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Autore: Neal C_    15/04/2011    2 recensioni
[Storia temporaneamente sospesa]
Pochi governano sulla terra di Filesis: la confraternita della Mano Bianca.
I monaci, uomini dai poteri magici innati e membri della confraternita, sono addestrati a mantenere l’ordine nel mondo.
E nonostante la prosperità, la ricchezza e il fiorire di commerci, dopo una breve pace, il mondo è di nuovo in guerra.
La guerra contro i Ribelli che inneggiano alla libertà, alla giustizia e vogliono la fine del dominio della Casta.
Una donna, un ragazzino. Una ex-monaco, uno dei Ribelli. Minimo comun denominatore: fuga.
In fuga dal passato, in viaggio verso un futuro pieno di errori che si lasceranno alle spalle e non riusciranno a dimenticare.
Entrambi verranno a contatto con una forza antica quanto la terra che calpestano, se non di più. Nessuno dei due la riconoscerà.
Quando lo faranno dovranno convincersi che le leggende sono vere. E che le apparenze ingannano.
è la mia prima pubblicazione su EFP. Prendete la mira e sparate a zero.
E siate schifosamente sinceri.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avvertenze per il povero lettore:

Cari miei, meglio che chiariamo un po' la struttura di sto' poema, così siamo tutti più contenti sopratutto perchè ci capiremo tutti qualcosa in più.
La storia è vista da due punti di vista diversi e quando parlo di POV non intendo che il racconto è scritto in prima persona (ma visto che non siete dementi sicuramente ve ne sarete accorti ù.ù) bensì intendo che ciascuno vive le sue vicende fino ad incontrarsi (oppure no...?) tutti insieme appassionatamente. Ecco spiegato il nomiciattolo in grassetto puramente inventato che apre il capitolo, in posizione centrale
Così quando leggete il corsivo almeno avete una vaga idea di chi sta pensando e non vi confondete. I nostri cari protagonisti si dovrebbero alternare e tenervi così con il fiato sospeso.
Ecco, adesso che ho svelato il trucco, prego, leggete pure. 



Jersa

Fuori posto

Jersa si accovacciò nel terreno umido, cercando di apparire invisibile nonostante i falò centrali che evidenziavano malignamente le ombre.
Il campo era coperto di feriti e mutilati, sdraiati su mucchi di stracci, la puzza del sangue impregnava l’aria, faceva girare la testa tanto era intenso. C’erano pile di cadaveri ammassati vicino ai fuochi e Jersa poteva udire il cozzare delle pale sul terreno. C’era rischio di pestilenza se i cadaveri non fossero stati sotterrati o bruciati. Il timore più grande era che le masse di corpi soffocassero le pire, tanta era la mole; Per questo si era deciso di ricorrere alle fosse comuni. 
Era stata una carneficina ed era la sua prima battaglia.
Non aveva mai veramente desiderato arruolarsi nell’esercito; era l’unica realtà che conosceva e quando suo padre perì in una di quelle battaglie inutili contro i Ribelli il suo corpo fu riportato su di una barella di legno. Era la prima volta che vedeva un morto e la cosa lo scosse profondamente.
Suo padre era un uomo serio, un veterano di poche parole ma aveva sentito poco la sua mancanza; aveva undici anni. A quattordici aveva dovuto scegliere il destino da seguire.
Era tardi per iniziare a lavorare, avrebbe dovuto prendere anni prima quella decisione ma era stata la sensazione di crescere, trovare un mondo ingiusto e inospitale, a rallentare il processo della sua giovinezza. Sorrise amaro; un vecchio del villaggio una volta aveva detto: “La vita è dura”. Lui si lamentava delle sue vecchie ossa mentre Jersa si lamentava di sè. Era insoddisfatto del suo fisico gracile e non ben piazzato come gli eroi combattenti delle storie che si tramandavano. E le sue mani piccole e tozze, non erano mani da soldato ma da suonatore di cetra, e anche il suo corpo era quello di un bardo o di un ladro, affatto adatto alla carriera militare. Ciononostante sua madre l’aveva mandato presso il generale dei Serapides chiedendo intercessione per lui, Jersa figlio di Enagmir il Capitano; Essere figlio di un autorità non garantiva niente, salvo un posto nell’esercito alla progenie e forse qualche amicizia del genitore morto. Il rispetto se lo doveva conquistare, e per di più la carriera militare non rendeva neppure ricchi. Lui, figlio di un capitano, era cresciuto in mezzo al fango di un villaggio come un contadino e aveva goduto dell’aria libera finchè il tempo non aveva reclamato la sua vita.
Era come se il suo mondo fosse finito prima di iniziare. L'unica  vita degna di essere vissuta era stata la sua spensierata giovinezza, quel nuovo tempo che era giunto  era solo un'incognita.
Non era ancora un uomo, lo leggeva negli occhi di tutti coloro che vedeva, persino quel giorno l’aveva letto negli occhi dei suoi nemici, quasi come se fossero incapaci di attentare alla vita di un bambino. Eppure da lui già si aspettavano che tracciasse la sua rotta come una nave ben avviata, con il timone sciolto, mentre il nostromo osserva le carte e la bussola alla ricerca del Nord. Era una responsabilità che mai si sarebbe attribuita ad un bambino e la sua gravità pesava come un macigno.
Poi c’era stata quella mattina e si era accorto che non avrebbe più potuto combattere contro uomini che lo guardavano compassionevoli. Non voleva vedere la pietà nei loro occhi, se non era abbastanza uomo per affrontarli, avrebbe preferito non fronteggiarli mai più. Sapeva che disertare era un reato, ma sapeva anche che i monaci sarebbero stati clementi, semmai lo avessero preso.

