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Autore: My Pride    20/02/2011    4 recensioni
Volgi lo sguardo al cielo e osservi, attento;
torni poi a guardare la foglia, scoprendo che il bruco è divenuto farfalla.

In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di lacrime.
Non di nuovo, pensò angustiato, non di nuovo, per l’amor del Cielo.
[ Prima classificata al contest «Competition for long-fic published» indetto da Insana e valutato da NonnaPapera ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Scena Drammatica al contest «The Thousand and One Nights» indetto da Prior.Incantatio ]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Un oscuro angelo_2
ATTO II: INVERNESS › SCOZIA, 1888
A ROOM WITHOUT A MIRROR
[1]

Qui, solitario loco ove anch’io
posso trovare il sonno eterno,
tu, o mio infido amante,
chiudi l’occhi al tristo mietitore.

 
    Quel giorno, il sole era sorto a carezzare piacevolmente il maniero e i suoi dintorni, portando con la sua luce una placida tranquillità nei cuori dei suoi abitanti.
    I domestici avevano già cominciato a darsi da fare sin dalle prime luci dell’alba, tra le pulizie di casa e la colazione per i loro padroni. Solo un’anima, come se fosse preda di incubi o deliri, si agitava fra le sue coltri, artigliando fra le dita la bianca camicia da notte che indossava. Scosso da immagini e voci che correvano veloci nella sua mente, muoveva la testa sul cuscino, dov’erano sparpagliati i suoi capelli mori. D’un tratto, Jason aprì di scatto le palpebre, fissando gli occhi azzurri sul soffitto. Aveva il respiro velocizzato e la fronte madida di sudore, quasi avesse la febbre.
    Deglutì più volte prima di mettersi a sedere, portandosi una mano alla testa per intrecciare le dita fra i capelli; non ricordava nulla del sogno che l’aveva turbato, ma quella sensazione che aveva provato durante quell’incubo non era scomparsa. Rammentava solo che si era ritrovato in un luogo buio, senza alcuna luce, dove non era giunto nessuno a portarlo via da lì. Quell’angoscia l’aveva sentita soltanto durante i primi anni della sua vita: quel terribile senso di abbandono; quell’essere consapevole di non poter contare su nessuno se non su se stesso; quella paura che lo scuoteva durante le notti trascorse in orfanotrofio. Aveva avuto il potere di fargli tornare alla mente quei giorni, quell’incubo. E non voleva che quei fantasmi del passato tornassero a tormentarlo.
    Con un po’ di incertezza, si liberò con mano tremante delle coltri, poggiando poi i piedi oltre il bordo del materasso. Si sorreggeva ancora il capo, come se in quel modo potesse cancellare del tutto la sensazione che aveva provato e i suoi molteplici pensieri. Gettò uno sguardo al grande balcone posto alla sinistra della sua camera, vedendo qualche raggio di sole infiltrarsi birichino fra le tende. Il ragazzo si strofinò gli occhi più volte mentre si alzava, camminando scalzo sul pavimento per andare ad aprire la porta-finestra che dava sull’ampio cortile. Il canto della pernice giunse nitido e armonioso alle sue orecchie, lenendo almeno in parte le sue preoccupazioni. Tutti i colori della vegetazione, poi, erano ravvivati dalle goccioline di pioggia ivi rimasta: dagl’iris al germoglio appena spuntato; dagl’alberi di pino ai larici; persino le felci che s’intravedevano risplendevano di tante minuscole gocce. Anche una delle cameriere, che s’affaccendava nel piccolo orto, sembrava godere d’ogni minimo suono e di quel sole che, dopo il temporale del giorno addietro, scaldava piacevolmente il Paese. Sorrideva serena mentre raccoglieva carote e rape, scostandosi di tanto in tanto i fulvi capelli; li teneva come suo solito castigati in un’alta crocchia, dalla quale qualche ciuffo ribelle sfuggiva ricadendo ad infastidirle il viso. Sembrava canticchiare una dolce nenia nella sua lingua natia, interrompendosi solo per scambiare qualche chiacchiera con il giardiniere poco distante che, con il medesimo e allegro sorriso di lei dipinto in volto, potava le rose tranquillamente.
