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Autore: Rowena    31/01/2011    3 recensioni
La nuova guerra magica aveva colpito anche lontano, seguendo la sete di potere dell’Oscuro Signore appena sconfitto, segnando dunque gravi perdite ben al di fuori dei confini britannici.
Nessuno si stupì, dunque, se i più rinomati e famosi fabbricanti di bacchette, artigiani eredi di una tradizione antica, si radunarono in un paesino della Bulgaria per rendere l’ultimo omaggio a un loro compagno.
E cominciarono a chiedersi se non fosse il caso di considerarsi una specie in via d’estinzione.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Marietta Edgecombe, Nuovo personaggio, Olivander
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ottime bacchette dal 382 a.C.'
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Mentre il rinfresco procedeva, i fabbricanti di bacchette si ritirarono nella casa di Gregorovitch, che era giusto lì vicino, e si chiusero nel suo vecchio studio a discutere.
Olivander si avvicinò al giovane italiano, Marco della Masca. Conosceva suo padre dai tempi dell’apprendistato ed era uno dei pochi Maestri che osava chiamare amico, perciò vedere il figlio lo aveva un po’ intristito, non potendo scambiare quattro chiacchiere col vecchio Sallustio. «Sono felice di vederti», lo salutò in ogni caso, sforzandosi di considerarlo suo pari e di non pensare a quand’era bambino, «come sta tuo padre?»
Il ragazzo sorrise e si scosse i capelli con una mano. «Oh benone, signor Olivander, ma ha preferito mandare me perché facessi esperienza. È la mia prima riunione tra i Maestri…»
«E non dovresti essere qui», lo interruppe Jorgensson, l’alto svedese dai capelli chiarissimi. «Non sei stato ancora presentato ufficialmente alla corporazione, e il titolo di Maestro spetta ancora a tuo padre».
«Fatti gli affari tuoi, Jorgensson», rispose Marco piccato, «sei l’unico che ha da dire».
«Un bambino intestardito a creare bacchette brutte e poco funzionali non dovrebbe neanche sognarsi di presenziare a una discussione ufficiale dei fabbricanti della corporazione, è questo quello che penso».
«Abbiamo capito come la pensi, Jorgen Jorgensson», disse severo Olivander mettendosi in mezzo e calcando sulla pessima scelta di nomi del padre del collega scandinavo, «però il ragazzo è qui e nessun altro si sta lamentando, perciò taci. Che intende dire con brutte bacchette?», domandò poi a Marco.
Il ragazzo aprì la borsa che aveva portato con sé ed estrasse il suo ultimo lavoro con aria orgogliosa: era una bacchetta piuttosto strana, per il gusto estetico di Olivander, che non riuscì a non dare ragione a Jorgensson. Il legno usato non era stato trattato per eliminare le imperfezioni, era pura corteggia nodosa e contorta, tanto che l’oggetto sembrava coperto da grosse verruche.
«Legno di ulivo, è una mia idea: papà non approva, ma i miei esperimenti finora hanno dato risultati interessanti», esclamò Marco. «Non l’abbiamo mai usato perché deve essere stagionato nella giusta maniera, altrimenti è intrattabile, ma…»
«Perdonami, Marco, ma credevo che avessi letto i testi fondamentali della nostra professione. Il De figuris et lines circa, tuo padre possiede anche l’originale!», esclamò Olivander quasi sorpreso dall’orrore che il giovane della Masca gli aveva mostrato. «L’importanza di conferire alla bacchetta una forma lineare e congruente perché l’energia magica del proprietario sia catalizzata correttamente, senza contare i risultati di un’anima non distribuita correttamente per tutta la lunghezza dello strumento. Sono le basi, ragazzo mio».
«Ovviamente, ma non sarebbe l’ora di provare qualcosa di nuovo?», domandò il ragazzo come se fosse ormai stanco di sentirsi rivolgere quella domanda. «Ho apposto dei piccoli incantesimi per controbilanciare la forma meno semplice e i nodi svolgono una funzione di serbatoio, così da poter aiutare il mago che impugna la bacchetta quando esso comincia a non avere più energia. Non ho preso il primo ciocco di legno che mi è apparso intrigante, signore».
Olivander era sorpreso da tanta passione, e le idee di Marco non sembravano sbagliate. «Ne parleremo dopo», ammise con più indulgenza, «ora entriamo».
La casa di Gregorovitch era piccola e in linea con l’architettura dell’Europa dell’Est, perfettamente inserita nel quartiere in cui si trovava. Il negozio in realtà si trovava a Sofia, nella obština magica, ed era già stato controllato da Jusupov prima di recarsi alla cerimonia.
Entrando, i fabbricanti di bacchette non badarono al salotto in disordine né ai segni di lotta che apparivano chiari ai loro occhi e proseguirono fino al retro della casa, dove si trovava il piccolo studio del defunto: un ampio tavolo scuro molto usato e molti armadi, ma nessun segno di attività recente.
«È piuttosto macabro, qui, se pensiamo a quello che è successo…», osò dire il giovane italiano dando un’occhiata intorno.
