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Autore: Sintesi    23/03/2011    1 recensioni
Tornò verso il lettino e pigiò con forza il petto del robot. Esso si aprì come una specie di vortice, rivelando un grosso agglomerato di cavi e fili raggruppati fino a formare un cuore luminoso, di un blu abbacinante. Il dottor Mcgrant inserì la memoria nell'apposito spazio e richiuse tutto.
Iron aveva un cuore, si. Glielo aveva creato così per dargli la possibilità di assomigliare ancora di più ad un uomo.
Rimase immobile per alcuni secondi, ascoltando i battiti del suo, più vecchio, più stanco, ma incredibilmente eccitato in quel momento.
Si schiarì la voce, febbricitante: "Svegliati Iron" disse con tono fermo.
Genere: Fantasy, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1; Le ali di una farfalla.

"Prego inserire chiave di lettura" gracchiò il computer e sul suo sottilissimo mega schermo comparirono strani numeri digitati in una sequenza misteriosa, come dei riti di qualche formula magica.
Chi li digitava con tanta cura era un anziano signore sui sessant'anni, brizzolato e molto alto. Nonostante l'età era ancora di bell'aspetto: i capelli nascevano neri sulla sua testa, e andavano via via schiarendosi fino ad adagiarsi sulle spalle squadrate, dritte. Aveva un collo sottile che teneva tirato in una smorfia di ansia, la mascella ben definita coperta da una leggera barba, che gli circondava le labbra rosee e carnose. Si tirava su spesso gli occhiali sul naso aquilino, quasi come un tic nervoso. Aveva uno sguardo profondo e deciso, forse rafforzato dal vivido color verde delle iridi. Era magro, il suo respiro era forzatamente calmo.
Improvvisamente smise di pigiare i tasti sulla tastiera e restò immobile per un secondo.
"Dati inseriti correttamente. Inizio procedura di formattazione"
L'uomo abbassò gli occhi e si guardò le mani. Tremavano come non mai.
Sorrise, ripetendo il solito tic nervoso. Agguantò una tazzina di caffè ormai freddo vicino a lui e bevve un lungo sorso.
"Accidenti, ce l'hai fatta George!" esclamò parlando da solo, "ce l'hai fatta veramente!"
Il suo sorriso si allargò e si mise addirittura a volteggiare sulla sedia girevole. Si diede una spinta con le mani sul tavolo e si portò a fianco di un lettino da ospedale, su cui sopra era adagiata una figura coperta da un telo nero.
"Mio caro Iron, presto sarai pronto … il sogno della mia vita sta per coronarsi!"
Sghignazzò, fregandosi le mani sudate. Si tirò di nuovo su gli occhiali e scoprì il telo, che rivelò un robot dalle fattezze umane.
Il suo corpo era formato da fili che ricordavano molto vene ed arterie, e la sua armatura era lucida e fatta di acciaio inossidabile e plastica molto leggera.
Il dottor Mcgrant prese la mano del suo paziente e la strinse fra le sue. Regalò a quell'ammasso di circuiti e placche di metallo il suo calore, mentre lo guardava ostinatamente negli occhi chiusi.
"Certo che sei venuto fuori proprio bene, Iron …" sussurrò, sfiorandogli uno zigomo con il dorso della mano. La fede che portava al dito si rifletté sul suo viso scolpito, illuminandolo.
Ci erano voluti anni per portare a termine la sua creazione. Investimenti, rinunce, sconfitte … Mcgrant non aveva avuto vita facile in quegli anni. Ma alla fine ce l'aveva fatta.
Giocherellò con l'indice sulle labbra bianche di Iron, seguendone le linee sinuose e smussate.
Pensare che era fatto di acciaio e plastica lo faceva quasi intristire. Era così bello, così curato. Così umano.
Iron, seppur non fosse costruito in ferro, aveva ricevuto quel nome perché la sua pronuncia ricordava al dottore uno di quegli uccelli altissimi e fantastici che vedeva volare da bambino nell'immenso lago vicino a casa sua.
"Formattazione eseguita senza errori. Salvataggio dei dati in corso … " la voce del computer lo riportò alla realtà.
Si alzò dalla sedia e aspettò che il processore finisse di scrivere i dati sulla microscopica memoria estendibile.
Quando il computer sputò il micro cip, il dottor Mcgrant lo prese con mani tremanti. Il sudore gli colava lungo le tempie, come se la sua mente stesse piangendo pensieri.
