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Autore: Quebello    03/03/2011    8 recensioni
"Coloro che desiderano la pietra, a loro volta sono da essa stessa desiderati."
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bergan aprì gli occhi. Il suo respiro, nella penombra della sala operatoria, gli suonò come il verso di un animale morente.

“Come ti senti?”

“Non cercare di indurmi a credere che t'importi.”

“Non m'importa infatti” constatò il Dottor Cid con voce neutra “o per meglio dire, non m'importa per la tua salute. Tuttavia... i soli minerali impiegati valgono una fortuna, quanto le ricerche che li hanno resi compatibili con la tua anatomia, e ancor più sono costati i chirurghi. Persino questi controlli mensili hanno un costo notevole.”

Un ringhio interruppe i discorsi dello scienziato, poi il giudice riuscì ad articolare meglio i suoi pensieri: “Non scoraggerò i vostri protettori morendo. Non è il mio destino. L'unico dolore che provo al momento è quello che mi procura ascoltarla.”

Cid sbuffò: “Vedo che ritieni che l'unico modo di servire il tuo principe è torturando e macellando. Ma il tuo disprezzo mi è indifferente quanto quello degli altri topi da laboratorio. Se il suono della mia voce ti è sgradito, comunque, ascoltiamo la tua. Descrivimi le tue sensazioni nelle ultime settimane.”

Bergan prese a seguire delle forme invisibili, un caleidoscopio di colori nell'aria che solo i suoi occhi riuscivano a delineare.

“Vedo cose strane. Animali, forse... o forse no. Forme luminose nell'aria. Ma solo... se cerco di vederle. Come se ...ci fosse un altro mondo sotto la pelle di questo...”

“Il mondo spirituale, quando l'occhio si abitua a vedere il myst comincia a distinguerne le forme. Tra breve inizierai a riconoscere gli spiriti da cui originano le formule magiche.”

“Mi inquietano. Sembra che ci osservino tutti. Poi... sento qualcosa che si muove. Come scarafaggi sotto la pelle.”

“E' una allucinazione tattile. Le pietre si saldano al tuo sistema nervoso” spiegò Cid con una punta di noia, mentre prendeva appunti “altro?”

“Mi sembra che... mi sembra di sapere più cose... di averle sempre sapute... di avere intuizioni che... come se qualcuno mi dicesse sempre cosa dovrei fare.”

“Ad esempio?”

“Sua eccellenza Vayne... devo stargli vicino.”

“Non mi sembra una novità. Non lo hai sempre fatto, forse?” il giudice sentì la voce di Cid allontanarsi, anche se non si disturbò a cercarlo con lo sguardo mentre lo scienziato certamente percorreva il laboratorio cercando qualcosa.

“E' diverso... voglio dire vicino... fisicamente. Devo proteggerlo... so cosa può accadere... come infinite possibilità che si dipanano come arabeschi sotto i miei occhi” la sua voce si faceva sempre più confusa, più tremante “è proprio come disse lei... i frammenti di destino possono manipolare la storia. E ora... sento nelle mani la mia.”

“Sono contento di sentirtelo dire” commentò il Dottor Cid, inespressivo, mentre scriveva in un piccolo quaderno rilegato “sono certo che faremo grandi progressi.”

“Confermata degenerazione dello stato di salute mentale in tempi e modi coerenti alle aspettative” annotò con espressione indifferente.

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Avevano percorso un lungo corridoio di radici intrecciate fino a che la temperatura non era scesa sempre più. Appena all’aperto, l’aria purissima e gelata aveva ferito le narici di Vaan.

Intorno, tutto era roccia nera e lucidissima e neve di un bianco accecante. Il cielo era una distesa screziata di grigi in perpetuo movimento. Le Gole di Paramina, proprio come Vaan le aveva immaginate dai racconti del vecchio Dalan.

Poco distante dal cunicolo che si erano lasciati alle spalle, come non aspettasse altro che loro, c’era un emissario arcadiano con un pesante bagaglio che, avrebbero scoperto presto, era pieno di vestiti. Larsa doveva aver previsto che il loro abbigliamento non fosse adatto alle gole e aveva arrangiato quel soccorso.

Ashe indossò un lungo abito dalla linea sottile, in seta argentata, che copriva ogni centimetro del suo corpo, compresi i capelli sotto un ampio cappuccio. Orlato da morbide piume rosso purpureo, ne accentuava al contempo la purezza e la regalità, tanto che persino Vaan la squadrò ammirato. Anche Larsa indossò un abito simile, ma di taglio maschile e di color grigio piombo, con orli di piumaggio avana. Sulla schiena, eloquentemente, erano cuciti i dragoni intrecciati del Casato Solidor, ma in gemme verdi e azzurre opposte al solito rosso e viola che simboleggiava la sua famiglia.