    Jason distolse lo sguardo, richiudendo la porta-finestra per estraniare dalla sua stanza la familiare melodia mattutina. Tornò al suo letto, soppesando con lo sguardo gli indumenti che aveva indossato la sera addietro e che aveva lasciato lì, come stracci vecchi, sulla sedia della sua scrivania: da quel che sapeva, nessuno di loro aveva portato più quell’indumento da quando la battaglia di Culloden
[2] - di cui tanto aveva sentito parlare dal padre con fervore - s’era conclusa con una sconfitta, sebbene quel bando fosse stato abolito già da parecchio tempo. Ma, ben sapendo quanto lo stesso padre tenesse alle vecchie usanze e tradizioni, indossava quegli abiti solo all’interno del maniero, e solo ed esclusivamente per fargli piacere. Si ritrovò a scuotere la testa come per scacciare un pensiero fastidioso, dandosi una sistemata per vestirsi poi con una semplice camicia e un calzone. Mentre attraversava i corridoi, però, una bizzarra ed opprimente ansia lo scosse, senza che lui riuscisse a capire da dove arrivasse quella sensazione. Era dovuta forse al sogno che aveva fatto? Non avrebbe saputo darsi una risposta concreta. Aveva sicuramente bisogno d’uscire, di respirare aria fresca; sarebbe andato in città, prendendo uno dei purosangue dalle scuderie per non scomodare il cocchiere. Una cavalcata fino ad Inverness gli avrebbe fatto più che bene. Quel pensiero bastò a rallegrarlo di poco e a fargli affrettare il passo, come se volesse consumare velocemente la sua colazione per lasciare il maniero.
    Giunse alla sala da pranzo e si sorprese quando, oltre allo zio Seamus, trovò seduto a tavola anche suo padre: sembrava molto rilassato, più dei giorni precedenti, ma, ciò che maggiormente lo stupiva, era la sua presenza. Era molto raro, difatti, vederlo consumare dei pasti il primo mattino e, in particolar modo, in compagnia di qualcuno. Non fece domande mentre s’avvicinava per accomodarsi, nonostante gli occhi azzurri non lo perdessero un attimo di vista. Erano entrambi in silenzio, a far colazione con qualcosa di leggero: il padre aveva cominciato a sorseggiare tranquillamente del the e, dalla densa e delicata fragranza che si spandeva nell’aria, sembrava essere Earl Grey
[3]; lo zio, invece, aveva dinanzi a sé un filetto di salmone cotto in camicia e qualche focaccia di grano. Jason si sedette in silenzio e si limitò ad osservarli, ringraziando distrattamente quando un cameriere portò anche il suo pasto, composto dalla medesima pietanza.
    Non si scambiarono parole mentre consumavano la colazione ma, di tanto in tanto, scoccava qualche occhiata al padre che, come suo solito, non si era fatto portare nulla se non quel the. Lasciò la sala solo qualche minuto dopo, facendo appena un rapido cenno di saluto, probabilmente per rinchiudersi nuovamente nelle sue stanze. Quando furono soli, il ragazzo sentì lo zio trarre un lungo sospiro, anche se non fiatò. Si concentrò solo sulla restante colazione, e lui fece lo stesso; non era mai stato così grato di quel silenzio come quella mattina. E fu ancor più riconoscente quando terminarono e lasciarono la sala, salutando lo zio prima di correre verso le scuderie. Vi trovò Mòrag, la giovane donna a cui erano affidate le cure dei cavalli. Aveva raccolto i lunghi capelli biondi in un’alta coda e, serena come lo erano stati la cameriera e il giardiniere durante le prime ore di quella mattina, stava mormorando qualche parolina ad uno dei cavalli, forse per farlo stare buono mentre s’occupava del suo manto.
    Quando s’accorse del ragazzo, interruppe il suo lavoro per voltarsi del tutto verso di lui, chinandosi a mezzo busto con le mani abbandonate lungo le cosce. «Buongiorno, signorino», disse, regalandogli un sorriso.
    Jason sorrise di rimando, gettando poi uno sguardo veloce ai restanti box pieni. «Potresti sellare Samhradh
[4], Mòrag?», le chiese cordiale, avvicinandosi al suo purosangue per accarezzargli il muso. «Vorrei raggiungere la città».
    Seppur un po’ perplessa da quella richiesta, lei non domandò altro, aprendo il box per preparare il cavallo del suo signorino. Samhradh, questo era il suo nome, era un possente puledro dal manto nero che era stato regalato al ragazzo il giorno del suo quindicesimo compleanno: l’aveva chiamato così perché, semplicemente, la stagione in cui l’aveva ricevuto in dono era l’estate. Ricordava che aveva provocato l’ilarità della sua lontana cugina Màiri per quella scelta. Un nitrito del cavallo bastò a richiamarlo dai suoi pensieri e, quando si voltò, i suoi occhi si persero in quelli neri dell’animale. Gli carezzò nuovamente il forte muso, rivolgendo alla donna un altro indulgente sorriso. «Grazie davvero, Mòrag», mormorò il ragazzo, issandosi in groppa al cavallo mentre lei teneva ferme le briglie e l’osservava.
