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Autore: Valpur    25/01/2011    4 recensioni
Come nelle fiabe, no? "C'era una volta"...
Ma anche no. Niente principesse, niente elfi, fatine, cavalieri, niente bei tenebrosi o unicorni o draghi. Niente. Nada de nada.
In compenso nell'iperuranio c'è chi si annoia di brutto. Anzi, magari si annoiasse.
E così succede che le frustrazioni degli Immortali vanno a riversarsi su qualcuno di molto, molto sfigato e inadatto.*Storia scritta in occasione del NaNoWriMo 2010*
Genere: Avventura, Comico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il trillo della sveglia le trapanava le orecchie.

Sbuffando si girò nel letto; il raso delle lenzuola, nere non solo nella semioscurità della stanza, le frusciò sulla pelle.

“Che palle…”

Sfilò la mano da sotto il cuscino e la allungò verso il comodino. Lo spigolo le urtò la nocca. Agitò le dita nell’aria ringhiando imprecazioni e fece cadere la sveglia. L’impatto con il pavimento la spense.

Uno sbadiglio la scosse tutta mentre si sollevava a sedere, agitando la mano offesa.

Il sole filtrava incerto da uno spiraglio tra le pesanti tende di velluto chiuse davanti alla grande finestra.

Imprecando a bassa voce scostò le coperte con un fruscio e mise giù i piedi, muovendo le dita contro il soffice pelo del tappeto. Sporgendosi indietro armeggiò contro la testiera di ferro battuto del letto fino a incontrare la sagoma ovale e rigida dell’interruttore. Lo premette, e una luce tenue invase la stanza, rimbalzando sul viola delle tende, sul nero del tulle che penzolava dal baldacchino e sui quadri e stampe dalle cornici barocche. Un agnello morto occhieggiava da quello più vicino alla porta, un angelo dalle ali nere e dal volto solcato da lacrime di sangue da quello sopra al letto.

Una voce di donna salì lungo le scale.

“Sara, tesoro, è ora di alzarsi!”

Sara non rispose, avviandosi a passi strascicati sul parquet di legno scuro. La corta camicia da notte di seta nera svolazzava attorno alle ginocchia, aggiungendo il suo fruscio a quello delle cosce grassocce che sfregavano tra di loro.

In pochi passi raggiunse una porta. Chiusa.

“Tommy, muoviti. Devo usare il bagno”, brontolò con voce arrochita dal sonno.

Da oltre la porta la risposta risuonò attutita.

“Cazzi tuoi. Ora aspetti”.

Sara strinse le labbra.
“Senti, non so se hai presente che ho appena dormito una notte intera e ho la vescica piena. Se proprio non puoi fare a meno di leggere Topolino mentre caghi vorrà dire che andrò a pisciare sulla tua collezione di Naruto”.

Passò un istante.

“T-tanto non lo faresti mai”.

“Bene, ti stai masturbando. A giudicare dalla voce hai quasi finito. Posso aspettare ancora qualche secondo”.

Nel giro di un attimo si udì il suono dello sciacquone, la chiave girò nella serratura, la porta si aprì e se ne affacciò un viso arrossato e brufoloso. Sara sogghignò.

“Buongiorno, fratellino, e benvenuto in un’altra imbarazzante giornata della tua sempiterna verginità”.

Tommy trasalì e guardò la sorella, riacquistando un po’di dignità.

“Certo che appena sveglia fai davvero cagare”.

“Wow, sono fortunata, tu fai cagare a ogni ora del giorno e della notte. Spero tu non abbia lasciato segni in giro, sarebbe disgustoso”.

Il ragazzino scoccò a Sara un’ultima occhiata sprezzante.

“Strega”

“Sei carino a dirmelo. Grazie!”

Così dicendo spostò il fratello dalla porta, entrò e si chiuse la porta alle spalle.

La finestra del bagno era spalancata. Mentre si sedeva sulla tazza strinse gli occhi, riparandoseli con la mano. La luce del mattino di Ottobre non era particolarmente forte, ma comunque fastidiosa.

Dopo aver finito si sciacquò e si avvicinò al lavandino e al grande specchio.

Armeggiò distratta con la mano alla ricerca del proprio spazzolino da denti e del dentifricio mentre si osservava spassionatamente allo specchio. Il viso rotondo era di un bianco cadaverico su cui spiccavano occhiaie bluastre e un grosso brufolo rosso sulla tempia. I capelli corvini iniziavano ad arricciarsi sulle punte.

