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Autore: Ely79    12/06/2011    1 recensioni
Charlie è entrato a far parte dell’Ordine della Fenice e, per la prima volta in vita sua, si trova a riflettere sulla sua vita e su quella di chi gli sta attorno.
Storia seconda classificata al "Modà Contest" indetto da xela182.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Charlie Weasley, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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- Questa storia fa parte della serie 'Charlie Wesley'
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Cap. II
II

18 luglio 1995, ore 01:43
Maramures, Romania
Sede della Riserva di Protezione dei Draghi
Portico

Aveva solamente finto di salire in camera. Non appena il cigolio del letto dei Varga e le parole sommesse dei coniugi si erano zittite, Charlie era ridisceso in punta di piedi ed era uscito, accompagnato da quel che restava nella bottiglia.
Le assi del pavimento e l’intonaco dei muri del portico emanavano un odore vecchio e polveroso, accogliente. Un aroma di casa, che si mescolava piacevolmente a quello dei boschi, profumati di freddo e resina.
Aveva scovato a tentoni la panca accanto all’ingresso - l’unica che non traballasse in maniera preoccupante - e si era seduto poggiando i piedi sulla balaustra, sprofondando nei suoi pensieri e nelle sensazioni che la notte gli suscitava.
Diventare un eroe.
Come gli era passato per la mente quel pensiero? Certo, agli occhi di Ron lo era sempre stato, era il suo fratello maggiore preferito, a maggior ragione da quando lavorava con i draghi. Il suo caro fratellino non aveva mai mancato di fargli notare quanto quel mestiere fosse “forte”, persino più di quello dello Spezzaincatesimi di Bill. La discussione su chi avesse scelto il mestiere più eccitante aveva generato una diatriba ancora irrisolta tra Ron e Ginny, che però non l’aiutava a venire a capo dei pensieri che lo rendevano insonne.
«L’eroe Charlie Weasley» mormorò tra sé, cercando di immaginarlo pronunciato dalla voce di uno speaker radiofonico o riportato nei titoloni sulla Gazzetta del Profeta.
Aveva un suono davvero bizzarro, ma non avrebbe saputo dire se era anche sgradevole. Forse no. Tuttavia doveva rammentare a sé stesso che chi era stato definito eroe, nella stragrande maggioranza dei casi, non aveva vissuto abbastanza per sapere di esserlo diventato. Una prospettiva deprimente.
«Ioan non ha tutti i torti, c’è modo e modo di fare la propria parte» meditò, buttando giù una lunga sorsata.
Il discorso fatto dal collega, tutto d’un tratto, aveva preso l’aspetto di un allettante quadro domestico. Uno di quelli in cui rivedeva le belle serate della sua infanzia, quando non aveva la minima idea di cosa fossero i pericoli, la paura, e i draghi erano animali giocherelloni che potevi far dormire nel tuo letto, con la sola magia di un sogno ad occhi aperti. Era una bella immagine, piena di dolcezza, tranquillità, spensieratezza, conforto. Quanti bambini avevano dormito, dormivano ed avrebbero dormito beati come lui stesso aveva fatto, tenendosi stretti un pupazzo pieno di corna e rattoppi variopinti? Un pupazzo con un nome, un carattere, una voce, reali anche se immaginari? Un pupazzo ricevuto dalle mani di un genitore. O di un nonno amorevole.
Charlie sorrise, rigirandosi la bottiglia quasi vuota tra le mani. Sì, ce lo vedeva proprio Ioan Varga, seduto davanti ad una torma di nipotini adoranti in attesa dei suoi racconti sulla Riserva ed i suoi colossali abitanti. E davanti a lui, chi ci sarebbe stato? Magari i figli dei suoi fratelli o quelli di Andrea e Helia, se la storia fra i suoi due colleghi avesse avuto quel genere di sviluppi. Dopo tutto, Charlie non aveva mai pensato seriamente di farsi una famiglia.
«Ho dato la mia parola a Silente. Troverò aiuto» disse tra sé, sentendo i dubbi ribollire mentre venivano a galla.
Scolò l’ultimo sorso, per schiarirsi le idee. Ma per ogni pensiero che cancellava, altri cento si affacciavano. Era come cercare di togliere una stella dal firmamento.
Passò la mano sul braccio sinistro, seguendo la linea del tatuaggio con la scritta DRACONARIUS. Ripensò a quando se l’era fatto, spinto da un articolo che parlava del ritrovamento di un vessillo romano raffigurante un drago. Era stato il giorno in cui aveva decretato ufficialmente la creazione di una nuova persona, il giorno che aveva sancito la nascita del suo vero io. Dopo anni passati ad essere “un” Weasley, aveva potuto finalmente gettare le basi per diventare “Charlie”,  per diventare la versione moderna del vessillifero romano che si prendeva cura dei draghi e ne portava le insegne in battaglia. Battaglie per la libertà, per proteggere le persone amate, per difendere un posto da chiamare casa.