Al contrario, Vaan e Penelo scelsero due tute integrali grigie; erano pensate per lavori umili, ma favorivano l’agilità dei movimenti. Lei si concesse anche una lunga sciarpa blu scura ornata di stelle d’oro, che in altri tempi simboleggiava la maestà dei maghi, e la lasciò cadere leggiadra sul suo corpo con un pizzico di vanità e orgoglio per la sua arte magica, che la resero in qualche modo più matura, più femminile agli occhi del suo compagno, quegli occhi che era intento a nascondere con due grossi occhialoni da esploratore per proteggere i suoi sguardi insistenti e curiosi dai pericolosi riflessi della neve.

Mentre tutti loro salvo Fran, come sempre favorita dalla leggendaria adattabilità del popolo viera ad ogni sorta di clima, erano occupati a indossare abiti consoni all’ambiente, Vaan inquadrò qualcosa di sfuggita. Si sporse un po’ nello stradone di neve sotto il loro, seguendo con lo sguardo quella che poteva sembrare una fila di formiche che avanzava freneticamente. Erano persone, realizzò con un certo raccapriccio, persone che avanzavano in fila vestite di stracci nella neve alta.

Si ricordò che nei racconti di Dalan, il Monte Sacro era meta di masse di poveri, emarginati, rifugiati di guerra, esuli della più varia estrazione che trovavano accoglienza nelle sue pendici dal clima mite, vivendo della carità del Gran Kiltias e dei suoi sacerdoti. Allora, aveva pensato con disprezzo a queste lunghe processioni di mendicanti che attraversavano mezzo mondo per chiedere l’elemosina. Ma adesso, vedendoli procedere stancamente nel freddo, non poteva dubitare dell’assoluta necessità della loro scelta: nessuno avrebbe affrontato una simile traversata, se non costretto dalla vita.

Man mano che il tepore invadeva il suo corpo, quasi si vergognò di potersi permettere quei vestiti caldi mentre a pochi metri da lui aveva luogo quella disperata processione. Ma fu Balthier a dare voce ai suoi pensieri prima di lui.

“Mentre l’Impero sfila in parata per le grandi città, i profughi vanno a piedi scalzi nella neve” osservò aspramente Balthier mentre indossava un soprabito color avorio decorato da pelliccia nera, tempestato di lussuose gemme d’ambra.

Larsa si volse immediatamente verso di lui, intento a non farsi sfuggire la provocazione: “Per questo voglio la pace, che fermi quanto prima la guerra e allevi le loro sofferenze. E mio padre sceglierà la pace, ne sono certo.”

“Lo farà?” il pirata lo squadrò gelidamente dal basso all’alto “Sembri sicuro di te. Non si conosce mai a fondo qualcun altro, nemmeno il proprio padre.”

Mentre si allontanava con un viso carico di amarezza, si calcò in testa un corto cilindro nero per proteggersi dal freddo, o forse per nascondere il suo sguardo. A Larsa non rimase altro da fare che abbassare gli occhi, come se fosse stato obbligato a vergognarsi della sua famiglia. Vaan gli mise quasi una mano sulla spalla, poi si interruppe imbarazzato, cercando le parole giuste da dire.

“Non prenderla nel modo sbagliato ok?”

Non fece neanche in tempo a domandarsi quale fosse il “modo giusto” perché era evidente che Balthier aveva parlato per ferire il giovane aristocratico. Larsa però comprese il suo intento, e ringraziò cercando di stirare un malinconico sorriso.

Ashe non distoglieva gli occhi di un millimetro dal punto in cui si dirigeva la processione di mendicanti, quasi fosse insensibile a qualsiasi altro avvenimento: “Il Monte Sacro ci attende. Andiamo.”

Si incamminò senza aggiungere altro; Basch, protetto da una corazza arcadiana scura pensata per le operazioni invernali, si mise al suo seguito con sguardo cupo. Lo stesso fece Fran con Balthier. Vaan e Penelo misero le braccia sulle spalle di Larsa per incoraggiarlo a seguirli.

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Tinta dai colori caldi del tramonto, Archades sotto di loro sembrava ancor più rossa, ancor più fiera e indomabile di sempre. Quasi che la sete di sangue venisse dalla capitale stessa, e loro non fossero altro che burattini nelle mani violente della storia.

L’Imperatore Gramis era in piedi, una mano ancora appoggiata alla sua scrivania. Suo figlio Vayne era rimasto immobile e impassibile ad ascoltare tutto quello che aveva da dirgli, e poi si era preso il suo tempo per pensare una risposta.