Jusupov gli scoccò un’occhiata severa: «Sciocchezze, se siamo venuti a questa ridicola funzione era solo per poterci riunire qui senza dare nell’occhio. Serena, guarda quante bacchette sono ancora qui e quante vale la pena recuperare».
La ragazza con l’ampia gonna da zingara annuì e si mise ad aprire cassetti e armadi alla ricerca di tutte le bacchette salvatesi. Olivander assistette con un certo disagio, sentendosi suo malgrado un ladro. Non c’era rimasto molto, poterono constatare: la maggior parte dei prodotti di Gregorovitch era sparita, probabilmente portata via da delinquenti qualunque per rivenderle.
«Anche se forse l’Oscuro Signore ha mandato i suoi sgherri qui a rifornirsi, dopo che sono fuggito», mormorò appena il mago inglese.
Olivander non riteneva una perdita che i frutti di tanti anni di duro lavoro del suo collega fossero andati perduti: Gregorovitch aveva una tecnica particolare che gli diceva nulla, creava bacchette troppo spesse e dalle proporzioni sbagliate. Nemmeno lui sembrava aver troppa confidenza con gli autori classici, pensò guardando di sottecchi il giovane della Masca.
Tuttavia, la sensazione sgradevole alla bocca dello stomaco che provava da tempo non voleva lasciarlo in pace.
«Alors, miei cari, possiamo sapere quale bisogno c’era di riunirci qui con tale fretta?»
Madame de Guise, un altro personaggio che Olivander non sopportava. Trovava disdicevole che un Maestro avesse scelto come successore una donna così frivola e civettuola, non era adatta al compito. Evidentemente la sua faccia era più espressiva di quanto non credesse, perché la strega lo fissò per un attimo e scoppiò a ridere.
«Insomma, monsieur Olivander, non sarete ancora sconvolto per quel capello di Veela!»
Anche qualcun altro scoppiò a ridere, Jorgensson lo svedese e il suo amico di Berlino, Güstav, segno che la vicenda non era stata dimenticata. Olivander si gonfiò di rabbia, offeso: qualche anno prima, aveva scritto a diversi colleghi con un tono un po’ troppo infervorato chiedendo se era accettabile che una Maestra si abbassasse a usare anime così poco nobili e potenti per le sue creazioni. Il suo richiamo a non sperimentare in maniera pericolosa e poco etica era diventato presto una barzelletta, tra i suoi colleghi.
Un capello di Veela, ricordava benissimo la pesa delle bacchette per il Torneo Tremaghi.
«Affatto, sebbene sia ancora convinto che un simile ingrediente magico sia assolutamente inadatto per creare bacchette forti e affidabili», rispose mantenendosi calmo.
In effetti, la proprietaria di quella bacchetta era poi stata la peggiore al Torneo, ma di certo tra le due cose non poteva esserci un nesso.
Madame de Guise sogghignò prima di sistemarsi la frangetta con le dita. «È venuta da me la nonna, quella completamente Veela, e si è strappata davanti a me i capelli per creare le bacchette per le sue nipoti. Pensava che con una simile anima, sarebbero state più efficaci nel catalizzare l’energia magica delle due ragazze, temeva che il loro sangue misto…»
«Adesso basta! Non siamo qui per discutere di capelli di Veela», tuonò Jusupov che, com’era sua abitudine, sfruttava l’età avanzata per fare la voce grossa tra i colleghi. «Abbiamo questioni ben più serie da affrontare, se non ricordo male. Mi meraviglia, Madame de Guise, che chiediate il motivo per esserci trovati qui».
La donna sembrava confusa. «Ma certo, la commemorazione di Gregorovitch», provò a rispondere, ma evidentemente non era quanto il vecchio fabbricante si aspettava di sentire, visto che sbuffò sonoramente.
«Non la commemorazione, la morte di Gregorovitch, signora. Sono davvero il solo a essere preoccupato per questa perdita? Un’ampia regione d’Europa al momento non ha un Maestro, e una tradizione secolare è morta con il nostro collega. Davvero questi fatti non turbano nessuno di voi?»
Olivander si sentì quasi un veggente per aver indovinato alla perfezione cosa agitava davvero Jusupov. «Che cosa suggerisci, uno di noi dovrebbe spostarsi qui per un po’, tanto per coprire l’emergenza?», domandò cercando di mantenersi calmo.
«Ci ho pensato, ma così sposteremmo soltanto il problema», gli rispose Jusupov. «A meno che il figlio di della Masca non si offri, è l’unico allievo già formato e pronto per un impegno del genere in tutte le nostre botteghe».
Marco sembrò un poco sorpreso. «Io? Ma come, non sono ancora stato presentato, non sono…»
«È una situazione di emergenza: ho parlato con tuo padre e si è detto disponibile a prestarti alla corporazione per qualche tempo. Se accetti, nel momento in cui ci sarà un nuovo apprendista da destinare a questa regione sarai immediatamente riconosciuto come Maestro, anche se non è ancora arrivata l’ora di Sallustio».