Dopo essersi lavata i denti si sciacquò con cura la faccia; si assicurò che lo smalto nero fosse scheggiato a dovere e prese la spazzola. Si pettinò i capelli finché non ricaddero lisci e leggermente unti fino a oltre metà schiena.

Poi venne l’ora del trucco.
Era un rito: un guerriero si metteva l’armatura, Sara si pitturava la faccia.
Si sbiancò il volto con della cipria fino a farlo somigliare a una maschera di gesso e annerì e ingrandì gli occhi con ripetute passate di eyeliner nero. Un velo di rossetto viola intenso e, dopo solo venti minuti, era pronta.

“Sara, datti una mossa! Tra dieci minuti tuo padre parte”, l’ammonì la stessa voce di donna di poco prima, in corridoio.

Aprendo la porta si trovò davanti la madre già in tailleur. E la solita solfa mattutina cominciò.

“Santo cielo, ma perché ti conci così? Non è carnevale! Tu stai andando a scuola, non fuori coi tuoi amici! Io non tollero che…”
Il resto della ramanzina si perse per strada mentre Sara, la schiena rigida e la testa china, superava la madre con stizza e tornava in camera. Ovviamente, la voce si alzò e la seguì.

“… e quest’anno hai la maturità! Se non passi con un voto decente e non ti decidi a studiare ne patirai le conseguenze, non credere! E… ma non hai ancora aperto le finestre?”

“Mamma piantala! Devo vestirmi!”
“Ma almeno apri le imposte, cavolo! C’è una puzza tremenda qui dentro, fai entrare un po’di aria”.
“Questa ‘puzza tremenda’ sono i miei incensi per meditare, e sai benissimo che non tollero la luce del sole, quindi per favore…”
“Sono stufa di queste fisime! Non hai alcun problema col sole, sei solo fissata di essere un vampiro o qualcosa del genere! E la tua camera è un porcile, Sara!”

Sara pestò il piede e si imbronciò ancor di più.

“Tu non mi capisci, non mi hai mai capita! Mi disprezzi perché ho un livello di consapevolezza più acuto del tuo, mi temi per il mio potere! E ti ho detto mille volte che devi chiamarmi…”

“Ma quale potere! E quali nomi strani! Ti chiamo come mi pare, perché io ti ho fatta e io decido della tua vita finché vivi sotto questo tetto! Io…”

Una terza voce, maschile e profonda, interruppe il litigio.
“Sara, io vado tra quattro minuti e trentadue secondi esatti. O ti fai viva o vai coi mezzi pubblici oggi. Tuo fratello è già pronto, quindi vedi di darti una mossa”.

Sara lanciò un’ultima occhiata sprezzante alla madre, che strinse le labbra e le voltò le spalle.

Le ci vollero pochi istanti per vestirsi: la corta gonna nera di tulle, le calze smagliate e la camicia di pizzo nero erano già pronte; si infilò gli anfibi, li allacciò e corse giù dalle scale.

Suo padre, ventiquattr’ore alla mano, era fermo davanti alla porta. Tommaso, al suo fianco, ascoltava musica dagli auricolari con il cappuccio della felpa tirato su.

“Fai colazione in fretta, e non fare storie: bevi il caffelatte e mangia due biscotti, è già tardi”.

“Non toccherò niente che provenga da qualcosa di animato. Lo sai. Piuttosto digiuno”.

“Bene, buon per me. Prima o poi ti passerà anche questa fissazione del vegetarianismo…”
“Vegana, pa’. Sono vegana, è diverso”. Si gettò lo zaino su una spalla e uscì.

La macchina era già aperta e i tre quarti della famiglia vi salirono.

 

Un quarto d’ora più tardi arrivarono a destinazione.

“Buona giornata, ragazzi”, li salutò il padre mentre i due figli scendevano dall’ auto.

Nessuno dei due rispose al saluto. Tommy si affrettò  verso la grande porta a vetri all’ingresso, dove un gruppetto di ragazzi lo salutava con la mano.

Sara si avviò più lentamente, strusciando i tacchi degli anfibi contro l’asfalto.

Tanto nessuno mi sta aspettando…

Mentre si avvicinava all’ingresso passò di fianco alle aiuole verdi che affiancavano il viale d’ingresso. Si spostò sull’erba verde e si inginocchiò in silenzio, sfiorò con la punta delle dita un fiore di dente di leone un po’rattrappito e, con un sorriso vago, mormorò una preghiera.