    «E di cosa, signorino», parve polemizzare, anche se divertita. «Questo è il mio lavoro».
    Il giovane sorrise ancora, carezzando il collo dell’animale. «Tornerò nel pomeriggio», annunciò, picchiettando i fianchi del destriero per fargli fare qualche passo e uscire dalle scuderie. «Ci penserò io a Samhradh, poi».
    «Come desidera», disse subito lei, seguendolo con lo sguardo mentre s’allontanava.
    Jason lanciò il cavallo al trotto e poi al galoppo, godendo di quella libertà che sentiva man mano che il maniero dietro di sé diventava solo un punto indistinto. Avrebbe tanto voluto lanciarsi fra i boschi, stare ad ascoltare ogni singolo suono della natura; gli sarebbe piaciuto anche cacciare, magari per distrarsi, anche se con sé non aveva portato praticamente nulla per farlo. Con quei pensieri che si facevano largo nella sua testa quasi non s’accorse d’esser giunto nei pressi della città, raggiungendola quando il sole fu quasi alto nel cielo. Scese da cavallo e lo legò accanto ad una mangiatoia poco distante, carezzandogli il muso e sussurrandogli che sarebbe tornato presto. S’inoltrò poi fra le vie della città, sentendosi quasi rasserenato. La vita che percepiva scorrere, accompagnata al chiacchiericcio allegro e alle tonanti voci dei venditori, riusciva a fargli dimenticare parzialmente cosa affliggesse il luogo in cui viveva. Non era mai stato un ragazzo egoista ma, almeno quel giorno, voleva pensare solo a se stesso e al suo benessere, cancellando tutto il resto. Si meravigliò d’ogni minima cosa che vedeva, d’ogni più piccolo oggetto; gli era sembrata un’eternità quella che aveva passato rinchiuso nella magione senza partecipare più alle serate mondane. Non se ne interessava molto di tali cose, certo, ma un tempo erano un modo come un altro per poter scoprire cose che non avrebbe creduto possibili.
    Non seppe quando tempo passò fra quelle strade, consumando un pasto leggero che quei pochi soldi che si era portato dietro gli avevano permesso di comprarsi. Solo quando vide le vie spopolarsi decise a sua volta di tornare, ripercorrendo i suoi passi per recuperare il suo cavallo. S’affrettò un po’, quasi correndo, e anche quel semplice fare lo fece stirare un altro sorriso. Ad una distanza non molto considerevole vide il possente animale allargare le narici quando s’accorse della sua presenza, scalpicciando.
    «Jason, se ben ricordo». La voce che udì alle sue spalle, però, fu capace di farlo sussultare, tanto che si fermò a pochi metri da dove aveva lasciato legato il suo destriero. Fu con molta lentezza che si voltò, specchiandosi in quelle polle innaturalmente dorate che l’osservavano con bislacco divertimento. Il sorriso dipinto sul volto di quel nuovo arrivato ammorbidiva i lineamenti delle sue labbra sottili, donandogli un aspetto quasi bonario ed angelico. Qualche ciuffo di ricci capelli castani cadeva scomposto sul volto d’alabastro, perfetto nella sua imperfezione: il suo possessore sembrava un angelo scacciato dal Paradiso. Era più pallido di quanto il ragazzo ricordasse, ma, passato quel suo momento di iniziale stupore, chinò con fare cortese il capo, salutandolo.  
    «È un piacere rivederla, Sir William», gli disse, sebbene nella sua voce risuonò una sfumatura di falsità ben celata. «Mio padre attendeva con ansia il vostro arrivo in città». Quella invece, seppur avesse voluto il contrario, era la pura e semplice verità. Il padre adottivo, anche senza dar voce al suo desiderio, lasciava espressamente intendere quanto la lontananza di quell’angelo l’opprimesse. Non aveva mai avuto il coraggio di chiedergli perché l’affliggesse tanto quella separazione, ben conscio che non avrebbe ottenuto nessun favorevole risultato.
    Jason osservò quelle labbra sottili incurvarsi in un altro piacevole sorriso, prima che quegli occhi d’ambra soppesassero la sua postura quasi con aria critica. «Avrei dovuto mandarvi una missiva per informarvi che sarei arrivato quest’oggi, probabilmente», rifletté l'uomo, rivolto più a se stesso che al ragazzo. «Mi par da maleducati giungere senza preavviso».