Ce la posso fare.


Quella sera avevano abbassato la guardia. Non era rimasto niente dell’esercito messo in piedi dai Ribelli e non si temevano agguati e ritorsioni. I cadaveri di cui disfarsi avevano quasi tutti la livrea nera della Ribellione. Prese un sorso di Diarik dalla fiasca del suo fedele marsupio di cuoio. Erano poche strisce di pelle conciata cucite insieme ma erano tutto per lui. Il suo unico bagaglio indispensabile e mai se ne sarebbe separato. Lì  conservava i suoi coltelli e la fiala di alcool.
Gli era sempre piaciuto l’alcool, il Diarik era forte ma per lui aveva un piacevole sapore dolciastro. Lo aveva provato tre anni prima e da allora ne portava sempre un po’ con se. Gli dava coraggio e lo faceva sentire uomo. Poteva berne grandi quantità senza perdere la ragione come capitava a molti e lo facevano star bene. Quello era l’aspetto più adulto che avesse e ne era orgoglioso. Parecchie volte aveva rimesso il liquore e la sua inconfondibile schiuma giallastra gli era rimasta in bocca, ma l’idea che potesse rovinargli il fegato non lo aveva neppure sfiorato. E se anche ne fosse stato al corrente non vi avrebbe dato credito.
Un'altra cosa di cui andava fiero era la sua abilità con i coltelli che preferiva agli spadoni e alle daghe tipiche dei cavalieri. Il suo sogno era il fejii, un’arma che solo i ricchi si potevano permettere: un coltello ricurvo di dimensioni molto più ampie di un semplice pugnale, facilmente letale; era l’arma dei monaci che ne avvelenavano la punta con intrugli e incantesimi magici e quella era la loro sola arma difensiva.
Erano spesso in un acciaio argentato che brillava di bianco e poiché riservato alla classe alta era chiamato "linfacciaio".
Dunque rimaneva un sogno, anche quello. Jersa aveva pensato di servire i monaci ma sapeva di aver ben poche possibilità non essendo nato “vecchiardo” come li definivano gli abitanti del suo villaggio. Non era cattiveria ma solo buonsenso: erano come vecchi ma potevano avere anche poco più di vent’anni. Gli abitanti erano loro grati per la pace che mantenevano in quella terra segnata dai contrasti. Ed erano benevoli con quell’ordine così potente e misterioso poiché il sospetto difficilmente si insediava nelle loro menti sempliciotte. Ogni dubbio era subito smentito e aveva vita breve.
Il Diarik gli aveva restituito un po’ di coraggio e continuò a strisciare nella sabbia. Gli stivali erano impolverati e sporchi di sangue come il terreno su cui sfregavano e quando il ragazzo dovette poggiare le mani a terra, non poté trattene una smorfia disgustata.
Il campo aveva una forma circolare e il cerchio, sebbene nessuno ne fosse al corrente, il ragazzo compreso, era uno dei simboli fondamentali dell’Ordine lifelbino: rappresentava l’inizio e la fine in circolo, l’emblema di un potere eterno, destinato a rigenerarsi. Era quello l’atteggiamento dei monaci, che l’occhio sveglio di Jersa aveva colto anche senza capirne il perché. Era una sicurezza che nasceva alla radice, un territorio inattaccabile che non aveva esitazioni, era forte ma diverso dal rozzo vigore che animava il soldato. Una fermezza che non si materializzava nella violenza e per questo il popolo ne era succube.
