THE
HARM
Jimmy
Lewis non fu mai adottato.
Restò
in orfanotrofio sino alla maggiore età: le prospettive di lavoro per uno come
lui, allora, erano piuttosto insoddisfacenti. Jimmy sposò Sandra Glenn, più
grande di lui di sette anni e divorziata, lavorò in una rosticceria piuttosto
fuori mano, rispetto a dove abitava: si trovava a ridosso di una strada in
mezzo a due o tre quartieri piuttosto piccoli, un posto frequentato abbastanza,
da permettere un rendimento poco più che sufficiente.
Non
faceva che preparare polli e girarli sullo spiedo, continuò a girare polli fino
alla pensione, nonostante ormai il braccio sinistro fosse andato completamente,
da quando aveva quindici anni.
Nonostante
Jimmy non lavorasse in rosticceria da ormai parecchio, casa sua sapeva
terribilmente di pollo allo spiedo. Sua moglie era morta da dieci anni e, in
effetti, lui non faceva che ripeterlo sin dall’inizio della conversazione.
Fedora
sorseggia il suo tè, mentre la nonna non ha ancora toccato il suo.
“Riddle,
Riddle. Era un po’ un punto di riferimento là dentro: frequentava una scuola
fuori città, capite? Roba per gente importante. Tutti avevano grandi
aspettative su di lui.”
A
settantanove anni suonati, il signor Lewis spesso ripeteva le stesse cose una
decina di volte. I nipotini erano nella cucina, attraverso la porta che
comunicava col salotto, Fedora poteva vederli giocare con un curioso aggeggio
Babbano, collegato a – sì quella la riconosce, ormai le si vedono ovunque – una
televisione.
“Viveva
ancora all’orfanotrofio, quando ho cominciato ad avere problemi al braccio,” si
indica il braccio sinistro, il pollice e l’anulare di quella mano sono stati
amputati.
“Avrò
avuto otto anni, credo. Non che lui vivesse lì troppo a lungo, intendiamoci. Ci
veniva solo d’estate. Sfido io: finiva di fare il prefetto a scuola e la
direttrice lo riempiva d’incarichi, perché era uno dei più grandi.” Ridacchia divertito,
la nonna lo imita: che vocetta quei due vecchietti, si ritrovò a pensare
Fedora, piuttosto agghiacciante.
“Pensiamo
di essere imparentate con lui,” spiega la nonna, fingendo un tono appena
malinconico, girando il suo tè col cucchiaino, poi lo sbatte delicatamente sul
bordo, per far cader via le goccioline.
“Purtroppo
una volta individuata questa pista, abbiamo saputo che era già morto da circa
sedici anni. L’unico modo per sapere se noi eravamo la sua famiglia, ora, è
raccogliere testimonianze qua e là.” ormai è la terza volta che la nonna lo
ripete: perde colpi anche lei.
“Sì,
naturalmente, naturalmente.”asserisce il vecchio.
“Oh,
allora, vediamo: ho già detto che era tra i più grandi, sì. A volte teneva
d’occhio i più piccoli, o gli si chiedeva di dare qualche dritta ai nuovi
arrivati. Non aveva un gran rapporto con i suoi coetanei, però. Da piccolo
doveva essere stato un po’ aggressivo con qualcuno, tendevano ad aver paura di
lui. Ah e poi ci fu quel giorno, quando arrivò lì una sua compagna di scuola.
La direttrice andò su tutte le furie.”
“Ah,
sì?” Fedora smette di rimestare lo zucchero rimasto sul fondo, col cucchiaino.
“Come
si chiamava? Era una certa Haze, forse? Virginia Haze?” tenta nonna Heather.
“Oh,
non mi ricordo certo il nome. Però sì, sì può essere, era una ragazzina
talmente magra.”
“Cielo,
può darsi sia proprio la Haze.” fa la nonna, con un ghignetto.
“Quanto
astio.” mormora Fedora, con un mezzo sorriso.