    Il giovane scosse la testa, come ad indicare che non importava. «Non si preoccupi. Come le ho ben detto, l’attendevamo». Messo in chiaro tale concetto, indicò con un gesto svogliato della mano il cavallo poco distante che scalpitava e nitriva, come stufo di quell’attesa o come se avesse fiutato qualcosa di sgradevole. «Posso portarla io, al maniero. Stavo giusto tornando», continuò il ragazzo, incamminandosi verso l’animale senza far caso al suo comportamento. «Può forse sembrare un po’ disdicevole, ma, almeno, non le farò perdere tempo alla ricerca d’una carrozza».
    Un altro sorriso accondiscendente solcò le morbide labbra del nobile, che agitò in risposta una mano. «Non rifiuterei mai una così cordiale offerta», dichiarò. «E poi, sono anni che non cavalco». Accompagnò quelle parole con un breve cenno del capo, annullando a sua volta la distanza che lo separava dal purosangue. Ad una spanna da lui, però, il cavallo nitrì e s’imbizzarrì, quasi sfuggendo alla presa del moretto che stringeva le redini ora sciolte.
    «Deagh, Samhradh, deagh
[5]!», cercò di calmarlo il ragazzo, parlando con la sua lingua madre in tono duro e imperativo. Ma più i piccoli occhietti scuri del destriero guizzavano come impazziti sul volto del nobile dalle iridi dorate, più i nitriti sembravano acquistare intensità diventando alti e spaventati. La presa delle redini si fece meno salda, tanto che Jason fu tentato di lasciarle finché non vide una pallida mano avvicinarsi al muso del destriero. Ancora un nitrito si levò dalla gola dell’animale a quel tocco, ma, quando stavolta guardò quello sconosciuto negli occhi, smise d’agitarsi tornando il cavallo mite di sempre. Quella mano di porcellana passò sotto alle narici, forse attendendo che identificasse l’odore e lo ricordasse. Il possessore di quell’arto, poi, si voltò verso il ragazzo che aveva osservato tutta la scena incredulo e senza fiatare. Solo in presenza di pericolo aveva visto il suo cavallo comportarsi in quello stesso e identico modo; era successo qualche anno prima, durante una delle ultime battute di caccia in cui si erano ritrovati a far fronte a qualche bestia selvatica. Ma quel sorriso indulgente che gli veniva rivolto, per lui, non aveva nulla di pericoloso. Solo di... ipnotico.
    «Aveva semplicemente bisogno di fare la mia conoscenza», si fece sentire quella voce soffice e vellutata, prima che l’uomo gli regalasse un ennesimo sorriso. «Direi che possiamo partire, adesso. Non vorrei far attendere più del dovuto il tuo buon padre».
    Il ragazzo non rispose né aggiunse nulla alle parole dell’altro, montando soltanto in sella per aiutarlo poi a fare lo stesso. Con una mano il nobile declinò gentilmente l’offerta, provvedendo da solo per cingere poi, in un contatto forse fin troppo intimo, i fianchi del giovane seduto dinnanzi a sé. Quest’ultimo sussultò, a quel fare, sentendo quasi un fastidioso gelo invaderlo a poco a poco, penetrando al di sotto degli abiti che indossava. Ma non disse nulla nemmeno stavolta, limitandosi solo a deglutire mentre faceva schioccare le briglie. Il cavallo partì al galoppo con un basso nitrito quando lo guidò, picchiettandogli i fianchi con uno stivale. Ben presto si ritrovarono in aperta campagna, dove tutti i colori ivi presenti cominciavano a tingersi dell’acceso colore del tramonto. Il vento s’insinuava fra i capelli d’entrambi, scompigliandoli, suonando alle loro orecchie melodie senza musica o parole; sembravano esserci solo loro e la natura selvaggia. Le Highlands, durante quel periodo dell’anno, erano sempre uno spettacolo da rimirare e da vivere.