Tornò verso il lettino e pigiò con forza il petto del robot. Esso si aprì come una specie di vortice, rivelando un grosso agglomerato di cavi e fili raggruppati fino a formare un cuore luminoso, di un blu abbacinante. Il dottor Mcgrant inserì la memoria nell'apposito spazio e richiuse tutto.
Iron aveva un cuore, si. Glielo aveva creato così per dargli la possibilità di assomigliare ancora di più ad un uomo.
Rimase immobile per alcuni secondi, ascoltando i battiti del suo, più vecchio, più stanco, ma incredibilmente eccitato in quel momento.
Si schiarì la voce, febbricitante: "Svegliati Iron" disse con tono fermo.
Il robot reagì quasi subito al comando, spalancando gli occhi. Non si mosse di un millimetro, schiuse solo un poco le labbra.
"Mettiti seduto" gli ordinò, e lui obbedì, tirandosi su facendo forza sulle braccia.
Il dottor Mcgrant non poteva credere a quello che i suoi occhi vedevano: "Parlami Iron, parlami. Dimmi qualcosa … "
Il robot lo guardò per lunghi istanti, scrutandolo e immagazzinando informazioni. L'uomo notò la sua espressione curiosa, e il suo sguardo lilla, profondo e incredibilmente dolce.
Il dottore si umettò le labbra secche e Iron lo imitò: "Avanti, parlami Iron" lo incalzò.                                                                                        
La macchina aprì e chiuse ripetutamente gli occhi e alzò la testa per guardarsi intorno: "La vita …" mormorò, colpito dall'arcobaleno che il sole aveva disegnato sul muro attraversando il vetro del laboratorio, "la vita esiste davvero"
George Mcgrant non piangeva da quando, trent'anni fa, aveva visto sua moglie morirgli fra le braccia in uno squallido ospedale della metropoli, eppure quelle parole smossero in lui un sentimento che non sentiva da anni.
Iron lo guardò perplesso, osservando quelle gocce d'acqua che gli colavano lungo le guance: "Cosa è?" chiese, allungando una mano ad indicarne una.
"Felicità" spiegò Mcgrant tra un sospiro spezzato e l'altro.
Iron annuì: "La felicità scivola sulla tua pelle".
"Le lacrime Iron, le lacrime sono felicità"
"Lacrime … Piangere?" chiese per un'improvvisa associazione di idee passata nel suo cervello meccanico.
Il professore sorrise, annuendo: "Piangere"
Il robot sembrò accigliato. Si portò più vicino al suo creatore e gli mise titubante una mano sulla spalla: "Piangere lacrime di felicità …" sussurrò e la sua presa divenne più decisa, "Perché felicità?"
"Perché sei vivo Iron. E perché diamine, sei perfetto!"
Iron copiò l'espressione dell'uomo, stirando le labbra in un ghigno forzato: "Perfetto. Io? Io non so piangere. Lacrime. Felicità. Io non sono felice … o forse, forse si?"
Mcgrant si asciugò le lacrime e scosse la testa, prendendo la mano di Iron: "Non ti preoccupare, imparerai. Sei stato creato per questo"
"Ma io non …" l'uomo mise una mano sulla bocca del robot, invitandolo a rimanere in silenzio.
I due rimasero in ascolto. Strani rumori provenivano dal corridoio che portava al laboratorio del professore.
Stavano arrivando, si disse Mcgrant con un brivido di terrore. Guardò la sua creazione con tenerezza, come fa un padre col proprio figlio appena nato e con un moto d'affetto di cui non credeva essere dotato, l'abbracciò.
"Ti prego Iron, perdonami. Perdonami se ti ho fatto nascere ora ma avevamo bisogno di te. Avevamo tutti bisogno di te"
Il robot ricambiò la stretta in modo più rigido, non sapendo bene come comportarsi.
Restarono così per lungo tempo. Li trovarono ancora abbracciati quando irruppero nella stanza. Li divisero e nessuno dei due oppose resistenza, il primo perché sapeva di essere impotente, e l'altro perché semplicemente seguiva quello che gli veniva detto.
Iron guardò il dottor Mcgrant e i suoi occhi lilla fissarono quelli verdi del vecchio. La curiosità lo trascinò via, trasformata in quell'uomo forzuto che lo spingeva lungo il corridoio e lo sbatteva dentro una cella, mentre il dottor Mcgrant veniva rinchiuso in un'altra gabbia adiacente.