Anche il giovane disertore riconosceva che non vi era alcun motivo per scontrarsi e non capiva le inutili ostinazioni dei ribelli. Gli era capitato di incontrarne alcuni, prigionieri o ambasciatori che erano venuti a trattare, ma non aveva mai trovato alcun fondamento nelle loro richieste. Volevano la fine del “Monachismo” come era chiamato nei quartieri bassi, senza mezzi termini e tutti i tentativi di contrattare si rivelavano inutili.
Ricordava, ancora bambino, quando suo padre era tornato a casa, all’alba, rosso in volto tale era il furore che provava. Era rimasto irascibile e violento fino a sera, poi, finalmente, era cominciato un dialogo fra i suoi genitori che gli aveva fatto una grande impressione. Suo padre era seduto al tavolo e aveva imprecato ad alta voce:
“Dannatissimi mangia ratti! Ma lo sai che hanno fatto, moglie, lo sai?”
La donna era intenta a posare in tavola il piatto di verdure Kremiri, lunghi arbusti verdi sciolti nel brodo in una poltiglia grassa, un miele animale salatissimo.
“E che avranno mai fatto, Enagmù, ancora possono stupirci? Chiedono sempre le stesse cose e mi meraviglio che non ci siamo ancora stufati di ascoltarli.”  
La moglie era come un po’ tutte le donne: più realista, più scettica, poco combattiva e preferiva non partecipare alle faccende politiche di cui si intendeva il marito ma certo non rinunciava a dare il suo parere anche senza sapere niente di ciò di cui si stava parlando.
In fondo era curiosa di sapere, sicura di saper dare a ciascuno il consiglio giusto e portare come esempio della sua ammirabile perspicacia ogni episodio che riusciva a strappare agli altri.
Quindi, dopo un’intera giornata di trepidante attesa, riusciva a stento a trattenere la curiosità. Il marito era sicuramente un uomo calmo e posato, doveva esserci una ragione seria per quello sfogo così manifesto.
Ancora si congratulava per la sua perla di saggezza quando udì la voce dell’uomo farsi ancora più rabbiosa e tonante:
“E invece hanno chiesto; che ne sai tu che hanno chiesto? Se anche te lo dico che mi rispondi?”
Passata la sfuriata, sospirò: “Ma ci pensi? Che si fa ora? Si rinvia il trasferimento? Schifosi bastardi!”
La donna sapeva di dover aspettare ancora, far sbollire le ire residue, ma soprattutto, regola numero uno di una pettegola, mai chiedere esplicitamente ne tantomeno farsi insistente. Prima o poi avrebbe seminato e lei avrebbe raccolto i frutti. Si limitò a posare sul tavolo una brocca di coccio piena di Diarik e aggiunse solo:
“Fermare il trasloco? Che pasticcio! E come si farà?”
Il pugno del soldato sbatté sul tavolo con veemenza.
“E che dobbiamo fare?! Qua tutti vogliono risposte e che si fa?”
Afferrò la brocca e con un gesto brusco se la portò alle labbra, bevendo con due lunghi sorsi rumorosi. Poi la allontanò con una manata mentre con l’altro braccio si passava il dorso della mano sulla faccia per pulire la bocca.
“Te lo dico io che si fa! Qua si cambia destinazione! Non ci vado in quel covo di delinquenti!”
Durante quel dialogo di sfuriate paterne e piccole trappole psicologiche materne, l’allora piccolo Jersa era rimasto a guardare entrambi, con gli occhi spalancati, senza veramente capire quale fosse la disgrazia che creava tanto panico in famiglia: “Scusate, ma che succede? Signor padre? Signora mamma?”