    Tagliarono per i campi gettando maggiormente al galoppo il destriero che, essendo un cavallo nato per correre, non risentì minimamente di quello sforzo. Ancor prima che calasse il sole, erano quindi giunti fino agli enormi cancelli che segnavano quella proprietà. Lasciarono il cavallo nelle scuderie, trovandole stavolta vuote. Mòrag, probabilmente, era andata a svolgere qualche commissione. Dopo essere smontati entrambi dalla groppa, il ragazzo fece cenno al nobile di seguirlo, addentrandosi nel piccolo giardino fino a giungere ai portoni. Aprì facendo accomodare prima il suo ospite, intrattenendo una piccolo chiacchierata con lui mentre gli faceva strada nel maniero; incaricò uno dei domestici di scortare il nobile dal padre, scusandosi di non accompagnarlo lui stesso. Ma quell'uomo, con un breve cenno della mano, gli fece capire che non importava, seguendo quel servitore fino ai piani superiori.
    Quando si ritrovarono dinanzi alle porte dello studio del padrone di casa, il domestico s’affrettò ad aprirle, senza azzardarsi ad entrare. «Mio signore, l’ospite che attendevate è arrivato», annunciò, chinando il capo con fare referenziale per salutare il nobile, lasciandoli poi soli entrambi.
    Sir William lo seguì con lo sguardo, lasciandosi andare ad uno sbuffo ilare mentre faceva il suo ingresso nello studio. Una lunga libreria dai ripiani ben pieni occupava tutto il lato nord, mentre due poltrone di pelle erano poste al centro della stanza, l’una perfettamente dinnanzi all’altra. Non c’era molta luce, ma questo non parve turbare il visitatore.
    «Sei qui, finalmente», si fece sentire una voce, bassa e profonda. Proveniva da un’altra poltrona avvolta dalla penombra in cui la stanza era, dove si riusciva a scorgere a malapena la figura lì accomodata.
    Gli occhi dorati non faticarono molto a riconoscerla, e il loro possessore stirò le labbra in un lieve e dolce sorriso. «Oh... allora è vero che mi attendevi con ansia», disse con scherno, avvicinandosi. Vide quella sagoma abbandonare la sua postazione e aggirare la pregiata scrivania in legno di noce, tutto per avvicinarsi unicamente al caminetto posto al lato opposto dello studio. Seguì i suoi movimenti, il suo chinarsi accanto; non stornò lo sguardo nemmeno quando una delle sue mani prese della legna da ardere per gettarla all’interno. Con l’attizzatoio, alimentò le fiamme, ritornando in posizione eretta per voltarsi verso di lui. I colori arancioni del fuoco danzavano sul suo volto innaturalmente pallido e sui suoi capelli mori, donandogli un’aria tetra e lugubre.
    «Sai bene cosa stavo aspettando, in realtà», dichiarò, in tono schietto e duro.
    Intuendo di cosa parlasse, William arrivato accentuò il sorriso, facendolo ben presto sparire nella curva delle sue labbra. Atteggiò il viso ad un’espressione addolorata, portandosi teatralmente una mano al petto. «Sono da poco giunto qui e già pretendi di abusare di me?», chiese, fingendosi scandalizzato. «Che uomo di pochi principi morali».
    «Non voglio prediche da un mostro», ribatté immediatamente l’uomo, incamminandosi verso di lui per poterlo osservare meglio. Ma l'altro s’allontanò ben presto, distogliendo lo sguardo dal suo interlocutore per farlo vagare con finto interesse alla grande finestra posta sulla destra. Aveva portato le braccia dietro alla schiena con il fare tipico dei bambini, quasi quella conversazione che stavano intrattenendo per lui non significasse nulla.
    «Dopo tali parole potrei anche decidere di negarti ciò che desideri, sai?», disse sarcastico, voltando di poco la testa verso di lui. «Ma il mostro che hai dinanzi ha un onore».
    «Dammelo e basta», replicò l’uomo, tendendo una mano verso di lui.
    William sollevò finemente un sopracciglio. Osservò quel palmo proteso e poi il volto del proprio interlocutore, ritrovandosi per l’ennesima volta a sorridere. «Se vai così di fretta, devo supporre che quello che ti avevo lasciato un po’ di tempo fa sia del tutto finito», fece, sondando con lo sguardo la sua postura come se volesse scrutare nella sua anima.
    Il Lord non si lasciò abbindolare né da quelle parole né tanto meno da quello sguardo, facendo ancora una volta un cenno con una mano. «Questo riguarda solo me. Tu limitati a darmelo», ripeté nuovamente, senza dargli spiegazioni o soddisfazioni.