Si attaccò alle sbarre, ancora intontito.
Il dottor Mcgrant si prese la testa fra le mani, lasciandosi cadere a terra.
"Tutto, mi prenderanno tutto!" mormorava.
"Cosa?" domandò il robot, aggrottando il solco delle sue sopracciglia.
L'uomo alzò la testa: "Mi hanno dato tutti i soldi di cui avevo bisogno per costruirti perché sapevano che tu potevi essere in grado di assecondare i loro piani. Mi hanno fatto promettere di affidarti alle loro mani una volta che saresti stato acceso. Ma io non potevo, capisci? Non potevo lasciare che loro … ti facessero del male, Iron. Non potevo"
Mcgrant gli accarezzò le dita gelide: "Mi rimanevi solo tu" mormorò, guardandolo tristemente negli occhi.
Un uomo tarchiato si avvicinò alle due gabbie e tuonò: "Sai le procedure, vecchio. Non ci servi più"
Il professore annuì piano, alzandosi in piedi. La guardia aprì le sbarre e lo prese in malo modo da sotto un'ascella, trascinandolo via con sé.
Si voltò una volta sola a guardare quello che aveva creato.
E sorrise, George Mcgrant, perché stava per morire, sì, ma il suo spirito sarebbe vissuto ancora dentro quella splendida macchina che ora lo guardava andarsene con una mano protesa verso di lui.
Inghiottì un fastidioso nodo alla gola e sentì il cuore accelerare. Si chiese come doveva essere il passaggio dalla vita alla morte e si mise a ricordare tutte le fasi più importanti della sua vita. Strano che alcune cose gli tornassero alla memoria proprio in quel momento.
Elisabeth, sua moglie, gli sorrise tra i suoi pensieri. Fra poco mia cara, si disse, fra poco saremo di nuovo insieme.
La guardia si fermò davanti ad una porta nera e massiccia. La colpì tre volte con l'enorme pugno chiuso e attese risposta.
Il dottore chiuse gli occhi. Elisabeth scomparve e Iron si materializzò nella sua mente.
Strinse forte le palpebre e varcò la sua ultima soglia. La sua anima continuava a guardarlo da dentro la gabbia e questo lo rese forte.
La paura scomparve e restò solo il silenzio e il fluorescente colore di un liquido ambiguo dentro una siringa piantata nelle vene: "Ti voglio bene, figlio mio" disse in un soffio.
 

Freddo.
Èra così freddo quel posto. Intorno a me c'erano quattro uomini con il volto coperto. Uno lo riuscivo a riconoscere meglio rispetto agli altri. Aveva dei folti riccioli che gli scendevano fin oltre le spalle, mente gli altri tre erano tutti pelati e le luci dei neon riflettevano sulle loro teste.
"Vediamo come se la cava questo robottino ..." borbottò il riccio puntandomi una pila dritta negli occhi. Li chiusi per proteggerli, ma li riaprii subito, costatando che non mi dava alcun fastidio.
"Ti chiami?" fece l'uomo rivolto a me.
Volevano sapere il mio nome, ma perché? Il dottor Mcgrant avrebbe voluto che io lo dicessi loro?
"Iron" risposi alla fine.
L'altro annuì, sorridendo maleficamente: "E dimmi, Iron, sai perché sei qui?"
Guardai il cielo che si intravedeva da uno spiraglio fra le spesse tende rosso sangue della stanza: "No …" ammisi, inespressivo.