Il soldato sbuffò infastidito : “Antilina, spiegaglielo tu che non c’ho voglia”
La moglie, ignara di tutto, si limitò a lanciare un’occhiataccia al bambino e a rispondere aspramente: “Va a letto che non è cosa per un bambino.”
Ma il padre si riscosse e con uno sguardo serio al bambino deluso lo trattenne ancora. Prese un pezzo di pane raffermo che la consorte aveva bagnato nello stufato di Kremiri e lasciato sull’orlo del piatto.
“Ragazzo mio, prima o poi dovrai pur capire  qualcosa del mondo, quindi zitto e ascolta.”
Cominciò finalmente a parlare sotto gli sguardi incuriositi di due personaggi:
“Stamattina è venuto al campo uno di loro, in uniforme di battaglia...”
Arrivò repentina la domanda del piccolo:
“Loro chi?”
Fu ammonito severamente:
“Lascia parlare altrimenti non saprai mai. Dunque...dicevo che è giunto quest’uomo, un ambasciatore dei Ribelli che ha proposto ancora una volta i loro assurdi accordi che siamo abituati a sentire. Non lasceremo mai Filesis nelle loro mani, che si rassegnassero. Per accordarci, uno dei monaci, una ragazza con degli strani occhi, dopo aver contrattato per un pezzo, ha promesso loro la città di Tetranex come base, ma solo se smettevano di fare la guerra. Quei figli di un demone hanno accettato subito e adesso siamo così combinati!”
Digrignò i denti e riprese a urlare furioso:
“Non dovevano fare una concessione così! Era una bella città sul fiume, in pianura, non troppo vicina e non troppo lontana dalla palude, aveva anche un sacco di giardini dove ti saresti divertito! Io avrei trovato presto lavoro e la mamma tante nuove amiche! Tutta un’organizzazione stravolta! Bestie rapaci!”
Anche la madre si lamentò della disgrazia e imprecò fra sé e sé, ma dopo poco tornò a lavare i panni e non ci pensò più. La notizia era ormai vecchia e, a parte le amiche del villaggio, nessuno era interessato ai maneggi politici delle schiere militari. Si viveva alla giornata, non serviva sapere, l’importante era proteggere le proprie cose, i propri cari e tirare avanti come meglio si poteva. La pace che i monaci garantivano soddisfaceva la gente e la loro piccola vita era tutto ciò che importava loro.
Nemmeno Jersa capì granché del discorso del padre: non sentiva alcun bisogno di trasferirsi e non aveva mai visto dei giardini destinati alle attività di gioco. Non conosceva ancora il mondo e non sentiva il bisogno di cercare qualcosa aldilà del suo villaggio.
Nemmeno ora, con le gambe che strusciavano nella polvere fino alle cosce, reduce dalla battaglia di quel mattino, stanco e spossato ma con i sensi all’erta, si sarebbe allontanato per una semplice curiosità. Era una necessità la sua, doveva trovare il suo posto e non si trattava solo di nascita ne di ereditare il lavoro del padre. Pensò, solo per un attimo, alla madre che avrebbe lasciato indietro, fuori dalla sua vita e si fermò, abbandonando la prudenza, improvvisamente bambino.
Rimase lì, accovacciato, a fissare il vuoto, cercando un unico istante, momento, giorno, ora della sua vita in cui sua madre fosse stata veramente presente. Non trovando nessun motivo veramente valido per rimanere, scacciò quei pensieri con una scrollata di spalle e continuò a strisciare lungo il bordo del campo.