“Questa crisi non cesserebbe alla mia scomparsa. Il Senato odia persino l’esistenza del Casato Solidor. È nostra necessità trovare modo di ridurli al silenzio.”

Pur dette con calma e compostezza, queste parole avevano fatto tremare l’Imperatore per l’emozione. Nella lunga storia dell’Impero non c’era stato un solo “Senator Primus Inter Pares” che non avesse sognato di liberarsi dal controllo del Senato ed esercitare il ruolo di Imperatore nel più totale arbitrio. Ma ovviamente, ad ogni Imperatore prima di lui, compresi i suoi antenati Solidor che avevano occupato questo ruolo, non era sfuggita la realtà: che l’unico modo di ottenere questo risultato era spezzare i fondamentali equilibri che reggevano l’Impero e scatenare quindi una guerra civile.

Gramis conosceva molto bene la seduzione ingannevole del massacro: l’idea che ogni spargimento di sangue sia l’ultimo, l’ultima guerra santa per portare una volta per tutte la giustizia dal cielo alla terra. La sua mente si allargò e cadde sulla capitale come un ampio mantello, avvolgendo i quartieri alti dei nobili fino alla città vecchia e al più miserabile dei bassifondi: la sua città, il suo popolo. Quante volte aveva pensato di creare un mondo più giusto per loro versando l’ultimo litro di sangue in più! Quanti uomini che aveva stimato, ammirato, persino amato, aveva condotto al patibolo con la pazienza di un ragno che aspetta la preda, pensando che la storia un giorno lo avrebbe assolto! Eppure, l’ultimo omicidio non giungeva mai; ad ogni nemico abbattuto, un altro seguiva.

A tutto questo ripensò quando le parole di suo figlio dischiusero appena la porta su un’altra gloriosa, quanto inutile strage. Sorrise con sprezzante ironia, dirigendosi sul bordo della sala per meglio vedere la città.

“Necessità, eh? Certo, una necessità.”

Si sporse come se volesse inseguire il tramonto: “Mi domando, forse questa parola ti slega le mani? Non mostri esitazione a risolvere le faccende con il sangue.”

Vayne non si volse a suo padre, ma alzò lo sguardo alla bandiera rossa merlata d’oro che troneggiava sopra di loro, al simbolo stilizzato di due dragoni neri che si avvolgono su una spada. Quegli stessi dragoni che si avvolgevano, rossi e porpora, sulla schiena del suo abito.

“La spada dei Solidor non può giacere ad arrugginirsi nel dubbio” ribattè quieto citando un noto detto dei loro antenati “E siete stato voi, eccellenza, a temprare quella spada.”

Di nuovo, le parole di suo figlio sembravano alludere appena ad un intero universo di significati: del resto, la sua prima passione in gioventù erano stati proprio i miti, le leggende, i simboli. E Gramis tremò di nuovo, pensando a come aveva “temprato” la spada del Casato.

Molteplici guerre di conquista, con le quali aveva risolto solo temporaneamente i periodi di povertà e miseria per gli arcadiani, al prezzo di sottomettere e umiliare intere culture. E quando i militari avevano preso un potere preoccupante, la “Grande Purga” che aveva spedito una folta schiera di suoi ex amici e commilitoni, di eroi di guerra e generali geniali a dormire sottoterra. E ancora, la Seconda Purga che aveva visto il Generale Noon e altri militari che gli erano stati fedelissimi finire esattamente come i suoi nemici, sebbene colpevoli soltanto di dissentire da lui e quindi di mettere in discussione il potere imperiale. E poi ovviamente le continue congiure contro il Senato, che in tutti quegli anni aveva passato al microscopio ogni suo più piccolo gesto per trovare una falla, arrivando persino a seminare discordia tra i suoi figli, come ancora tentavano di fare.

E ovviamente, c’era stata “quella cosa”… i suoi figli che tramavano l’uno contro l’altro per infamarsi con false accuse, conducendo il sangue del proprio sangue ad una pena capitale immeritata. E quando da questa faida era uscito vincitore Vayne, la punizione di suo padre era stata profonda quanto crudele: pretendere che proprio lui fosse l’esecutore materiale della sentenza sui suoi fratelli Kaent e Lutho.

Era certamente vero: la spada dei Solidor, lui aveva saputo temprarla. E non poteva certamente definirsi migliore di suo figlio. Eppure, cosa muoveva l’istinto di Vayne? Un ideale politico, o la voglia di rivalsa sul Senato che aveva avvelenato le loro esistenze?

“È la tua idea… di vendetta?”

“È la mia idea di necessità.”

