E
che santella!
Smadonna
scendendo le scale, bestemmiando colorito nel suo idioma
d’origine, a causa del
grecale che senza misericordia gli ha sparso mutande e canottiere nella
corte
della portinaia.
Incrocia
sul pianerottolo alcune persone, ma non si cura affatto
d’interrompere il
borbottio di contumelie che sgrana come un rosario. Poiché
non può fare a meno
di pensare alla malasorte che lo perseguita dacché
è stato messo al mondo più
di sessant’anni prima.
Eh
sì,
borbotta Eduardo Scannapieco, di professione arrotino ambulante, ma
attualmente disoccupato, una locuzione questa che abbraccia ormai un
arco
temporale che si compone di almeno un lustro, perché
per me la iella ha sempre avuto un occhio di riguardo!
E
in effetti non esagera il poveruomo, sebbene abbia la classica
propensione
tutta partenopea di enfatizzare alquanto le cose. Ma vocazione
all’iperbole o
no, questa è la sacrosanta verità, confermata a
maggior ragione dalla sua
figura sparuta e malmessa, che praticamente parla da sola. E’
magro Eduardo
Scannapieco ed ha il volto pieno di rughe come se fosse molto
più vecchio.
Troppe preoccupazioni, altrettante le amarezze, ma soprattutto a
segnarlo è la perenne
barba di tre giorni, sale e pepe, che gli picchietta le guance e il
riporto spalmato
col quale inutilmente cerca di coprire la crapa pelata.
L’abbigliamento
raffazzonato poi fa il resto, ché la mise
con cui si presenta suggerirebbe ad uno spettatore smaliziato
l’idea che
la mattina donn’Eduardo si lanci nell’armadio e
metta esclusivamente ciò che
gli rimane attaccato addosso. Il che non è affatto vero,
giacché in genere se
ne va in giro sempre con le solite quattro pezze.
Salvo, quand’è a casa, aggiungere ai pantaloni
pieni di frittelle d’unto e al
maglioncino frusto, una giacca da camera che ha visto decisamente tempi
migliori.
E
semmai qualcuno si prendesse la briga di chiedergli come mai si mostri
così di
male arnese, volentieri gli racconterebbe che la colpa è
tutta di quella sgaglia e fella di pastiera di sua moglie, donna
fedifraga e bugiarda, che
dopo averlo riempito di corna per anni, l’ha lasciato,
portandosi appresso pure
i suoi pochi averi per pignorarli al banco dei pegni. Purtroppo
però persino questo piccolo sfogo
gli è negato, la sua è storia risaputa, vecchia a
tal punto che ormai nessuno
si ci inzuppa il pane. Neanche per lo sfizio di stuzzicarlo.
E’
solo Eduardo Scannapieco, da troppo a tu per tu con
l’abbandono, che l’ha abbruttito
di pari passo con il suo lasciarsi andare. Figli non ne ha, parenti a
portata
di mano meno che mai, essendo emigrato al nord in gioventù e
mai più ritornato
al paese. Eppure quel viaggio pieno di speranze che l’ha
visto protagonista
imberbe in tanti anni non ha affatto mutato la sua condizione. Morto di
fame era
e tale è rimasto pure in mezzo alla nebbia. Non ha
conosciuto nessuna
evoluzione e anzi, ancor’oggi, quando gira per i quartieri
residenziali nella
speranza che qualche casalinga abbia da arrotare le forbici e coltelli
oppure
abbia necessità dell’ombrellaio, le portinaie sono
solite appellarlo di malo
modo brontolando Africa,
esattamente
come negli anni 50.
E
vaglielo a spiegare a quelle infamone che la sua rovina sono state
l’Ikea e i
centri commerciali! Prima la gente conservava, le lame venivano
sfruttate
finché era possibile e anche oltre, gli ombrelli poi si
tramandavano di padre
in figlio. E invece è tutto cambiato nel giro di una
generazione e lui, che ci
si è trovato a cavallo, senza un titolo di studio, privo di
un pezzo di carta
qualsiasi che potesse affrancarlo, è rimasto al palo. Certo
finché ne ha avuta
la forza ha lavorato come imbianchino e muratore, sempre rigorosamente
a nero,
ma ora che il peso di quarant’anni di nazionali senza filtro
gli ha tolto il
fiato, i capomastri si rifiutano di prenderlo in cantiere. E’
vecchio e inutile
e si è ridotto a vivacchiare alla giornata, trascinandosi
stancamente.