Un paio di ragazze, passando, la indicarono ridacchiando.

“Quella è la tipa fuori di testa della quinta C, te l’ho detto che era svitata!”

“Sì, sì! Ma hai visto come si concia?”
“È matta come un cavallo!”

Sara strinse i denti e si rialzò, incurante dell’erba che le sporcava le ginocchia.

“Stupide! La mia Dea vi punirà per la vostra cecità! Lei è ovunque, anche in voi, anche se non volete ascoltarla! E lei mi ha chiamata, io ho il potere di parlare coi  suoi figli!”
Così dicendo indicò con un gesto imperioso il dente di leone, appassito e squallido tanto quanto prima.

Le due ragazze la guardarono con gli occhi sgranati e si allontanarono di qualche passo, intimorite; quindi la lasciarono lì in mezzo all’aiuola. Se ne andarono parlottando tra loro e lanciandole occhiate sgomente.

 

Gaia guardò Gesù scuotendo la testa.
“Cioè, ti rendi conto di che razza di mentecatti mi ritrovo? Cecità, immanenza… figli! Io non ho figli! E se anche li avessi non permetterei a una cerebrolesa come quella di parlare con loro!”

Gesù annuì pensieroso e le batté delicatamente sulla spalla.

“Però ammetterai che è divertente. Possiamo andare avanti a guardare ancora per un po’?”

Madre Natura fece una smorfia e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, facendo scappare un paio di colibrì.

“Se proprio ci tieni…”

 

L’aula era piena. Di ragazzi e del classico brusio da assenza di professore.

Sara era intenta a scrivere su un diario con una stilografica rosso scuro.

“Che fai?” chiese la sua compagna di banco.

“Nulla. Scrivo poesie”.

La ragazza le rivolse uno sguardo indifferente.

“Ancora?”
“Sempre. È il solo modo per sfogare tutta la potenza che ho nel cuore… mi capisci, Anna? No, vero?”

Anna sorrise.

“Sei bislacca, ma ti voglio bene lo stesso. Dai, fammi leggere…”
“Solo perché sei mia amica. Potrei uccidere per una simile offesa da parte di chiunque altro. Ecco, tieni”.

Nere lacrime di sangue

Cuore infranto di fronte all’eccidio

Un gemito, il nulla

Per nutrire i tuoi nemici

Sporgendo le labbra, le sopracciglia sollevate, Anna riconsegnò il diario alla compagna di banco.

“Carina, eh. Cosa vuol dire?”
Sara guardò sognante fuori dalla finestra.

“Pensavo alla macellazione dei polli, una pratica così orrenda… tu saresti una strega eccellente, sai? Però dovresti smettere di mangiare carne, offusca le tue percezioni!”

Anna si contorse un po’per togliersi la felpa rossa, ridacchiando.

“Guarda, sto bene così, ma ti ringrazio per la proposta… oh, sta arrivando la DeAngelis, la sento parlare in corridoio”.

“Secondo te oggi interroga?”
“Probabile. Non so nulla, ieri avevo l’allenamento di pallavolo e quando sono tornata non avevo proprio voglia di mettermi a fare la versione. Tu invece…?”
“Io mi affido alla lungimiranza della Dea, non permetterà che alla sua serva capiti qualcosa di male”.

Anna si morse la lingua e si gettò a capofitto nella cartella alla improvvisa ricerca di qualcosa di estremamente importante ed estemporaneo. In quel momento il trillo della campanella fece sobbalzare svariati studenti. La porta si richiuse alle spalle dell’alta, segaligna professoressa in giacca di tweed.

“Buongiorno ragazzi”.

Qua e là risuonarono dei vaghi, borbottati “’Giorno prof”.

La professoressa spostò la sedia dietro la cattedra e sistemò la valigetta, estraendone il registro blu.

“Bene. Spero sarete preparati per l’interrogazione di oggi. Ci sono volontari?”

Nella classe rimbombò il silenzio attonito dei bovini da latte.

“Lo sospettavo. Vorrà dire che estrarrò a caso”. Prese un libro e lo aprì a caso.

“Pagina 241… facciamo la somma, esce il numero 7, che nell’elenco corrisponde a…”
Sara abbatté la testa contro lo spigolo del banco e cercò di mimetizzarcisi.

“Sara, puoi venire?”
Rassegnata, la ragazza alzò la testa.

“Prof, almeno lei. Non mi chiami così”.