Per un momento, si rimproverò da solo per aver cercato di ottenere una risposta diretta e sincera da suo figlio. Ma nel tempo che si prese per riflettere, e per respirare l’aria densa dei profumi che ascendevano dalla capitale, Vayne rispose aprendosi totalmente.

“Se non agiamo adesso, non solo il nostro futuro è a rischio.”

Gramis volle finalmente vedere in volto suo figlio, vedere l’umanità che c’era ancora in lui: “Lorderesti le tue mani per mantenere pulite le sue?”

“Le mie mani sono già macchiate di sangue.”

La serenità con cui lo affermò sembrò a Gramis come un perdono, per averlo forzato a uccidere i suoi fratelli. Quel che era stato era stato e suo figlio, ne era certo, non esigeva vendetta contro di lui. Ma allo stesso tempo, Vayne Carudas Solidor era il risultato di quelle azioni, e non sarebbe mai tornato quello che era prima. E tuttavia, c’era ancora Larsa.

Anzi, a dirla tutta, nell’intento di proteggerlo, Vayne era un fratello migliore di quanto Gramis non fosse stato come padre.

“Vedo poche ragioni per fermarle adesso” concluse Vayne.

“Invero, lo sono. E così il Casato Solidor vive ancora” riconobbe l’Imperatore.

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Il Monte Sacro apparve davanti agli occhi di Ashe come lo aveva sentito descrivere dai sacerdoti, un numero infinito di volte. Malgrado si ergesse sopra nubi dense e bianchissime e ancor più bianche distese di neve, che avevano attraversato a grande fatica evitando branchi di fang albini, tormente e ingannevoli distese ghiacciate pronte a frantumarsi e inghiottirli, il cielo era terso e il clima era mite, nel complesso accogliente.

Intorno alla cima fluttuavano altre piccole montagnole che qualche curioso fenomeno gravitazionale faceva girovagare come una aureola di roccia. Il tempio, tripudio colossale di scale, porticati e cupole di maioliche blu, era stato scolpito direttamente dalla roccia e sembrava quasi invitare la risalita, malgrado si trattasse indubbiamente di un’impresa faticosa.

Altrettanto peculiare gli risultò qualcos’altro, di cui però non aveva mai sentito parlare nei sermoni sebbene il motivo si intuisse facilmente: in mezzo tra una parete del monte sacro e un enorme scheletro di dragone fossilizzato si era formata una vallata a mezza altezza, che ospitava una baraccopoli di dimensioni mai viste, un ammasso di tende e catapecchie tanto casuale e sregolato quanto, nel complesso, imponente. Il risultato delle schiere di poveracci la cui miglior prospettiva di vita era pellegrinare fino al Monte Sacro e approfittare della legge di carità assoluta che il Gran Kiltias si auto imponeva.

Fu proprio questa caotica cittadina ad accoglierli per prima. Avvolta nella sua elegante veste invernale, Ashe si ritrovò addosso gli sguardi meravigliati dei rifugiati e le capitò quasi di riflettere sul suo rango, se davvero significasse una qualche superiorità o se non fosse, in certi casi, motivo di vergogna. Non la meravigliò vedere Vaan, Penelo, e persino Basch molto più a loro agio di lei con la povera gente, con cui attaccarono bottone immediatamente e con naturalezza.

Larsa squadrava tutto e tutti come fenomeni curiosi e interessanti. Non gli si poteva rimproverare nulla, certo, ma non si poteva dire che non rimarcasse la differenza di status. Era anche possibile che cercasse qualcuno in particolare, a giudicare da come scandagliava con lo sguardo.

Solo Balthier e Fran sembravano più a disagio di lei, disorientati in qualcosa che sembrava tanto una città ma che, senza ombra di dubbio alcuno, non aveva niente che somigliasse ad un’osteria.

Una piccola creatura pelosa e pasciuta, con lunghi baffi, orecchie pendenti e una coda piatta, venne loro incontro camminando goffamente. Ashe fu quasi tentata di stropicciarsi gli occhi per distinguere la toga cerimoniale del kiltianesimo che quell’esserino indossava orgogliosamente. Si irrigidì quando si rese conto di avere davanti un sacerdote della stirpe dei numou, potentissimi maghi e chierici devoti al Kiltias e protetti dall’Esper di Virgo, il loro Totema sacro. Ad averli accanto veniva difficile credere che persino il più debole e incolto dei numou conoscesse antiche magie per tramutare gli umani in rospi o far piovere comete dal cielo. Ad ogni modo non mancò di salutarlo con un cenno reverenziale del capo.