“Quella
sì che ha dato un bel po’ da pensare a Riddle: in una sola giornata, ha rubato
gli abiti di alcune sue compagne lì all’orfanotrofio e il maglione di lui, l’ha
provocato – e lui, pensate, ha mantenuto la calma in maniera talmente
diplomatica -, ed è finita in infermeria per una crisi epilettica.”
Fedora
non scoppia a ridere, solo perché non le pare il caso. Diplomatico, certo: doveva
averla maledetta per punizione, altro che crisi epilettica.
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Il
soffitto di quel posto del cazzo spunta fuori dal colletto di un maglione,
l'aria le graffia il viso o magari è solo quella sua buffa euforia che ancora
le serra lo stomaco e che ogni tanto lei richiama, per farla scorrere
lentamente, finché il suo effetto non si dissolve. Non dovrebbe essere
euforica: non poi troppo, visto che si ritrova, suo malgrado, ancora in mezzo a
Babbani.
Ma
lo è. Euforica: per quello che ha fatto. Da sola, con le sue mani. Le
guarderebbe volentieri, con soddisfazione, ma la vocetta di Beth s'intromette
nei suoi pensieri.
"Ma
è di Riddle quel..." il volume della sua voce si abbassa a fine frase,
lasciandola incompleta. Lei alza gli occhi al cielo e ridacchia.
Apre
qualche altro cassetto, trovandolo vuoto, gira i tacchi e fila fuori dalla
stanza, i passi che risuonano appena come se le facessero da colonna sonora.
Sì, insomma, qualcosa come Honky Tonk Train Blues. Il maglione le va largo,
entra in un'altra camera, deve essere di qualche ragazza, sospira, e si mette a
cercare lì qualcosa che attiri la sua attenzione. L'incendio le ha fatto fuori
anche le mutande e ora non ha più niente.
Fischia
soddisfatta, trovando tre reggiseni e una camicetta appena decente.
"Ok,
bene." lancia quello che ha trovato a Beth, dietro di lei, che riesce,
pare, ad afferrare tutto, giusto con qualche urletto di sorpresa; lei l'ignora
e si sfrega le mani, ragionando sul da farsi con Honky Tonk Train Blues ancora
nella testa.
Ricorda
il pianoforte in casa di suo padre che la suonava, senza che nessuno lo
toccasse, rivede se stessa ballare con sua madre. Suo padre che fuma. Mentre ci
ripensa, ghignando a occhi socchiusi, scende le scale, torna al piano di sotto,
in quella specie di sala, dove si riuniscono i mocciosi più pigri, o quelli che
vengono pestati dai più grandi, se solo mettono piede fuori.
Percorre
le scale con troppa frenesia, al punto che rischia di rotolare giù un paio di
volte. Quando arriva, con la musica nelle orecchie, gira su se stessa, i tasti
del pianoforte che immagina vengono schiacciati così forte che il suono è
dannatamente intenso e la fa sentire ubriaca, o con la febbre. Decide di
smetterla, però.
Si
ricompone, come meglio può e cammina per la stanza, lo sguardo attraversa
l'arredo povero di quel postaccio, i suoi divani sbiaditi e un gruppo di
orfanelli che cerca di trafficare di nascosto con una bottiglia; infine cade su
un ragazzo che le sembra di aver già visto. Aggrotta le sopracciglia, mentre
Beth farnetica qualcosa che lei non sta neppure a sentire, fa scorrere nella
sua mente qualche possibile concordanza e poi rammenta.
Shelley
le aveva scritto per lettera – citando sin troppo meticolosamente la catena di
informatori – che il tipino sul divanetto che se ne sta a leggere da bravo mago
asociale, da quell'anno, sarebbe diventato il loro prefetto, insieme a
Blackwood e al posto di Barrows e Gregory.