    «È diventato come una droga per te, vero?» esordì il nobile William, tentatore. «Dovresti essermi grato invece di trattarmi così», continuò, tornando verso di lui per alzare il viso ad incontrare il suo. «Non regalo a chiunque un assaggio del mio bacio immortale». Si specchiò in quelle polle celesti, che sembravano rilucere d’un ardore e d’una rabbia repressa che ben altre volte aveva veduto. Era come se ammetterlo a se stesso lo facesse star male e, tale discordanza sul giusto e sbagliato, era un chiaro invito a nozze per quel nobil uomo. Senza dir nulla allungò il volto per sfiorare le sue labbra, un breve contatto che servì solo ad annullare quelle distanze fisiche. «Siediti, sciocco», disse poi, baciandogli lievemente un angolo della bocca. «Sai bene quanto sia potente questo mio dono».
    Riscontrò l’incertezza in quelle iridi, quando s’allontanò; lo vide poi socchiudere le palpebre per annuire, come un bambino che obbediva agli ordini dettati dal padre. Sorrise ancora nel vedere tale sottomissione, schiudendo le labbra per rivelare infine un paio di candide zanne. Le sfiorò appena con la lingua, le leccò; snudandole del tutto si scoprì un polso, affondandole poi in esso per ferirsi. Il sangue sgorgò inondando la sua bocca, inebriando i suoi sensi con quel rugginoso profumo. Su di sé sentì lo sguardo dell’uomo che, accomodatosi su una poltrona, sembrava attendere, più che impaziente, soltanto lui.
    Allontanò le labbra macchiate per ricambiare quell’occhiata, avvolgendo l’altra mano intorno al polso per evitare che il sangue cadesse in abbondanza sul pavimento mentre s’avvicinava alla poltrona. Quando lo raggiunse, accostò il punto ferito alla sua bocca, assicurandosi che l’odore di quel liquido vermiglio venisse inspirato a pieni polmoni. Sentì poi, quasi insicura, la lingua del Lord accarezzare piano la pelle che si stava rimarginando pian piano, lappare il sangue che la sporcava in gran quantità; fu poi il turno di quell’incerto succhiare, di quel cercare di volere più di quanto non potesse ottenere. Rammentava bene il momento in cui si erano scambiati quel patto nella tenebra e nel sangue: quell’uomo, molti anni addietro, era diventato un suo schiavo per l’eternità senza esserne pienamente cosciente. Già il suo bisnonno, a suo tempo, avrebbe dovuto diventarlo; ma le cose non erano andate come sperava ed era stato costretto a rinunciare a quel suo capriccio. Li aveva quasi perseguitati, passando di padre in figlio alla ricerca d’un anello debole che avrebbe spezzato la catena: loro, stirpe d’antichi cacciatori, non si sarebbero mai abbassati a divenire servi d’un’immonda creatura come lui. Ma in tutte le famiglie esisteva la pecora nera: lui, la sua, l’aveva trovata. Era l’agnello sacrificale che avrebbe condotto con sé all’Inferno.
    Il suo viso si trasfigurò in una maschera di puro piacere quando sentì quel risucchio aumentare, quasi con avidità e lussuria; le mani dell’uomo avevano avvolto il suo esile polso, quasi non riuscisse a fare a meno di quel poco sangue che gli era stato donato. Il nobile fu costretto a staccarlo delicatamente da sé, a quel fare, usando una forza misurata per evitare di fargli del male. Troppo prezioso, per rischiare. «Basta così, per oggi», lo ammonì, con il tono premuroso d’una madre. «Ne hai bevuto abbastanza».  S’allontanò per girovagare nello studio senza badare più di tanto al viso del Lord, che mutò e si storse in una smorfia mentre si leccava via il sangue dalle labbra. Sembrava esserne disgustato sebbene non riuscisse a farne a meno.
    Più volte, difatti, l’uomo abbassò e rialzò le palpebre, ripulendosi la bocca con due dita. «Di un po’, sei stato tu ad uccidere quelle donne a Londra?», chiese d’un tratto in tono acido, adocchiandolo appena con la coda dell’occhio.
    William, che stava camminando come se nulla fosse per la stanza, gli lanciò un rapido sguardo, fermandosi a ridosso dei grandi scaffali della libreria. «
È giunta notizia anche fin qui, di quegli assassinii?» domandò in risposta, stirando le labbra sottili in un piacevole sorriso.
    «Mio fratello ha portato dei giornali», fece l’altro, come se ciò spiegasse tutto. «Non mi pare che tu mi abbia dato una risposta, però», soggiunse, tenendoglielo ancora presente.
    Il nobile diede vita ad una di quelle scrollate di spalle che potevano significare tutto o niente. «Se te lo domandi con tanta apprensione, nay. Non sono stato io», rivelò pacatamente, sfiorando le copertine consunte di qualche libro prima di voltarsi verso di lui. «Che bisogno avrei di fare uno scempio simile? Io caccio per necessità e, solo raramente, per divertimento».