“Larsa Ferrinas Solidor e Ashelia B’Nargin Dalmasca, immagino” li apostrofò con voce tremolante, ma cortese.

“Siamo onorati di fare la vostra conoscenza, sacerdote” risposero entrambi chinando il capo, quasi in coro.

“Sono lieto anche io. Il mio nome è Babus La’Kleiu-”

S’interruppe perché Vaan dovette coprirsi la bocca per non sogghignare sentendo il nome, ma un feroce pestone di Penelo lo ricondusse immediatamente alla disciplina.

“…e, dicevo, vi posso offrire la modesta accoglienza di questo villaggio mentre il Gran Kiltias Anastasis si prepara a ricevervi.”

“Vi ringraziamo della generosa offerta” risposero di nuovo Ashe e Larsa.

“Ma come generosa offerta?!? Ci fanno dormire in una baracca?” benché Vaan lo avesse semplicemente detto all’orecchio di Penelo, la reazione di lei non fu diversa: gli rifilò un bel pizzicotto che gli lasciò un marchio rosso sulla guancia.

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“Dunque?” per una frazione di secondo, persino Vayne lasciò che la sua voce vibrasse di speranza “Dunque, mi lascerai agire come ritengo giusto?” già alla seconda esortazione lo scetticismo era tornato nella sua voce.

Gramis respirò a fondo prima di rispondere, tenendo gli occhi fissi sugli edifici sotto di lui: “No.”

“Lo avete detto voi stesso, padre: e così il Casato Solidor vive ancora!” insistè l’altro.

“È vero. Non posso negartelo: non ho risposte da darti. Ho sempre agito proprio come tu vorresti agire adesso. Forse, è semplicemente il naturale approdo della rotta che ho iniziato a tracciare io stesso.”

“E tuttavia… ancora non ammettete le mie ragioni” lo punzecchiò Vayne, la cui voce fremeva per i nervi.

“Anche per il più corretto dei metodi esiste una misura. Arrivare all’eliminazione del Senato… ci porta oltre il limite. Arcadia diverrebbe una dittatura. Come potresti garantire cosa succederebbe dopo, a noi o a Larsa… o all’intera Ivalice?”

“Abbiamo sempre avuto il potere nelle mani, che paura può incuterci chiamarlo con il suo nome?”

“Pensi che il popolo accetterebbe di buon grado un autocrate?”

“Il popolo!” sbottò Vayne, reagendo immediatamente a quel botta e risposta sempre più serrato “Il popolo cosa ne perderebbe? Senatori che complottano per scopi incomprensibili e si mascherano con discorsi a loro ancor più incomprensibili, è questa la libertà che garantiamo loro, la libertà di essere raggirati? Noi esistiamo per proteggere il popolo, per porre i bisogni degli altri sopra i nostri, non per discutere-”

“… fino a stordirci di chiacchere” lo interruppe Gramis rubandogli le ultime parole “Credi di essere il primo a parlare così? Il primo a pensare che la democrazia sia una inutile pastoia? Davvero pensi che le tue giustificazioni siano originali?

“Reputate più efficace lasciare che mi processino? E se mi condannassero cosa fareste?”

“Chiederei per te un atto di grazia” ammise a malincuore l’Imperatore, sapendo che Vayne lo avrebbe subito colto in fallo, come puntualmente fece.

“In passato mi avreste tolto la vita voi stesso per dimostrare la vostra forza” ribattè indignato il giovane “ma adesso anteponete le nostre emozioni al bisogno del Casato. Lasciare che mi processino e, peggio ancora, chiedere la grazia, forse salverebbe le nostre vite, ma sarebbe la fine del Casato Solidor e la vittoria definitiva del Senato.”

Qualcosa si spezzò nel volto di Gramis, come se una forza interiore fosse venuta meno, lasciando stupefatto persino Vayne. Proruppe in una tosse violenta che fermò a fatica, e quando si rivolse a suo figlio, ogni traccia della maestà imperiale lo aveva lasciato: era nient’altro che un anziano signore stremato.

“Sarebbe così terribile, figlio? Vivere i nostri giorni in pace, noi tre?”

Gli occhi di Vayne si dilatarono per l’orrore, come se non avesse potuto pensare di vedere nulla di tanto raccapricciante quanto suo padre ridotto semplicemente ed esattamente a questo: un padre.

“Noi tre!” perse per la prima volta ogni traccia di calma “Noi abbiamo un incarico più alto che accontentarci di vivere in pace! La storia ci chiede più di questo!”

“Certo, la storia. Sei traviato dalle favole del Dottor Cid” constatò sconsolato Gramis.

“Favole? È realtà.”

Come Vayne riprese la sua compostezza, anche l’Imperatore sembrò tornare in sé e si riavvicinò al suo trono.