Tu
guarda, un altro mago ficcato tra i Babbani. Ma non un puro. In quei libroni
che suo padre aveva in biblioteca – roba vietata, sembrerebbe – dove erano
riportate e aggiornate le genealogie di ogni Purosangue al mondo, lui non
c'era. Gliel'aveva detto suo padre, quando, da piccola, le chiese di elencargli
i cognomi dei compagni di casata, alternando “Sì”, “No”, a seconda di chi potesse
o meno permettersi di frequentare. Poi lei era diventata uno scorbutico
serpentaccio a sonagli e aveva finito con l'evitare anche i puri, se non le
andavano a genio.
“Orasiarrabbiaorasiarrabbia.”
fa, infine, la voce di Beth, rassegnata e lamentosa.
Guarda
ancora un po' il ragazzo, che solo ora solleva lo sguardo – non la testa – per
guardarla, poi fissa la parete, si avvicina alla porta.
La
musica è definitivamente sfumata via, l'euforia si inabissa in un attimo in un
freddo fumo nero. Risentimento.
Diciotto.
No, diciannove.
Diciannove
giorni ancora tra controlli all'ospedale, breve interrogatorio per stabilire se
l'incendio fosse o meno doloso, incontro con lo psicologo per verificare se la
cosa l'avesse scioccata troppo o troppo poco, ramanzina di qualche addetto a
chissà cosa per il calcio nelle palle rifilato allo psicologo.
Diciannove
giorni passati ancora in mezzo a uffici Babbani o ospedali, diciannove giorni
di pazienza e di malriusciti tentativi di autocontrollo.
Se
la ragazza fantasticasse o definisse cose di questo genere, probabilmente
immaginerebbe i suoi nervi come un gruppetto infuriato di donne in sindrome
premestruale, che servono a un bar, dove vengono solo operai grassi e
maschilisti e il padrone è un molestatore viscido sulla cinquantina.
Diciotto.
Fanculo, probabilmente sono molte di più.
Ma
fingiamo che siano solo diciotto. Diciotto orfanelle in un quadrato mattonato
che si chiama Wool, o Wood – deve controllare se è una “l” o una “d”.
Dalla
tasca della camicia di uno dei ragazzini sporge una sigaretta: l'idiota non
l'ha neppure nascosta bene. Così, invece di uscire dalla stanza, Efimiya Gray
si gira, lo raggiunge e gliela sfila, se la mette tra le labbra, spenta.
Socchiude gli occhi, simulando un'espressione beata.
“Mh,
buona.” fa, pronunciando male le parole.
Non
sa perché fa così: non sa se questi gesti hanno più qualcosa di isterico, che
allegro e beffardo. Anzi, è sicuramente così.
“Ragazza.”
“Oh,
ecco.” fa Beth.
Efimiya
si gira verso il ragazzo. È il mago. Cioè, il prefetto. Come si chiama?
“Ah
ah?” fa, togliendosi la sigaretta dalle labbra, con le dita, come se la stesse
fumando per davvero.
Quando
il ragazzo si avvicina, per qualche motivo, l'aria si raffredda, se non fosse
per la Traccia, Efimiya penserebbe a un incantesimo. L'effetto è quasi
piacevole, le strappa un ghigno.
“Quel
maglione.” dice lui, calmo, con un'espressione che sembrerebbe affabile.
“Sì?”
“Credo
proprio che sia mio.” stavolta accenna un sorriso. Lei fa una smorfia: le
sembra un sorriso falso. Ok, giochiamo a fare gli affabili, signor prefetto.
“Oh,”
fa lei, stirando un attimo le pieghe all'altezza della pancia, con la mano.“ Sì,
qualcuno deve avermelo detto.” Beth dietro di lei emette un verso sconsolato.
“Se
non hai roba da metterti, devi parlarne con la direttrice. Ti accompagno?” il
Babbano dietro di lui la sta incenerendo con lo sguardo, per il furto della
sigaretta che non può neppure reclamare.
Divertente,
tutto sommato, quel posto.
“Va
bene.”
