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Autore: Mork    06/04/2011    3 recensioni
Un appartamento in una grigia città europea. Una ragazza sadica e perversamente sensibile. Un uomo affetto dalla sindrome di Stoccolma.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sentiva i frammenti di vetro del tavolino pizzicargli la schiena e boccioli di dolore fiorirgli per tutto il petto; non aveva il coraggio di alzarsi sui gomiti per guardarla meglio, perché temeva di conficcarsi una scheggia nel braccio; così rimase disteso a fissare la ragazza seduta a cavalcioni su di lui, che teneva una mano mollemente poggiata sul suo ventre, e con l’altra si tappava la bocca, cercando di soffocare i singhiozzi. Il coltello era abbandonato poco distante. Il volto della ragazza era bagnato di lacrime, e i suoi occhi erano incollati al televisore; scostò il palmo della bocca quanto bastava per dire: «Quale coincidenza! Mi chiamo per l’appunto Harvey!
Ricordo che questa scena mi commuoveva sempre, tanti anni fa»
«Ed ora non più?»
«Ora io... non riesco quasi più a commuovermi. Oh, tesoro!», gemette, piegandosi sul petto dell’amato e sollevandolo dal pavimento, mentre con una mano gli puliva la schiena dai frammenti di vetro. Se lo strinse forte al seno e premette le labbra sui suoi capelli corvini striati di grigio acciaio, dondolando avanti e indietro come se lo cullasse.
«Ti ho fatto male?»
«Sì... sei stata più crudele dell’ultima volta, sai?» mormorò lui, sorridendo debolmente, credendo di dirle una cosa gradita, ma la voce della ragazza rimase distaccata quando chiese: «Hai avuto paura?»
«No, no. Però mi hai colto di sorpresa»
Lei sorrise e gli baciò una tempia con dolcezza, ma i suoi occhi bruciavano di dispetto. Non era più come una volta; sentiva che il loro rapporto si sbriciolava e si disperdeva come un castello di sabbia sconvolto dal vento. L’abitudine, i loro incontri sempre più frequenti, stavano uccidendo una delle poche cose che ancora riuscivano a donarle un’emozione. Non avrebbe mai permesso alla ripetitività di logorare così la sua unica gioia.
Accarezzò mollemente i capelli del suo amato, poi gli affondò i denti alla base del collo in uno scatto di ferocia, e la sua espressione si distese percependo la sorpresa mista al dolore nel gemito dell’uomo: lo morse più a fondo, aggrappandosi alla sua carne come ad un’ancora di salvezza.
Avrebbe dovuto smettere di vederlo, liberarsi da quelle soffocanti consuetudini, per poter provare di nuovo le violente emozioni che l’avevano elettrizzata la prima notte che avevano passato insieme, quando aveva letto nei suoi occhi terrore puro misto ad una nefasta attrazione. Ma non sarebbe mai riuscita ad abbandonarlo, non riusciva neanche ad immaginarsi un altro uomo al suo posto, nessuno sarebbe mai stato come lui. Aveva scelto lui, era lui che voleva. Era suo il corpo che aveva così profondamente marchiato con la sua persona.
«Adesso smettila, per favore», piagnucolò l’uomo, stringendole forte le spalle «Ti prego, basta... Smettila, Asah!»
La ragazza staccò immediatamente i denti dal collo dell’amato, come se si fosse risvegliata da un trance: sentì il metallico sapore del sangue sulla punta della lingua, e ne provò un piacevole brivido di disgusto. Poi posò gli occhi sulla ferita che aveva aperto nella carne del suo uomo, e una soddisfazione nervosa, un misto di voluttà e rimorso la pervase: non si era mai spinta tanto oltre; probabilmente gli sarebbe rimasta la cicatrice.
L’uomo poggiò la fronte sulla clavicola della ragazza, strizzando gli occhi per fermare le lacrime e mordendosi un labbro. Lei lo fece alzare lentamente e lo fece sedere sul divano: «Vado a prendere le bende», mormorò sommessamente lei, e sparì nell’oscurità di un corridoio. L’uomo si passò le nocche sulle palpebre ed emise un sospiro tremulo nel tentativo di ignorare le fitte al collo; sentiva il basso tramestio proveniente dal bagno, o da un’altra stanza imprecisata al di là di quel varco oscuro che lui non aveva mai attraversato, nonostante avesse visitato quell’appartamento ormai numerose volte; non aveva idea di come fossero le altre stanze: i loro incontri si erano sempre svolti in quel salotto.
Fissò il suo sguardo offuscato sui resti frantumati del tavolino di vetro, la ferita sul collo, quelle sul petto e sulla schiena confuse in un dolore sordo, pulsante, relegato in uno spazio indefinito che l’uomo a stento riconosceva come appartenente al proprio corpo; gli capitava spesso di fantasticare sull’identità della sua amata, della quale non sapeva nulla se non quel nomignolo, “Asah”, che non sapeva neanche se potesse avere o meno qualche legame con il suo vero nome. Non poteva dire di conoscerla né di capirla; lei gli nascondeva tutto, tranne quella parte di sé che non era mai riuscita ad esprimere con nessuno, e che forse lasciava sgomenta anche lei: quell’amore così violento e brutale che la spingeva a ferire l’amato, costringendolo ad urlare e gemere, per il morboso piacere di imprimere la sua presenza così veementemente, per poi commuoversi e lasciarsi pervadere da quella pietà oscena.
  
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