“Realtà. Potresti portare le teorie di Cid in piazza? Affermare che sono verità? Convincere il senato, gli aristocratici, il popolo che ben due guerre erano necessarie, in virtù di queste teorie? Convincerli che la vita dell’Impero, anzi, della civiltà come la conosciamo, è messa a rischio da qualcosa che non hanno mai visto? Convincerli che costruirete un futuro migliore, in cui… le redini della storia torneranno nelle mani dell’uomo?”

Riportò la citazione di Cid con tono carico di sarcasmo.

“Non sta a loro, valutare tutto ciò, ma a noi. Scegliendo di sedere qui, sulla cima del mondo, abbiamo accettato tale responsabilità, che è nostra. Nostra soltanto.”

Gramis si prese svariati minuti di silenzio, prima di concludere: “Le nostre prospettive sono inconciliabili.”

“Come credete” confermò Vayne, con voce improvvisamente meno umana.

“Presumo” proseguì l’Imperatore mentre il suo tono si faceva quasi accademico “che in previsione di questo, tu ti sia preparato all’eventualità di togliermi la vita.”

“E d’altro canto voi vi sarete preparato all’eventualità di impedirmelo.”

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Furono sistemati tutti e sette in un ampio capannone dove i volontari facevano i turni di pausa; i volontari al servizio del kiltias sorvegliavano le baracche, per assicurarsi che non ci fossero soprusi e che un povero non si approfittasse dell’altro.

I due che riposarono con loro si chiamavano Iha e Remely.

Iha era un ragazzo moro un po’ emaciato, e sembrava costantemente in apprensione che qualcosa andasse storto nel campo profughi mentre lui era in pausa. Vaan abbandonò ogni speranza di conversare con lui una volta constatato che non aveva altro argomento di conversazione che il suo compito. Ashe e Penelo, invece, trovavano la sua dedizione e il suo senso di responsabilità ammirevoli e si divisero del brodo di chocobo con lui.

Di lui, Vaan pensò che gli ricordava vagamente Reks, la sua passione e il suo senso del dovere. E come era stato per Reks, non lo capiva molto e per quel poco che capiva, non gli piaceva affatto.

Remely era una viera dall’aria persino più fredda e distaccata di Fran. Aveva capelli lunghissimi e vestiti candidi che chiaramente si rifacevano alla tradizione hume e non a quella del suo popolo. Spiegò a Fran di essere originaria di uno dei villaggi arboricoli limitrofi ad Eruyt, che aveva abbandonato qualche anno dopo la fuga di Fran. Aveva nutrito una curiosità profonda per gli hume, la “razza padrona di Ivalice”, ma dopo averci convissuto per tanti anni era giunta alla conclusione che non avessero niente di speciale se non il fatto di essere in numero superiore a tutte le altre razze civilizzate. Un po’ come insetti, e non c’era dubbio che considerasse tutti i presenti per nulla migliori degli insetti. Ma aveva giurato obbedienza al Gran Kiltias e lo serviva.

Vaan si sarebbe aspettato che Fran prendesse le difese degli hume, ma Fran si limitò ad obiettare pacatamente sulla concezione che gli hume o una qualsiasi altra specie fossero i padroni assoluti del mondo.

Larsa e Balthier stavano seduti agli angoli opposti, assorti nei loro pensieri. Larsa in particolare sembrava teso, come se qualcosa di importante stesse finalmente per svelarsi: di sicuro aveva a che fare con il misterioso invitato di cui aveva accennato a Jahara.

Basch aspettava fuori dal capannone; stava controllando la mobilità e il peso della nuova armatura, senza però mancare di sorvegliare i passanti. Vaan si andò a sedere accanto a lui, interrogativo: “Che fai?”

“Non sono molto tranquillo. Un campo profughi è un posto prolifico per i malintenzionati, anche se forse il Monte Sacro fa eccezione. Noi attiriamo l’attenzione come persone benestanti.”

Sembrava che con lo sguardo mettesse un marchio in fronte a ciascuno che passava o si avventurava a gettare un’occhiata verso l’interno del capannone, benché all’apparenza fosse tutto preso dai suoi esercizi.

Il biondino sghignazzò compiaciuto, e il capitano si distrasse un momento: “Che c’è da ridere?”

“Si vede che non sei cresciuto tra ricconi come quegli altri. Solo chi vede i poveracci una volta al secolo li guarda con gli occhi dolci, come fossero sempre buoni e inoffensivi. Io la conosco la povertà. E quel che vedo qui è un campo… pieno zeppo di ladri.”