“Solo
che questa qui non puoi fumarla,” dice, togliendole la sigaretta. Poi si gira
verso il ragazzino.“Dato che è vietato. Vietato, giusto?” il ragazzino fa una
smorfia vagamente animalesca, poi abbassa lo sguardo.
“Sì,
Riddle.”
Lui
le fa un cenno, esce dalla stanza, procede per il corridoio; lei lo segue
incuriosita.
“Riddleriddelriddle”
canticchia lei.
Lui
continua a camminare, le dà le spalle.
“Fa
rima con un sacco di cose, non te l'hanno mai dato un soprannome?”
Lui
non le risponde, lei sorride e riprende: “Sì, sai, qualcosa come Giggle,
Nipple, Jingle, Middle.”
Lui
si ferma, il sorriso di lei si allarga.
Ora
le tornano in mente molte più cose su Riddle: è un ragazzo che piace a
parecchie, a scuola ed è quel nome che spunta fuori anche troppe volte a
lezione, visto che è il secchione di turno.
Il
fottuto signor “Quindici punti a Serpeverde”.
Lui
si gira appena, l'espressione come pensosa e preoccupata, si posa le dita
suella tempia sospirando.
“Cielo.
Che insubordinazione.”
Efimiya
sente dapprima soltanto uno schiocco sonoro vicino al viso, poi la guancia
riscaldarsi, può persino immaginarla mentre si arrossa, istintivamente porta la
mano a toccarsi dove le fa male.
Sbatte
le palpebre incredula, una voce nella sua testa come allarmata che le fa: “Mi
ha dato uno schiaffo?!”
Lo
guarda starsene lì, con le dita ancora tese, in una posa quasi aggraziata,
l'espressione seria.
“Mi
hai appena dato uno schiaffo!” ringhia.
Lui
non le risponde, le sfila il maglione e la scaraventa a terra, lei cerca di
puntellarsi sui palmi delle mani, quelli scivolano appena sul pavimento: ha le
mani sudate.
“Robaccia
infettata come questa,” dice, sollevando tra le dita il maglione. “Non intendo
più indossarla.”
Il
maglione prende fuoco, lui lo lascia cadere per farlo incenerire a terra, poi
il fuoco sparisce. Efimiya sgrana gli occhi. Quello era un incantesimo. O forse
lui aveva un accendino e lei non l'ha visto. Trae un respiro col naso, quasi si
sente raschiare; deglutisce.
“Tu,”
le viene fuori dalla gola come un verso a metà tra un ringhio e una risata.
Porta
le braccia attorno alla sua stessa vita, per sopportare il freddo.
“Tu
dici che sarei io quella infetta? Disgustoso Mezzosangue, sei tu la vera feccia.”
così dicendo, rovescia il capo all’indietro e scoppia a ridere, coi capelli che
le solleticano la schiena. Sembra pazza.
Lui
inarca le sopracciglia, le dà le spalle; uno dei ragazzi si affaccia al
corridoio, lui lo raggiunge, gli dice di prendersi cura della ragazza nuova,
che per qualche motivo sei è spogliata e l'ha aggredito. L'orfano annuisce e fa
per raggiungerla. Riddle si allontana, lei può vederlo in fondo al corridoio,
come se stesse per svoltare l'angolo e sparire alla vista, ma comunque lì, in
linea d'aria.
Poi
il dolore. Dal nulla, lancinate, terribile, come gelo che sveglia le membra, le
ridesta, con una sola unica consapevolezza che diventa imponente e assoluta
come un dio. Un grottesco dio che calamita su di sé ogni interesse, ogni
funzione del corpo, ogni allucinazione. Do. lo. re.
Dolore.
E le sue grida devono essere preghiere.
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“Crisi
epilettica, mh?” fa Fedora. Si trovano ormai a miglia di distanza dalla casa di
Jimmy Lewis e Fedora comincia a essere stanca di starsene lì in mezzo a
vecchietti ficcati già per metà in una cassa da morto. Sospira.