"Sei qui …" cominciò l'uomo vagando per la stanza mentre gli altri tre continuavano a studiare ogni mia parte de corpo, "perché noi abbiamo bisogno di te. Tu sei … come dire, speciale. Hai un dono, Iron. Il dono di riuscire a viaggiare nel tempo"
Per la prima volta da quando ero entrato in quella stanza lo guardai negli occhi. I suoi, castani e famelici, scintillarono: "Anni fa, più o meno cento anni fa, un uomo di fama mondiale inventò una macchina rivoluzionaria. Una macchina con dei pensieri che non erano solo dati immessi alla rinfusa nella sua memoria, ma erano vere e proprie sensazioni. Quel robot era a tutti gli effetti un uomo. Ma sai, la tecnologia è pur sempre più avanzata di un vecchio scienziato pazzo, che vuoi farci … e in poco tempo il robot si rifiutò di stare sotto il nostro comando. Minacciò di distruggere la Terra se il Governo non gli avesse dato i pezzi e le attrezzature che richiedeva. La sua richiesta venne esaudita, e lui costruì interi eserciti di bastardi uguali a lui"
Digrignò i denti, ma cercò di rimanere calmo quando si accorse del mio sguardo perplesso: "Quei … quegli umanoidi ci resero schiavi e ci permisero a malapena di poter vivere nelle nostre case, per i primi tempi. Dopodiché beh, come si suol dire … demmo loro una mano e loro si presero tutto il braccio. Ci disintegrarono e poco fecero le nostre rivolte. Morivamo come scarafaggi, diventavamo polvere mentre quegli esseri conquistavano l'intero pianeta. Alla fine, ridotti quasi all'estinzione, ci siamo rifugiati nei ghiacci e sulle montagne. Ricostruimmo i nostri laboratori con quello che potevamo, fin quando siamo riusciti a riassemblare almeno un laboratorio degno di nota, segreto, dove potevamo fare quello che volevamo e poteva studiare ai fini della realizzazione della macchina che ci avrebbe salvati tutti. Tu, Iron"
Mi sorrise, cercando di sembrare affabile, ma io riuscivo solo a pensare al fatto che detestavo il modo in cui pronunciava il mio nome.
Risultava pesante, quasi disarmonico quando usciva dalla sua bocca. Affondava nell'aria invece di rimanere sospeso, come un macigno invisibile. E più lo ripeteva più questi macigni si accavallavano nella mia mente e mi facevano sentire oppresso e stanco.
Strinsi la mano in un pugno rigido: "E questo cosa dovrebbe significare?"
L'uomo fece un voluttuoso gesto con la mano: "Oh, niente di particolare. Solo che tu, da bravo robot intelligente, dovrai viaggiare nel tempo fino a cent'anni fa e uccidere quello scienziato. E' per questo che il tuo paparino ti ha progettato, no? Perché sei una macchina mortale e pressoché indistruttibile, in grado di sconfiggere il nostro temibile nemico. Il dottor Mcgrant, che Dio l'abbia in gloria pover'uomo, era una mente geniale. È stato un peccato doversene liberare in un modo così … drastico" sul suo viso si formò un ghigno spietato e l'ombra in cui era avvolto gli fece risaltare gli zigomi magri e sporgenti come una maschera spaventosa.
"Morte …" sussurrai perso nei miei pensieri.
L'altro roteò gli occhi: "Non devi essere troppo triste per lui, Iron. Alla fine, è stata una sua decisione"
Lo guardai con astio, alzando il mento in segno di sfida. Lui non si scompose, sostenendo lo sguardo.
"Ma prima che tu parta per questa missione, abbiamo bisogno di fare alcuni accertamenti su di te" ci interruppe uno degli uomini pelati.
Il riccio si voltò a guardarlo con superiorità, ma poi annuì, rigirandosi verso di me: "Esatto. Dobbiamo vedere fino a che punto tu puoi esserci utile"
"E se io non dovessi obbedirvi?" chiesi.
Una breve risata ruppe il silenzio che si era creato fra di noi. Mi mise una mano sulla spalla, avvicinando la bocca al mio orecchio: "Io sono il padrone, Iron" sussurrò, e un altro macigno mi cadde addosso, "tu sei solo un mio burattino"
 

Mi portarono in un'altra stanza altrettanto cupa nonostante le luci artificiali fossero abbastanza forti da metterne in risalto ogni più piccolo anfratto.
"Siediti lì, robot" grugnì uno dei tre uomini pelati, mentre gli altri due suoi colleghi mi bloccavano le gambe ad uno strano lettino di metallo.
"I tuoi poteri, Iron, sono immensi" dichiarò l'uomo che mi aveva parlato nell'altra stanza, "tu controlli il tempo, sai come far funzionare le lancette del mondo. Tu solo sai creare quel varco che ci permetterà di salvare la nostra specie. Intendi di cosa parlo, vero?"
Annuii, osservandolo.
Lui sorrise, compiaciuto: "Carl, fai partire la macchina" ordinò.
Carl azionò un gigantesco computer abbassando con calma e ammirazione una leva. Mille luci di altrettanti colori si accesero all'unisono, abbacinandomi.
