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Autore: Keyra    03/06/2011    0 recensioni
Sa benissimo che aver resettato parte della sua vita come se fosse effettivamente possibile farlo, che aver escluso dal suo campo visivo ogni possibilità di riallacciare rapporti umani che vadano oltre un tipo di amicizia sicuramente sincero, ma sempre un po’ traballante, dalle fondamenta non ben accertate, è la ragione per cui vivere con se stessa è un po’ come vivere in una gabbia di vetro, al cui esterno tutto continua a scorrere nella più completa normalità, senza che però, chi ne è rinchiuso dentro, possa intervenire a modificare in qualche modo lo svolgersi repentino degli eventi. Sa benissimo che il suo finirà per essere un cuore sterile.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Potremmo continuare a spiare Cecilia nel sovrapporsi di fotogrammi istantanei e abitudinari che ogni giorno, seguendo la triste logica dell’ordinarietà, compongono la sua vita, pezzo per pezzo, ma non lo facciamo,   abbandoniamo il suo personaggio all’entrata di scuola, osservando da lontano il suo corpo imperfetto sparire dietro il portone di legno seghettato da sottilissime rughe incise dalla profonda dedizione del tempo.
Riavvolgiamo la pellicola e torniamo indietro di qualche quarto d’ora. Inquadratura di un giardino ben curato, l’odore di erba bagnata, una villa a due piani coperta da una rete zigzagata di edera centenaria, il silenzio della collina immersa nel torpore delle sette e mezza di mattina. Ci intrufoliamo dentro quello che potrebbe sembrare un set cinematografico per un telefilm a puntate in onda una volta alla settimana, ma invece è una villetta abitata da persone vere con una vita vera. Entriamo, misuriamo a passi lenti e leggeri l'ampiezza del salone che si apre davanti all'ingresso come a dire "benvenuti e mettetevi comodi", osserviamo con un misto di imbarazzo e incredulità l'eleganza di ciò che ci circonda, i mobili super-moderni ma non per questo rozzi, il divano a L che occupa un terzo della stanza, gli specchi, i quadri, il tappeto persiano sul pavimento, il lampadario, il televisore a schermo ultrapiatto, i soprammobili delicati, le foto di famiglia; ma non ci facciamo intimidire.
Saliamo le scale a chiocciola che portano al piano superiore e scivoliamo dentro la prima stanza a destra.
Matilde è in piedi da nemmeno tre minuti, guarda allo specchio i suoi occhi arrossati e la massa informe di capelli che le pesa sulla testa. Si massaggia le tempie nel tentativo di alleggerire il senso di stanchezza che sembra scavarle da dentro le forze per affrontare un'intera giornata. Fa un profondo respiro e si volta verso la cabina-armadio della sua stanza. Ci entra, si guarda attorno con un'aria indifferente alla quantità di vestiti appesi, senza vita, che aspettano di essere usati da mesi, comprati e mai indossati, dà una rapida occhiata alle gonne, poi alle camicette ordinate rigorosamente secondo la vasta gamma di colori a disposizione, ritorna con lo sguardo alle gonne, ne prende una azzurrina, ritorna alle camicette, ne prende una sul beige a motivo floreale, esce dalla cabina-armadio, esce dalla sua camera, entra nel bagno e noi qui non possiamo certamente seguirla, aspetteremo che esca e intanto esploreremo in silenzio il resto della casa.
Dopo un quarto d'ora Matilde è seduta alla fermata dell'autobus. L'assenza di rumori sopperisce allo sprigionarsi di odori primaverili che si insinuano nelle narici come quando una quantità eccessiva di profumo scivola fuori dalla boccetta allargandosi sui polsi e intasando i recettori olfattivi.