Girò lo sguardo intorno. Fuori della Sede, il buio era sembrato denso e piatto, ma dopo qualche minuto la flebile luce di una minuscola falce di luna aveva preso a ritagliare i contorni delle cose. La massa puntuta della foresta, il pendio che scendeva al torrente, i monti più lontani. E il laghetto, sul cui fondo stava certamente dormendo Siglinde. Ogni cosa era immobile, quieta, pervasa da una pace che aveva dell’ultraterreno.
Per quanto Charlie non avesse mai prestato troppa attenzione ai credo professati dai compagni di scuola Nati Babbani o Mezzosangue, riusciva a percepire un che di immanente in quello spettacolo cupo e silenzioso. Ioan lo chiamava alla latina, genius loci, lo spirito del luogo. Diceva che essere in grado di percepirlo significava appartenergli, appartenere alla terra di cui lo spirito era custode.
Non Ottery St. Catchpole con la Tana, non Londra, non l’Inghilterra. La Romania era diventata la sua casa. Quello era il suo posto, la sua terra, il suo mondo. Il luogo dove desiderava essere in quei momenti, mentre la tempesta sembrava addensarsi nelle parole di Silente. Sapeva che nessun luogo sarebbe stato sicuro se la minaccia si fosse palesata, ma tra quelle montagne e quei boschi poteva vivere l’illusione di sentirsi al sicuro.
Invece mettere piede a Londra lo aveva lasciato smarrito, perso in un dedalo di vie dove i nemici si nascondevano dietro a volti anonimi. E quando tutta la città si era addormentata, aveva camminato guardando il cielo per cercare un riflesso della sua amata Romania. Dopo tutto, la volta celeste era la medesima, solo vista da molte centinaia di miglia di distanza. Ma oltre i tetti di Londra lo spazio era ingombro delle luci e del brusio del traffico Babbano. Le stelle, la luna, persino il colore del cielo erano quelli di un mondo distante, a cui sentiva di non appartenere più. A poco erano servite le risate di Tonks, che l’aveva incontrato all’angolo della strada, col naso per aria.
Pur restando profondamente legati, Charlie aveva continuato a sentirsi fuori posto anche con lei vicina. I suoi capelli rosa brillavano nelle ombre dei marciapiedi, attirando gli sguardi dei pochi passanti. Un paio di ragazzi Babbani, dai capelli altrettanto variopinti, il avevano fermati per chiederle dove le avessero fatto quel colore da urlo. Tonks aveva sghignazzato furba, mettendosi fra i due e posandogli le braccia sulle spalle con fare cospiratorio.
«Volete saperlo, eh? Beh, è un segreto segretoso, ma per voi farò un’eccezione» aveva cominciato, facendo cenno di avvicinarsi perché potessero udire la fenomenale rivelazione: «É… magia!»
Quei due erano rimasti impalati mentre loro si allontanavano, piegati in due dal ridere.
A ripensarci in quel momento, seduto sulla panca, sentiva gli angoli della bocca curvarsi verso l’alto.
«La verità è che non ho idea di dove cominciare. Il mio romeno fa schifo; oltre a un paio di tizi del Ministero, conosco poche persone fuori della Riserva. Non so con chi parlare! E a guardarmi, tutto bruciacchiato, masticato e triturato, faccio spavento. Non sono proprio un buon biglietto da visita per l’Ordine» sbuffò ironico.
Aveva detto a Silente che gli strepiti e i divieti di sua madre non gli avrebbero impedito di pensare con la sua testa, per questo aveva accettato di aiutare l’Ordine. Ora però che si trovava faccia a faccia con il compito assegnato, ecco che le magagne saltavano fuori e la spavalda sicurezza che aveva mostrato faceva un bell’inchino mentre tentava la fuga. Con buona pace di quel gufo iettatore di Piton, che pareva averlo previsto.
«Devo constatare, Weasley, che come supponevo l’età non ha portato alcun beneficio alla vostra incapacità di soppesare i pro e i contro delle situazioni. D’altra parte pare sia una peculiarità strettamente Grifondoro» aveva sibilato, astioso come sempre, alla notizia dell’affiliazione sua e di Bill.
Detestava dover ammettere che quell’irritante pipistrello nasone aveva visto giusto: aveva accettato spinto dagli eventi, da valori che sentiva suoi, senza badare a quello che poteva fare concretamente. Per non parlare di Burak: quella sera, accanto alle motivazioni del suo diniego, aveva avanzato l’ipotesi che si fosse sentito spinto ad accettare l’incarico perché affascinato dal carisma di Silente che, presentandosi di persona alla Sede, lo aveva in qualche modo soggiogato.
Scosse il capo, per scacciare quell’idea assurda. Lui non era tipo da farsi manovrare a piacere. Aveva creduto alle parole di Silente perché sentiva che erano vere, perché credeva ai racconti spaventosi di Ron ed al timore nello sguardo di sua madre.
Rimase piegato in avanti, la testa tra le mani. Non era mai stato bravo nelle valutazioni di lungo corso, preferiva riflessioni spicce, pratiche, immediate.