"Le luci della ribalta …" mormorò il capo degli altri tre, passandosi una mano fra i riccioli neri. Voltò la testa verso di me e mi si avvicinò: "Ora voglio che tu chiuda gli occhi e immagini un posto qualunque. Concentrati, Iron. Prova a pensare di esserci dentro, fuso in quel paesaggio. Avanti, stupiscimi!"
Lo fissai per un attimo, poi chiusi gli occhi. Non sapevo che luogo immaginare, perché io il mondo non l'avevo mai visto.
Però il pofessor Mcgrant doveva avermi immesso nella memoria alcune immagini di esso, perché ad un certo punto nel vuoto infinito della mia mente si materializzò una figura i cui contorni non erano ben definiti, anzi, sembravano fatti d'acqua, che si schiantava e si frammentava ad ogni scatto delle mie palpebre forzatamente serrate.
Cercai di mettere a fuoco quella forma. Aveva un intenso color blu scuro, lucente, bellissimo. Mi venne da sorridere e non riuscii a trattenermi.
Sentii distrattamente la voce del riccio nella stanza che mi ripeteva di continuare.
Aguzzai la vista, e finalmente la vidi. Volava in un immenso mare verde che profumava d'estate e di fiori freschi. Mi dava l'idea di un qualcosa di leggero, di fragile, di effimero. Allungai una mano, senza toccarla. La farfalla si avvicinò e mi si posò sull'indice. Sentivo le sue antenne vibrare, smosse dal vento. Improvvisamente fummo una cosa sola, e ne saggiai la vera forza. Mi sentii potente, indistruttibile.
La farfalla sbattè le ali, e volammo insieme. Ero leggero, ero fuori da me stesso, lo sentivo. Ero etereo.
"Apri gli occhi, Iron …" sussurrò l'uomo scuotendomi dal torpore.
Mi risvegliai stralunato, guardandomi intorno senza riuscire a capire subito dove mi trovavo.
Tutti nella stanza mi guardavano sbalorditi.
"Mio Dio, è … è incredibile!" esclamò prendendomi per le spalle con tutte e due le mani. Scuotendomi, non riuscì a soffocare una risata soddisfatta.
"Signori, avete appena assistito alla potenza di quest'essere. Osservate quanto può essere forte il genio della mente umana!"
Gli altri batterono le mani, entusiasti: "Gary tu sì che ci sai fare!" esclamò uno dei tre.
Gary - finalmente ne conoscevo il nome - fece un lieve indichino e tornò a sorridermi famelico.
"Sai smaterializzarti bene, mio caro. Col tempo saprai farlo sempre meglio. Per questo dobbiamo insegnarti come sfruttare al meglio questa tua capacità, prima di farti partire per la missione" sogghignò, incrociando le dita delle mani come per pregare. Al suo dito medio della mano sinistra luccicò un anello dì'oro con delle parole incise sopra.
Sempre più in alto di voi, c'era scritto. Un po' egocentrico il tipo, pensai con un mezzo sorriso.
"Ti terremo qui, e ti dimostreremo che con un po' di buona volontà potrai fare qualunque cosa, Iron. Anche uccidere" e disse l'ultima frase dilatando gli occhi, già di per sé terrificanti.
Lo guardai bieco, senza muovermi. L'idea di uccidere un uomo non mi allettava per niente. Specialmente se dovevo farlo così, senza motivo. A freddo, come se io fossi stato progettato solo per questo.
"Non voglio. Non ucciderò. Trova un'altra soluzione"
Gary si passò con noncuranza la lingua sui denti bianchi. La corta barba del pizzetto sembrava un cespuglio di rovi. Restò in silenzio per un attimo, come soppesando le parole da dirmi, poi, lentamente, mi cinse il collo con una mano e mi sorrise: "La vera differenza fra me e te sai qual è, Iron?"
Sentii le sue dita spostarsi su di me, fino ad incontrare un minuscolo bottone posto dietro la mia nuca.
Cercai di evadere dalla sue presa appena mi resi conto di quello che stava per accadere, ma lui fu più veloce. Con uno scatto pigiò la mia pelle e tutto divenne irrimediabilmente nero. La stanza vorticò sotto i miei occhi, e l'unica cosa che sentii prima di cadere nel vuoto, fu il suo respiro caldo su di me e la sua voce che piano sussurrava: " È che io non ho nessun pulsante di spegnimento!"
 
   
 
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