In risposta, fu Basch a ridacchiare, prendendogli la testa con la mano enorme e scompigliandogli i capelli: “Bè, tu sei un po’ troppo pessimista invece. Esiste anche gente onesta.”

“Sai che spasso la gente onesta.”

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In una frazione di secondo, Vayne evitò lo spostamento d’aria che sentì arrivare alla spalla e saltò capovolgendosi in aria. Mentre era a testa in giù, si lasciò scivolare dalle mani un cristallo rosso chiaro che scagliò a terra. Dei cerchi magici rossastri si propagarono per la stanza, e il suo obiettivo tornò completamente visibile.

“Vaniga, la magia che rende invisibili… ti devi essere stancato a stare lì fermo tutto il tempo.”

“Una dispelolite” commentò il Iudex Magister Jago “un trucchetto notevole”.

Con un gesto della mano sistemò la sciarpa rossa intorno al collo e poi strinse le cinghie del grosso artiglio con cui aveva cercato di colpire Vayne.

“È un giocatore piuttosto fortunato” si lamentò verso Gramis “Non sarà facile metterlo a dormire senza ucciderlo”.

Gramis non si mosse di un millimetro, e si versò del vino nel bicchiere “Fai solo quello che ti ho detto.”

Vayne riflettè freddamente: con tutti i veleni che Jago era famoso per utilizzare, sicuramente sarebbe bastato un graffio e avrebbe presto iniziato a intorpidirsi, per crollare addormentato in pochi secondi. Tuttavia, neutralizzato l’effetto di Vaniga, non era troppo difficile prevedere i suoi attacchi. Un secondo affondo degli artigli del giudice fu neutralizzato da una capriola all’indietro.

Mentre il suo corpo reagiva, il suo cervello si concentrava sulla strategia. Aveva soltanto un’altra dispelolite, pensò in pochi secondi, ma calcolò che comunque Jago non avrebbe cercato di rilanciare la magia dell’invisibilità, ignorando se lui potesse o meno neutralizzarla ancora cogliendolo di sorpresa; Jago d’altro era un discreto arcanista, capace di avvelenare, assopire o confondere mediante magia, ma Vayne lo avrebbe comunque raggiunto immediatamente con un colpo se solo avesse provato a pronunciare una formula arcana, cosa che un esperto come lui sicuramente metteva già in conto. A conti fatti, dunque, si sarebbe continuato sullo scontro corpo a corpo.

Un terzo assalto di Jago gli mancò la guancia di poco, mentre roteando su sé stesso riuscì a colpire con il tacco l’elmo dalle grandi orecchie, che si staccò dall’armatura finendo a terra. I capelli a riccio di Jago, color carota, si ritrovarono liberi mentre sulla sua guancia scura si allungava un rivolo di sangue, che il Iudex Magister succhiò prontamente dal labbro. La sua espressione era totalmente neutra, quasi apatica.

Perché era così impassibile, riflettè Vayne mentre schivava un altro attacco, stavolta stendendosi a terra d’improvviso? Eppure, doveva amare il gioco d’azzardo e quindi, probabilmente, anche i duelli. Anche suo padre sembrava eccessivamente rilassato, considerando che non era poi certo che Jago potesse stenderlo.

Mentre pensava così, si spinse in aria con le braccia, evitando l’artiglio di Jago che lo inseguiva a terra. Riatterrando, guardò ancora suo padre, che sorseggiava il vino spazientito, ma per nulla preoccupato.

Era ovvio: se anche Jago non ce l’avesse fatta contro di lui, lo avrebbe impegnato in una ardua lotta. Nel tempo che perdevano, sarebbe giunta la servitù per il servizio della sera, avrebbe dato l’allarme per un attentato alla vita dell’Imperatore, e tutto gli sarebbe sfuggito di mano.

Di fatto, immediatamente dopo che suo padre era giunto alla conclusione che lui lo avrebbe eliminato, il miglior momento utile per mettere in pratica tale proposito era esattamente quel momento, finchè nessuno tranne loro due ne era a conoscenza. Tutto ciò, data la presenza di una spia nella stanza, non era più possibile. Occorreva improvvisare.

Si fermò, fissando il suo avversario.

“Jago… cosa avrai per questo servizio?”

Le sopracciglia del volto annoiato di Jago s’inarcarono appena.

“Di certo nulla di entusiasmante. Forse di continuare con la tua vecchia vita? Dev’essere così. Totale impunità per i tuoi vizi di gioco, per la tua carriera diciamo poco esemplare?”

L’Imperatore perse improvvisamente il sangue freddo: “Non chiaccherare Iudex Magister, combatti! Te lo ordina l’Imperatore!”