Il colore sparì dal volto del ragazzo, che sembrava non voler pensare a cosa davvero significava diventare un membro della corporazione. Il titolo di Maestro era unico e, in genere, legato alla zona geografica. Così come l’Europa era divisa per aree d’influenza – oltre che per stati sovrani – ognuna intorno a una scuola, che rimaneva il centro del sapere magico, nello stesso modo i fabbricanti di bacchette evitavano di darsi fastidio a vicenda occupandosi soltanto della propria regione.
Non era solo una questione di rispetto della concorrenza: la regola della corporazione prevedeva che in ciascuno di questi territori vi fosse sempre un solo Maestro vivente, perciò fino a che il vecchio della Masca non fosse morto, per Marco non vi era possibilità di essere riconosciuto dagli altri come un pari.
Sallustio stava preparando suo figlio perché fosse un buon successore, non un collega, ma l’idea di poterlo vedere in azione sul serio doveva essergli piaciuta subito, pensò Olivander, era così fiero di suo figlio. Chissà se tale opinione era rimasta tale dopo quelle orrende bacchette nodose, doveva scrivergli per avere sue notizie.
«La questione è se non sia il caso di riscrivere le regole», disse con un accento molto marcato il greco, Mercouris. «Conviene davvero rimanere in così pochi? Nessuno di noi ha apprendisti, in questo momento, e l’età media… È molto alta. Senza offesa, colleghi».
Olivander si sentì chiamato in causa ma cercò di non prenderla a male. Era vero, la maggior parte di loro era anziana e l’unico abbastanza sveglio da prepararsi per il futuro era stato Sallustio. E se lui stesso avesse perso la vita durante la prigionia a Malfoy Manor? Avrebbe lasciato la sua bottega e dodici secoli di tradizione a discrezione di quegli strani soggetti che doveva chiamare colleghi.
Non avrebbe più potuto permettersi un rischio simile: appena tornato a casa, avrebbe fatto una visita a Hogwarts per cercare nuovi allievi.
«Riscrivere le regole, Mercouris? Vallo a dire alla Confederazione Internazionale dei Maghi e penseranno che vogliamo di nuovo conquistare il mondo come i nostri antenati nel 1345», sbuffò Jorgensson. Era vero, molti secoli prima i depositari della conoscenza necessaria a creare l’arma fondamentale per un mago avevano tentato di ottenere il controllo di mezza Europa. Da allora la corporazione era sempre sotto controllo: nessuno s’impicciava nei loro affari, eppure c’era tutto un lungo codice a cui dovevano attenersi.
Olivander, tuttavia, non aveva voglia di sentire discorsi che rischiavano di sfociare nella pura burocrazia. Aveva una sorta di conto in sospeso che voleva sistemare prima di ripartire.
«Credo che sia meglio parlare delle priorità: anche inviando Marco qui per un po’, chi lo sostituirebbe? Gregorovitch è morto e non c’è neanche mezzo allievo che possa prendere il suo posto», rimarcò per l’ennesima volta con l’amaro in bocca. E la colpa di tale situazione era sua.
Jusupov scosse il capo: «Per questo abbiamo già una soluzione, amico mio. Entra pure», aggiunse rivolto a una porta secondaria a cui nessuno, fino a quel momento, aveva fatto caso. Inaspettatamente, comparve la ragazza bionda di poco prima; a quella distanza era impossibile non notare la somiglianza con Gregorovitch.
«Signori, questa deliziosa signorina è la figlia maggiore di Gregorovitch. Si chiama Jurga e ha chiesto di essere addestrata per prendere il posto di suo padre».
Dal capannello di maghi si udirono molte voci, diverse protestavano e le altre sembravano sorprese. «Nessuno l’ha mai sentita nominare, da dove salta fuori questa ragazza?», domandò qualcuno alle spalle di Olivander.
«Mio padre parlava poco della sua famiglia, e ancor meno di me, specie da quando mi ero rifiutata di seguire le sue orme», spiegò la giovane strega, «ma la sua morte e quella di mia madre e dei miei fratellini mi ha fatto cambiare idea. Vorrei portare avanti la tradizione della mia famiglia, così non ci sarà neanche bisogno di cambiare l’insegna a Sofia».
Olivander chinò il capo per evitare lo sguardo severo della ragazza, certo che fosse rivolto espressamente a lui. Che sapesse cos’era successo nei dettagli, a chi attribuire le responsabilità della sua perdita?
Jusupov, invece, sembrava divertito dalla reazione che aveva scatenato nella stanza. Spiegò che Jurga gli aveva scritto perché era l’unico di cui aveva trovato l’indirizzo nelle carte del padre, e che trovava ragionevole che fosse lei a sostituire Gregorovich.
«Le serve solo un Maestro che le insegni la nostra onorata professione», concluse con un mezzo sorriso, «ci sono volontari, signori?»
Sembrava quasi una sorta di riscatto, quello che gli stava venendo offerto. Prima di poterci pensare con maggiore tranquillità, Olivander fece un passo avanti.
«Io».

   
 
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