La professoressa inarcò le sopracciglia dietro gli occhiali dalla montatura di metallo.

“Curioso. Il registro dice esattamente che ti chiami in questo modo”.

“Sì, ma lo sa che preferisco Guinevere Absinthe Sidhe. È il mio vero nome”.

“Direi che Sara possa andare bene, ti va? Su, avvicinati. Mi piacerebbe tanto sapere cosa sai dirmi di Euripide…”

Venti minuti e un cinque e mezzo più tardi Sara tornò al banco.

 

La campanella strillò l’inizio dell’intervallo.

“Anna, è una congiura. Questo non è il mio mondo!”

“Ah”.

“Voglio dire, pensaci. Per gli standard di questo millennio sono troppo pallida e troppo grassa, mentre –chessò- mille anni fa sarei stata la più bella del mondo. Avevano canoni di bellezza più attinenti alla natura, sarei stata l’immagine della Madre che dona la vita, avrei partecipato ai riti per la fertilità nei campi della Britannia e… e sarei stata me stessa!”

Anna, impegnata a mandare rapidi SMS a destra e a manca, bofonchiò un assenso. Sara si sistemò meglio sulla panchina e frugò nella cartella; infilò una sigaretta in un lungo bocchino nero e l’accese.

“Qui essere una strega è socialmente squalificante, nessuno mi capisce e la gente mi teme, hanno tutti paura di ciò che sono e del fatto che posso davvero comunicare col mondo vivente. Io sento il vento che mi parla, percepisco il terrore della mosca nella tela del ragno e la vita che scorre nei petali dei fiori. Le persone comuni”, proseguì infondendo una nota di disprezzo nella parola “non capiscono che il ciclo delle stagioni rappresenta tutti noi e le nostre esistenze e…”

“Già, già…”

“Vedi, anche solo il fatto che nessuno mi chiami col mio nome spirituale mi ferisce. Questo epiteto che mi è stato affibbiato dai miei genitori terreni non mi rappresenta, è come tenere in gabbia una cinciallegra, le piccole ali che frullano contro le sbarre agognando una libertà che non può…”
La campanella suonò di nuovo.
Anna si rientrò in aula senza mai smettere di mandare messaggi col piccolo cellulare; Sara spense la sigaretta e la seguì, sospirando di affranta malinconia.

 

“Vedi? Vedi cosa intendevo? Lo capisci che è una deficiente? A me non interessa della gente, o meglio, non mi interessa più di quanto mi importi dei lemuri o dei camosci. Anzi, questi li preferisco perché non danno fastidio a nessuno, non si mettono a demolire le cose che costruisco, non appestano il pianeta con esalazioni fetide e cemento e schifezze varie!”

“Gaia, io…”
“No, devo sfogarmi! Te ne ho fatta vedere una, ma hai idea di quante ce ne siano in giro per il mondo?”
Gesù alzò una mano e la zittì.

“Alt, alt. Ora, non venire a raccontarlo a me. I miei sono di sicuro di più e più accaniti. L’hai sentita, la tizia? Di Medioevo, parla lei. Medioevo! Non li chiamano “secoli bui” tanto per dire. È lì che i miei –ehm- fedeli hanno cominciato a travisare tutto, dalla prima all’ultima parola”.

Madre Natura si sedette sul bordo del buco tra le nuvole e fece spenzolare giù le gambe.

“Lo vedi il paradosso? Lei non capisce nulla, i tuoi non capiscono nulla… avrebbero bisogno di una bella lezione”.

Gesù scosse la testa.

“Ho chiuso coi miracoli. E, lo so bene, sono sempre stato l’unico autorizzato a farne. Non servirà”.

“Ma pensa un po’: se almeno una persona potesse rendersi conto di cosa è davvero quello che portiamo avanti sarebbe un inizio, una testa di ponte… capisci?”
“E cosa vorresti fare?”

Gaia guardò giù. L’oggetto del loro disquisire stava china sul libro di storia e fissava sognante l’immagine di una scena di vita intorno all’anno mille.

“Ti ricordi… ti ricordi il vecchio detto? ‘Attento a quello che chiedi perché potresti ottenerlo’… Ecco, potremmo concederle quello che desidera. Ora. Subito”.

Lentamente, Gesù voltò la testa.
“Dici sul serio? Non sarebbe dannoso o pericoloso o…”
“O incredibilmente divertente?”

I due si guardarono per un attimo mentre due sorrisi sardonici si aprivano sui loro visi.

“Si può fare!”

   
 
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