In
ogni caso oggi aveva deciso di prendersela di festa, ma come al solito
la
sfortuna si ci è messa di mezzo e il vento ha fatto il
resto. E non è tanto il
fastidio di doversi scomodare dalla poltrona sfondata, quanto piuttosto
la
scocciatura di dover aver a che fare con quella grassona pettegola
della
portiera. La stessa che urla come una fruttivendola ogniqualvolta
parcheggia vicino
al suo giardino la motoretta con cui gira in cerca di lavoro.
Come
se poi le marmitte potessero
cacciare Chanel n°5 e lei tenesse un eden invece di quelle
quattro piante
rachitiche. Pensa
acido. Marò,
quant’è vero iddio è sicuro che tengono il complesso dei
sette nani! Ne
conclude gettando un’occhiata tutt’intorno e
salvando da quella miseria silvana
solo l’olivo, il quale, essendo stato piantato molto tempo
addietro, addirittura
quando la zona era ancora una distesa di aperta campagna, svetta come
un
gigante tra i pigmei.
Ha
voglia ad innaffiare e passare il
tempo a zappare, rumina donn’Eduardo
sempre in cerca della donna, che pare scomparsa. Certamente non per
consegnare
la posta che s’accumula nella guardiola, lamenta ripensando alla
raccomandata urgente che gli
ha consegnato in ritardo. E d’accordo che la cambiale scaduta
era già al terzo
avviso, però è colpa anche di quella lardosa se
è finito ancora una volta in
protesto!
Fa
il giro del caseggiato e bussa all’odiata porta ma nessuno
risponde, quindi non
gli resta che ritornare sui suoi passi e avventurarsi senza permesso
tra i
cespugli.
Chi
se ne fotte,
pensa impermalito, neanche ci fossero da rubare le
gigas del Madagascar! Tuttalpiù, gli sovviene con un lampo
di genio, lo stesso
genio levantino della sua gente, potrebbe fregarsi un po’ di
basilico per
insaporire il sugo in scatola che mangerà più
tardi. Ma ancora una volta la
iella lo colpisce perché di
fiori
inservibili ce n’è a iosa, mentre le piante da
frutto sono spoglie e non c’è
nient’altro di utile ad uno scopo vagamente commestibile. In
compenso a terra
c’è un tappeto di arance marce.
E
certo,
considera incattivito, saranno quelle che stanno
troppo in alto per arrivarci senza scala e figuriamoci se quel peso
massimo può
arrischiarsi in bilico verso gli ultimi rami. Come niente cadrebbe,
provocando pure
una scossa di terremoto.
Infine
eccola là la sua roba e, ovviamente, dove vuoi che sia
finita la biancheria,
faticosamente lavata a mano, se non su quella frutta fetente? Prende un
paio di
slip con due dita e malinconicamente appura che gialle erano prima e
gialle sono
tornate ad essere le sue mutande dall’elastico moscio.
E
vabbé, sapete che ci sta di nuovo?Stanno
bene così! Sbotta lasciandosi andare
al livore. Tanto se ai tempi di Pappagone si faceva il bucato con la
cenere e
le foglie d’alloro, per quanto lo riguarda, lui
può fare lo stesso e tenersele
tranquillamente con l’afrore delle scorze
d’arancia!
“Ma
che state facendo nel mio giardino?”
Lo
apostrofa malamente la portiera con le sporte della spesa ancora in
mano, ché
lo conosce bene quel relitto, e morto di fame, del piano nobile. E non
si
sorprenderebbe affatto se tra il lusco e il brusco avesse razziato
parte
dell’orticello.
“Eh
sì, l’invasione di villa reale, ma fatemi
la cortesia signò!”
Risponde
sdegnato ultimando di raccogliere gl’indumenti macchiati,
senza darsi pena di
chiedere scusa per l’intrusione. Al che inaspettatamente la
donna di fa un
sorriso, raccoglie un paio di ranuncoli e glieli porge insieme ad una
busta che
cava da una tasca.
E
mannaggia à morta! Pensa Eduardo Scannapieco
prendendosi l’ennesimo
colpo in faccia senza reagire.
Ha
tra le mani un intimo di sfratto e non sa davvero cosa farà
domani.