio di notizie. Ho ricevuto la mia prima Fan Art (Grande emozione) e quindi, grazie Spluccica! (Se volete occhieggiarla, http://spluccica.deviantart.com/#/d366nbn ),
sono sopravvissuta al Capodanno ed ho infilato un paio di omaggi a film e fiction che amo tanto anche in questo capitolo. Provate a beccarne qualcuno!
(Non che negli altri non lo avessi fatto, però..)
Ora che ci penso credo di aver calcato la mano, in questa parte della storia, ma bazzico da un po' il mondo delle FF e spero che tra voi ci sia qualcuno in grado di apprezzarla.
Insomma, una volta lessi una Sirius\Fierobecco.
Auguri a tutti voi e all'anno venturo (che è già iniziato), ci sentiamo fra quattro giorni!
Exelle


Ps: Cap. Tubero, se non commenti verrò a citofonarti a casa.
      ..... Ma non sentirti in obbligo! Cieo!

  
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