Prima
che accadesse tutto quello che era accaduto, non aveva mai provato moti di odio
verso la nonna, ma quando esci dall'allucinazione della tenerezza della
famiglia, ti rendi conto di tutto il reale squallore di una persona, ne noti
ogni difetto, ne vedi le ripugnanti debolezze, ne comprendi le banalità. E la
nonna – è evidente – era una delle stupide troiette infatuate di quello che
sarebbe stato il genocida che aveva ingannato e mentito a tutti.
Perché
glielo leggeva in faccia, a sua nonna, che quella per Lord Voldemort e la sua
reale vicenda biografica era un'ossessione malsana. Chissà cosa voleva scoprire
realmente. Fedora sorride di quei pensieri. Non sa nella vita di chi alto dovrà
frugare, come una ladra, ma comincia a pensare che quella ricerca comincia ad
avere un interesse.
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Dovrei
essere più cauto.
Davvero
la maledizione Cruciatus è stata un azzardo, considerando, tra l'altro, che era
la prima volta che la utilizzavo. Ma diciamo che curiosità e una buona dose di
rabbia sortiscono in me effetti non esattamente controllati, suppongo che
rimarrà per sempre una mia debolezza.
Storco
le labbra quando mi passa per la testa quella parola, cercando un sinonimo che
mi suoni meglio.
Pecca ecco, direi che si
addice molto di più a me.
Che seccatura. Ho architettato tutto abbastanza bene, perché non
fossi incolpato di nulla. Ogni perplessità era stata razionalmente
giustificata. La ragazza non ha più indosso il maglione: naturalmente quella
capricciosa me l'ha lanciato addosso, rifiutando l'aiuto che le avevo
pazientemente offerto davanti a tutti. Si è sentita male subito dopo e questa
non è certamente colpa mia. La facciata ecco.
Eppure, quella facciata deve pur sempre fare i conti con la fama
oscura che mi trascino, da quando ero bambino, lì all'orfanotrofio. E quindi?
Be' sono pur sempre uno dei più grandi e con un paio di non richieste
responsabilità. Ero il terzo da quel pomeriggio a dover sorvegliare la malata
lì nel lettino. Che seccatura, appunto. Quelli del mio anno, all'orfanotrofio,
in un certo senso equivalevano ai prefetti di Hogwarts. Guardo la ragazza. Come
le è venuto in mente di svenire? Che razza di gracilina.
Non ho potuto neppure protestare troppo. Il professor Silente mi
tiene già abbastanza d'occhio, mi costa fatica compiere incantesimi,
impedendogli di controllarmi e ostacolarmi, dato che prendo ogni dovuta
precauzione. Eppure sono convinto che la strega orfana sia finita lì proprio a
causa di Silente. E allora è meglio non insospettire nessuno ed essere
paziente. Ancora. E ancora. Ma non per
sempre.
Sbircio nuovamente la ragazzina, oltre i fogli dello stesso libro
che sfogliavo, prima che lei arrivasse a fare baccano giù in sala. Le pagine
sono così sottili e lisce che sembrano tessuto, se mi concentro su questo posso
persino ignorare la ragazza fastidiosa che se ne sta a dormire sul letto
dell'infermeria. E volendo posso sopportare gli altri pochi giorni di noia,
prima del rientro a Hogwarts.
“Ipocrita.”
Non
mi sono accorto di quando la ragazza si è svegliata. Non la guardo,
naturalmente.
La sento schioccare appena la lingua, “Quella era una M.S.P.” dice
lentamente, la voce calma, al punto da non promettere niente di buono, alzo per
un secondo gli occhi, poi torno al libro e cambio pagina.
“Ipocrita, mh? Che cosa intendi?” paragrafo terzo, eccolo. “Una
M.S.P? A cosa ti riferisci? Non è colpa mia se hai attacchi epilettici in pieno
corridoio.”
“Aspetta che torniamo ad Hogwarst e vedrai.”