Ad un tratto, ebbe l’impressione di non essere più solo. Nei paraggi gironzolavano mannari ed altre creature magiche, che raramente si avvicinavano. Tese l’orecchio. Una serie di tonfi lievi si allargava nel silenzio della valle. Dapprima appena percettibili, poi sempre più distinti. Andavano verso di lui.
Strizzò gli occhi e dalla notte del Maramures si staccò un lembo sinuoso che scendeva dalla sommità del prato. Osservandolo con attenzione poteva indovinare una vaga sfumatura bluastra ed il luccichio appena accennato delle stelle sulla livrea.
«Siglinde» chiamò sottovoce.
Il drago si avvicinò e protese il muso a cuneo fin sotto il portico. Fiutò l’aria in cerca del punto dove Charlie era seduto. Nessun incantesimo di protezione scattò: l’animale non aveva cattive intenzioni. Al contrario: la femmina era solo in cerca della quotidiana dose di coccole che il morfologista – come gli altri colleghi – le elargiva.
«Che ci fai in giro? Le signorine per bene dormono a quest’ora» scherzò, pizzicandole le creste che le ornavano gli zigomi.
Siglinde gorgogliò sommessamente. Le squame erano tiepide e bagnate, odoravano di erbe acquatiche.
«Fatto buona caccia?» le chiese.
Lei schioccò le mascelle, soddisfatta.
«Meno male che ci sei tu, dragoncella» rise.
Avevano fatto pace solo quel pomeriggio, eppure sembrava che la loro amicizia non fosse stata minimamente scalfita. Averla Schiantata perché non ammazzasse il compagno che le avevano proposto non era stata una bella mossa, ma a quanto pareva, i draghi avevano un’idea del perdono tutta loro. Dopo giorni di sibili e soffi furibondi, la Zaffiro gli aveva rifilato un bel morso sulla spalla ed al tempo stesso lo aveva guarito, macerandolo di saliva. Avrebbe potuto ucciderlo, ma non l’aveva fatto: l’aveva punito. Gli voleva troppo bene per affondare le zanne fino al cuore.
Quella dimostrazione d’affetto l’aveva colpito profondamente.
«Sono contento che tu sia qui. Ci sono notti in cui non so proprio con chi parlare, perché parlo solo con te. Dei miei dubbi, delle mie paure. Di queste cose qui» le confidò, poggiando la fronte sulla punta del naso squamoso. «D’altra parte con chi potrei farlo? Con Stefan? Ioan? Hanno già vissuto una guerra, non hanno voglia di rivangare il passato. Ioan me l’ha detto anche prima. Burak? Liquiderebbe tutto con un “non farti problemi, non pensarci”. Helia? Poliana? No, è fuori questione. Non potrei parlarne nemmeno con Andy. Insomma… non ce la farei a restare serio e poi Andrea comincerebbe a dirmi quanto è perso per Helia, direbbe che senza di lei non potrebbe vivere e robe simili e per questo vuole aiutarmi, e mi toccherebbe stare zitto. E poi, parlare… non è proprio il termine giusto con te. Sei un drago, non parli, ma capisci lo stesso quello che voglio dire. Anzi, forse tu mi capisci meglio di loro. Tu percepisci quelle cose che non so a tirar fuori, quelle… sensazioni, quei sentimenti che non riesco a tradurre. Vero?»
La Zaffiro si limitò a fissare il morfologista, il muso a cuneo a breve distanza dal volto lentigginoso. Il suo respiro gli scompigliava le ciocche sulla fronte, pareva accarezzarlo.
«Meno male che ci sei tu, dragoncella» ripeté, scendendo con un balzo nel prato.
Lo sguardo cadde sulla macchia pallida della cicatrice sul fianco della creatura. Erano passati alcuni anni dal giorno in cui Siglinde aveva perduto la madre e l’ala destra. Le aveva aggredite una Spinata, la stessa che avevano portato ad Hogwarts l’inverno precedente e si era meritata il soprannome di Isterica, dopo la performance con Harry Potter.
Ripensare al passato della Zaffiro gli riportò alla mente le vicende del Tre Maghi, che era appena riuscito ad accantonare.
«Come si fa, Siglinde? Come si supera la perdita di una persona cara?»
Charlie non sapeva darsi pace. Il volto di quel ragazzo continuava a passargli davanti agli occhi. Conosceva la famiglia Diggory: suo padre e Amos erano grandi amici e lui aveva visto Cedric ruzzolare giù dalle colline quando era piccolo, riempiendosi di graffi mentre giocava con tutta la torma Weasley. Ora era come guardare una vecchia foto, dove una delle persone ritratte era rimasta fuori campo per errore. Se ne intuiva la presenza, ma materialmente non c’era. E quell’assenza, quel vuoto, gli dava i brividi.
«Cosa farei se dovesse succedere a me? Se qualcuno della mia famiglia venisse a mancare per mano di quel mago?»
La creatura non rispose. Se ne stava di fronte a lui, fissandolo in silenzio, bella e ieratica come le statue degli dei d’Egitto che avevano affascinato il Guardiadraghi due anni prima.
   
 
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