L'angolo dell'autrice


Eccoci di nuovo. Non mi dite che sentivate la mia mancanza! Anche perchè non vi crederei. 
Eccoci al secondo capitolo che sicuramente la mia adorata cuginetta Nihal992 rivedrà da cima a fondo e magari mi darà una mano con la punteggiatura che proprio non è arte mia.
Ma a parte lei, su cui conto sempre (MEOW! *_____* ), voglio ringraziare anche un'altra lettrice, la meno timida fra quei 38 che hanno letto o scorso la storia, Giu09.
Magnifiche la mia emv che già mi segna fra le sue preferite anche se non mi ha manco letto (incoraggiamento un po' di parte) e le mie Kill Bill che più prudentemente mi seguiranno assicurandosi che ne esca una cosa leggibile.
Allora vale la pena di continuarla sta' storia o è meglio che mi do all'allevamento di seppie?
Aggiungo a beneficio di tutti per chi ha notato il titolo in pseudo-greco antico (dannato/benedetto liceo classico!) : se vi spiegassi anche questo vi avrei raccontato la storia in cinque parole, dovrei chiudere i battenti e avrei tempo per dedicarmi alle mie seppie. Ma visto che sono una che allunga il brodo allora soffrirete a lungo prima di capire o, cosa più probabile, vi scoccerete prima.
Poi mi piacerebbe sentire chi dei due protagonisti vi fa più simpatia. Io all'inizio avevo "il raptus della crocerossina" e stravedevo per il mio Jersa, adesso non saprei più che dirvi.
Finisco con un must della letteratura, la nostra costituzione:


i diritti imprescindibili del lettore.

I. Il diritto di non leggere
II. Il diritto di saltare le pagine
III. Il diritto di non finire un libro
IV. Il diritto di rileggere
V. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
VI. Il diritto al bovarismo* (malattia testualmente contagiosa)
VII. Il diritto di leggere ovunque
VIII. Il diritto di spizzicare
IX. Il diritto di leggere a voce alta
X. Il diritto di tacere

* Il termine bovarismo indica l’attitudine degli uomini a credersi e a vedere le cose diversamente da quelle che sono, a sognare delle felicità irrealizzabili, irraggiungibili.
Questo termine è stato coniato da Barbey D’Aurevilly e deriva dal cognome della protagonista del celbre romanzo di Flaubert, Madame Bovary. Flaubert si è ispirato ad un fatto di cronaca: la vicenda di Delphine Delamare. Questa donna aveva suscitato scandalo in un borgo della Normandia, per le sue manie di grandezza, le sue spese eccessive e la sua voracità nel leggere romanzi, infine si era suicidata, perchè travolta dai debiti. L’eroina di Flaubert sceglie una realtà fittizia che le da maggiore gratificazione.

@ Copyright:  Daniel Pennac "Come un romanzo" e Blog Lettera Bartleboom:  http://letterabartleboom.wordpress.com/2006/12/20/ecco-il-vostro-peggior-nemico/  @

Ecco adesso andate e moltiplicatevi, cari lettori!

Abbi

p.s Ovviamente ringrazio tutti quelli che hanno letto, che mi seguono, mi seguiranno, hanno intenzione di seguirmi ecc. e ringrazierei anche quelli che non volessero seguirmi mai e poi mai se mi spiegassero perchè...aiuterebbe ;)
  
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