    «Che parole immonde», esordì l’uomo, come disgustato da quella confessione. «Parli con cotanta semplicità d’un’uccisione».
    S’udì appena uno sbuffo divertito, poi i passi dell’altro che s’avvicinavano. Con grazia felina prese posto sulla poltrona accanto a lui, poggiando una mano sul bracciolo mentre agitava svogliatamente l’altra. «
È forse sbagliato uccidere per sopravvivere?», domandò, con quella voce soave e candida, quasi fosse un bambino innocente. Ma distolse lo sguardo dai suoi occhi d’ambra, il Lord, quasi non riuscisse a sostenere quei profondi pozzi d’oro fuso.
    «Non vi è nulla di più errato dell’omicidio», rispose, provocando al suo interlocutore una piccola, quanto divertita, risata.
    «Och, adesso sei tu nel torto», fece ancora il nobile William, accavallando con disinvoltura le gambe mentre faceva vagare con non curanza lo sguardo in quello studio di cui, ormai, conosceva ogni anfratto. «I miei non sono affatto degli omicidi. Io lo faccio per mantenere questo corpo in grado di muoversi, uccidendo solo i malvagi e i malfattori. Siete voi umani a darvi battaglia, togliendovi la vita a vicenda anche quando siete innocenti».
    «Non puoi giustificare il tuo comportamento in quest’assurdo modo. 
È inaudito».
    «Inaudito, dici?», ripeté William, fingendosi perplesso. «Perché non ti domandi dunque quale sia il motivo di quel tale, Jack lo squartatore? Con il suo mietere vittime ha facilitato di molto la mia caccia, laggiù a Londra. Come vedi, mio sciocco amante, gli uomini sono capaci di qualunque malvagità anche senza dover credere ad un
entità sovrannaturale votata al male stesso».
    Il Lord scosse nuovamente il capo, come se non volesse sentire. «Perché devi uccidere?», insistette, corrugando con fare quasi preoccupato le sopracciglia. «Non puoi... non puoi fare esattamente come fai con me?»
    Fu in grado di provocargli un’altra risata, con quelle parole, vedendo poi una pallida mano intrecciarsi fra quei fili castani. «
È ben diverso», gli spiegò tranquillo. «Tu sei legato a me, hai bevuto il mio sangue mescolato con il tuo. Non c’è unione più sacra di questa. Non mi tradiresti nemmeno se volessi. Gli umani là fuori invece sono deboli, patetici. Se li lasciassi in vita, dopo essermi nutrito di loro, non potrei più vagare indisturbato. Su tale logica non credi che, in fondo, l’omicidio sia perdonato?».
    Joseph sbatté una mano sul bracciolo della poltrona, aggrottando la fronte. «Nay, non posso accettarlo», disse ancora, sempre più insistente. «L’omicidio è sempre un errore».
    Un mesto sospiro sfuggì dalle labbra sottili del nobile vampiro, prima che fosse lui a scuotere la testa con fare contrariato. «Non citare il te tanto caro Wilde senza comprendere appieno il significato di tale frase. Ti soffermi sempre su quella prima parte», gli tenne presente, distaccato. «Proprio non vuoi comprendere, nevvero? Sei esattamente come tuo padre, e come suo padre prima di lui», soggiunse, vagamente nostalgico. «Ma a differenza loro il tuo spirito è battagliero, sebbene tu ti sia lasciato soggiogare molto facilmente».
    «
È stato per mia scelta, non mi sono fatto soggiogare da nessuno», ribatté sicuro di sé. «Tanto meno da te». Ma sussultò quando, senza che lui se ne rendesse conto o se ne accorgesse, il volto del suo interlocutore si trovò ad una spanna dal suo. Gli sarebbe bastato alzare, anche di poco, una mano per sfiorare il suo petto marmoreo o le sue labbra sottili e fredde.
    «Non dicevi così qualche anno or sono, mo chridhe
[6]», parve mormorargli lui, quasi con inaudita dolcezza. «Per quanto tu ti sia sforzato, sei unicamente mio, adesso».