Jago colse al volo cosa stava accadendo e stirò appena un sorriso: “Stai forse contrattando?”

“Non ascoltarlo!” ordinò Gramis scattando in piedi.

“In questo momento hai in mano qualcosa di incredibile” illustrò Vayne, quasi con la calma di uno studioso che spieghi le sue teorie “Il potere di decidere chi sarà il prossimo imperatore. Ma fra pochi minuti questo potere svanirà, e tu tornerai ad essere quello di sempre.”

Jago storse il naso, e Vayne lesse nella sua minima espressione facciale che aveva visto giusto: Jago detestava la vita e la carriera che aveva lui stesso rovinato. Quella era la chiave per manipolarlo.

“E cosa di meglio posso volere? Sono un Iudex Magister. Per quello che vale.”

“Non rispondergli! Attaccalo!” tentò un’ultima volta l’Imperatore, ma poi abbassò lo sguardo rassegnato e tornò seduto.

“Sei un Iudex Magister in disgrazia” infilzò Vayne, ma subito dopo il suo tono si fece gentile “Ma io farò di più che garantirti una miserabile vita come mio protetto. Ripulirò il tuo nome e ti presenterò come uno dei Giudici a me più fedeli. Sarai una delle persone più influenti dell’Impero.”

Jago sgranò gli occhi, incredulo: “Stai scherzando? Di politica capisco poco e anche la legge mi ha stufato. Col potere che ho avuto finora ho saputo solo ridurmi a quello che sono. Nessuno mi vorrebbe accanto a sé!”

“Certo” assentì l’altro “Cosa penserebbero gli aristocratici? Cosa penserebbe il Senato? Cosa penserebbero i generali? Ma nell’Impero che creerò per noi questa gente non conterà più niente. Potrai anche non comprendere la politica e non scrivere mai più una legge finchè vivi, ma vivrai nella gloria e potrai lasciarti alle spalle il disonore a cui sei abituato.”

Jago abbassò gli occhi, riflessivo.

“Questo è il tipo di potere a cui miro: un potere che è anche libertà. E tu sarai libero di vivere la vita che desideri, per il solo fatto di essere al mio fianco.”

“E' una follia. Qualcosa che nessuno accetterebbe mai. Nemmeno io farei una scommessa del genere” finalmente sorrise, con una smorfia provocatoria.

“Certo... stiamo rischiando, non intendo nasconderlo. Puoi eliminarmi adesso, rispettare i desideri dell’Imperatore ed essere certo del risultato. Ma sappi che lui non potrà mai creare quell’Impero che sogno, non potrà mai darti quello che io ti prometto.”

Jago distolse lo sguardo, ancora incerto.

“Davvero eccezionale” valutò Gramis ad alta voce, sorseggiando dell’altro vino.

“Siamo entrambi qui” esortò Vayne avvicinandosi con calma a suo padre “quindi, Jago, appena avrai preso la tua decisione, agisci senza esitare.”

Poi gli occhi dei due Solidor si incrociarono. Vayne abbassò per un momento gli occhi, per quella frazione di secondo in cui la sua disciplina interiore non riuscì a soffocare il rimorso e il senso di perdita che si avvicinava inesorabile. Gramis quasi sorrise, rivedendo il passato sé stesso in suo figlio, la sua incrollabile determinazione, i suoi impercettibili dubbi.

“E così il Casato Solidor vive ancora.”



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Chiedo scusa a tutti. Di fatto, avendo iniziato a lavorare (per inciso, i miei lettori più attenti avranno già indovinato che lavoro faccio) ed essendo sommerso da altri impegni, avevo intenzione di interrompere del tutto la pubblicazione, come avevo appunto fatto.

Peraltro ho perso, o credo di aver perso, una lettrice a me cara. E sembra che questo sia destino, quando mi impegno molto con una fic. Il che mi ha comprensibilmente scoraggiato.

Però continuo a tornare a leggere questo capitolo, uno dei capitoli che ho scritto anche nella famosa “prima stesura”, e che secondo me vale la pena intera del lavoro – giacchè descrive proprio uno dei tasselli mancanti più importanti, ossia come si conclude il diverbio tra Vayne e il padre. Cosa è successo nella seconda parte della loro discussione, che ha portato alla morte del padre? E’ un pezzo importante di storia che ho immaginato tantissime volte, una delle grandi lacune nella trama del gioco che mi ha ispirato per scrivere questa storia.

Continuo a tornarci e a ricordarmi perché ho iniziato a scrivere questa fic. E alla fine mi decido e dopo mesi mi costringo a pubblicarlo e a ricominciare i lavori. Sperando che ne valga, appunto, la pena.
  
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