“Sarà che ti agiti troppo, sicuro. Se ti sbracciassi meno non
accadrebbe, non credi? Certe persone finiscono per rimanere paralizzate appena
prima di smettere di fare maratone.” ma di che diavolo parlo? Non c'era bisogno
di stuzzicarla, ma sono talmente vendicativo, sospiro rassegnato.
Non risponde. Ottima cosa. Ritorno al libro. Anzi, che
sciocchezza, devo avvisare quella disgustosa direttrice, così almeno potrò
lasciarla in mano a qualche Babbano che se ne occupi come si deve. Ora l'avviso
e potrò tornare a farmi gli affari miei. Faccio per alzarmi, apro la porta e mi
sporgo. Ecco che passa quel verme di Jimmy. Obeso, lui. E disgustoso, come
qualsiasi Babbano.
“Ehi, Jim,” fingo gentilezza, quasi. E distacco, ovvio. “La
ragazza si è ripresa, dì alla direttrice che può mandare qualcun altro a
occuparsene” dico, calmo.
Jimmy sorride, un sorriso ebete. Distacco. Una barriera, che non
mi tocchi nemmeno. Invece, mentre Jimmy avanza, dondolando nella sua forma
grassa, mi sfiora la mano. La ritraggo. Jimmy sente il movimento ma non si
gira, temendo di essersi sbagliato, indugia un attimo, poi sorride e va via.
“Bene.” dico, cercando di riscuotermi con la mia stessa voce.
Eppure trema appena. Nervosamente. Mi avvicino al lettino e mi chino, affinché solo
lei possa udirmi. “Adesso verrà uno dei tuoi amici Babbani ad accudirti, non
sarebbe il primo che lo fa, a quanto dicono” mi ero ripromesso di non darle più
tanta importanza da provocarla, ma sono nervoso. Troppo.
La porta si apre, una ragazzina entra con dei vestiti, arriva
anche un ragazzo, che si mette ad aspettare fuori, per darle il tempo di
vestirsi. Insieme a loro c'è Jimmy, che saluta e se ne va, massaggiandosi il
braccio con cui mi ha urtato poco prima.
“Ecco, la direttrice verrà tra due ore, più o meno, nel frattempo
resta qui” fa la ragazza, le appoggia gli abiti ai piedi del letto. Sospiro,
finalmente posso andare. Esco, lasciando quei due a badare a lei, ma non faccio
in tempo ad avviarmi, che la vedo schizzare via dalla stanza.
“Piantagrane.” sussurro stizzito, riesco ad afferrarla appena
passa, la sbatto in camera chiudo la porta, lasciando fuori gli altri due
ragazzi.
“Che fai? Eh?” guardo i vestiti a terra. “Smettila di creare
problemi. Sei fastidiosa.”
“Presuntuoso,” sorride lei, si è puntellata con le mani sul bordo
del letto, per non scivolare, la testa china coi capelli scarmigliati che le
ricadono sul viso e lo sguardo aguzzo, sgraziato.
“Non sono il tuo clown, non agisco per annoiarti o divertirti, non
me ne frega un cazzo. Io sono così e sono io ad andarci di mezzo, quindi torna
a leggere e levati dalle palle.” così dicendo, fa per oltrepassarmi; prima che
lo faccia, le afferro il polso, lei non è neppure davanti a me, con la coda
dell'occhio vedo il suo orecchio e i suoi capelli che al momento sembrano un
nido di tordi.
“La verità.” sento il mio stesso tono freddo e serio.
“Ti manda Silente è così?”
Lei ridacchia, io aggrotto le sopracciglia.
“Ma bene, allora aveva ragione lui. Sei intelligente.” con uno
strattone libera il polso.
“Sì, Riddle, perché altro credi che sia qui? Da sempre sono io il
suo braccio destro. Ti osserva da un po', ma questo lo sapevi,” fa una breve
pausa, mentre io irrigidito, assorbo quelle informazioni.
“Oppure no? Eh Riddle?”