    Cadde un pesante silenzio fra i due, dopo tali parole. Tutto ciò che s’udiva era il ticchettio dell’orologio a pendolo che scandiva lo scorrere del tempo e, forse agitato, il respiro dell’uomo. Sentiva il cuore battere quasi furente nel petto, il ritmico rombo del sangue nelle orecchie; gli occhi azzurri erano ancora puntati altrove, ma un brivido lo scosse quando, come un soffio di morte, il gelido respiro del vampiro gli solleticò quasi dolcemente il collo. Parve inebriarsi del suo profumo, la creatura, sfiorandogli con la punta della lingua la vena pulsante. «Sei stato tu a lasciare che questa passione ti consumasse, tu mi hai aperto i meandri oscuri della tua anima lasciando che la spiassi senza opporti», continuò, rompendo quella quiete opprimente. «Sei stato tu a dar vita a questa follia che ti dilania. Non io».
    Il cuore del Lord batteva sempre più forte, quasi all’impazzata, con un ritmo calzante che trasformò i tocchi di quel suo ospite in gesti languidi e cadenzati. Una gelida mano gli sfiorò il viso quando lui s’allontanò, osservandolo con quei pozzi d’ambra che altro non erano che i suoi occhi.
    «Rifletti su queste mie parole», sussurrò, quasi lascivo. «Tra sei notti, spero di trovarti a Londra». Detto questo s’alzò, con un unico movimento fluido. Sempre con moderazione si diresse verso la porta, facendo ondeggiare i suoi lunghi capelli ricci ad ogni minimo passo, quasi fosse lui a comandar loro di farlo. Si fermò proprio sulla soglia, con le dita che sfioravano appena la maniglia lucente. «Ti farò recapitare un messaggio, così saprai esattamente dove raggiungermi». Voltandosi verso di lui con quel dolce sorriso tentatore, sparì come una triste apparizione dalla sua vista, lasciandolo solo con la sua angoscia e il suo tormento.




[1] Titolo di una doujinshi di GDMechano (Izumi Yakumo) pubblicata nel 2004, il cui titolo in giapponese è “Kagami no Naiheya”.
La scelta di tale titolo sta ad indicare non l’assenza d’uno specchio nella stanza in cui i due protagonisti si trovano, bensì un confronto inesistente fra loro.

[2] Battaglia combattuta il 16 aprile del 1746 nei pressi di Inverness, che vide sconfitti i giacobiti, sostenitori di “Bonnie Prince” (Charles Edward Stuart), dalle forze lealiste guidate da William di Cumberland, figlio del re Giorgio II.
Lo scontro si concluse in una disastrosa sconfitta, soprattutto a causa delle scarse innovazioni belliche di cui l’esercito scozzese era dotato; gli Highlanders, difatti, s’ispiravano ancora a strategie e concetti risalenti al medioevo.
La fine della battaglia impedì del tutto agli Stuart di riconquistare il trono inglese, ponendo fine al sogno della Scozia di rendersi ancora una volta indipendente dall’Inghilterra.
Dopo la disfatta furono molti i prigionieri, sia giacobiti che sostenitori, dei quali una stragrande maggioranza fu deportata nelle colonie, mentre i restanti vennero condannati, tenuti in carcere o mandati in esilio.
Per sottomettere definitivamente la Scozia, tra l’altro, il governo britannico ne annientò costumi e tradizioni, proibendo ai civili scozzesi di indossare il kilt (Da qui ciò che viene accennato nel secondo capitolo) o di suonare la cornamusa, fatta eccezione per i reggimenti facenti parte dell’esercito inglese.
A ciò si aggiunse inoltre l’abolizione dell’autorità che i capi avevano sui propri clan.
Il bando venne abolito solo nel 1782, il periodo in cui l’immagine del mondo celtico andava pian piano estendendosi.

[3] Uno dei thé più famosi in Inghilterra.
Il suo sapore e il suo aroma si distinguono grazie all’aggiunta di un olio estratto dalla scorza di bergamotto.
Il nome deriva dai Jacksons di Piccadilly, che ne rivendicarono la paternità.

[4] Significa “Estate” in gaelico scozzese.
Praticamente è la stagione in cui, nel mese d’agosto, il cavallo viene regalato a Jason, come accennato nel capitolo.

[5] Letteralmente significa “Buono Samhradh, buono” in gaelico scozzese.
L’aggettivo “Deagh” (Buono) viene utilizzato prima d’un nome (In questo caso quello del cavallo), e non bisogna confondersi con “Math ; Maithe ; Fheàrr” (Buono/Bene), aggettivo usato invece per indicare uno “stato” _ Ciamar a tha thu? (Come stai?) ; Tha mi math, tapadh leibh (Bene, grazie)

[6] Cuore mio, gaelico scozzese.




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