Non fa freddo, ma un leggero venticello smuove i suoi capelli lunghissimi e liscissimi, scomponendo quell'immagine di scultorea teatralità che si è appiccicata addosso, da quando, cinque anni prima,  ha cominciato il liceo. L'immagine di una musa ispiratrice esente da alcun tipo di difetto o di mancanza, di nervi scoperti, di fragilità sottili che possano renderla debole o esposta al rischio di risultare normale. Una contraddizione intrinseca ad ogni essere umano ma più di tutto a se stessa, che lei ha cercato in tutti i modi di anestetizzare con giornate liquidate nell'inutilità di rapporti superficiali e nullificanti, in sorrisi riprodotti con varie tonalità di sincerità posticcia, diluita in dosi ben calibrate di altezzosità congenita, nella ricerca di una gestualità non ordinaria ma nemmeno troppo stravagante, nella selezione accurata e semi-professionale delle emozioni, filtrate attraverso un canale di comunicazione interna gestito dalla sua capacità di organizzazione emotiva.
Matilde crede di stare bene, dopotutto. Il complesso lavoro di falsificazione della sua personalità ha innescato meccanismi di auto convincimento talmente avanzati, talmente efficaci, da renderla praticamente un'estranea di fronte alla parte più interna, più profonda, di se stessa. Non si ricorda nemmeno più delle poche volte in cui si è sentita in grado di svuotarsi completamente delle forzature mentali e sentimentali che la imprigionano in una persona che in fondo, forse, non è, di quelle volte in cui si è sentita libera di scivolare fuori, all’aria aperta, con tutti i fili scoperti e la vulnerabilità di cui aveva bisogno. Non soffre come potrebbe soffrire, non rimpiange una vita che potrebbe avere, perché, in fondo, è fortunata. Ha un corpo sinuoso e aggraziato, slanciato quel che basta, un viso lungo e sottile, la pelle chiara, perfettamente liscia, capelli nerissimi, mani magrissime, gambe che sembrano fatte per essere mostrate agli altri. Abita in una casa in collina, due piani con piscina, comprata dai suoi genitori quando aveva tre anni, non sa cosa voglia dire la parola "risparmiare", né tanto meno cosa significhi avere un budget limitato da poter spendere il sabato pomeriggio nei negozi in centro. E' stata in ognuno dei cinque continenti, due volte a Parigi, tre volte a Londra, una a Berlino, a Praga e a Madrid, una volta in Turchia, un'altra in India, ha fatto un safari in Namibia, è stata a New York e a Canberra. Certo, la separazione dei suoi non è stata una delle esperienze più facili da attraversare, ma in fondo lei crede che sia stato meglio così, che negli ultimi anni suo padre e sua madre fossero arrivati, ormai, a un punto di rottura inevitabile. Non riuscivano più a sostenere il peso di tradimenti occultati e bugie quotidiane ingoiate in pillole come antistaminici salva-vita. Il loro matrimonio era diventata una finzione reciproca, un volersi attaccati, un volersi vicini, per non annegare nell'insicurezza di un porto a cui approdare in caso di naufragio improvviso. Sicuramente vorrebbe vedere il padre un po' di più, ora che abita a Roma, ma dopotutto poteva andarle peggio. Se lo ripete spesso, ogni volta che ha un attimo di tempo libero per pensare.
Matilde vede l'autobus arrivare, si alza e fa segno con un braccio perché si fermi.
Anche per lei comincia un'altra giornata dalla programmazione bilanciata e imparata a memoria, incline alla non-improvvisazione e alla contraffazione di ogni possibile novità in agguato. Anche lei tra una ventina di minuti oltrepasserà quel vecchio portone di legno scheggiato, come Cecilia, forse insieme a Cecilia, si saluteranno, accenneranno un sorriso leggermente contratto, prenderanno posto dietro i loro rispettivi banchi e si prepareranno a sei lunghe ore di lezione con un sospiro che, nonostante la lontananza abissale, fisica e mentale, che separa le loro vite, avrà un che di simile, un punto di contatto che, se solo sapessero di avere, se solo provassero a cercare e a far combaciare i due mondi paralleli in cui sono immerse, provocherebbe una serie di reazioni a catena incontrastabili e simultanee, fuori dal controllo delle loro menti così eccessivamente strutturate, costantemente in posizione di difesa.
  
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